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Il Papa, la decrescita, il PD e Grillo

'L''Enciclica fatta passare come ''ecologica'' quando invece affronta di petto la principale questione, il fallimento esistenziale e sociale del capitalismo [Alessandro Gilioli]'

Il Papa, la decrescita, il PD e Grillo
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22 Giugno 2015 - 21.39


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di Alessandro Gilioli.


Tutto sommato, fra le molte reazioni ipocrite all”Enciclica del papa quella dell”ipersviluppista Luca Simonetti almeno è onesta: tutte cazzate, ha detto in sostanza alla Stampa, «una nebulosa ideologica piena di errori tecnici».

Per il resto, è stata una pioggia di falsi complimenti da parte di
quasi tutto l”establishment politico ed economico che costituisce il
vero obiettivo polemico dello scritto di Francesco: la cui Enciclica è
stata fatta passare come “ecologica” quando invece affronta di petto la
principale questione del presente, cioè il fallimento esistenziale e
sociale del capitalismo così come si è declinato dalla sua fase
novecentesca a quella postindustriale. [..]


Fallimento esistenziale: nel senso che attraverso quel modello tutto iper
(iperproduzione, iperconsumo, ipercompetizione, iperiniquità
distributiva etc) l”umanità ha creato attorno a sé condizioni di vita un
po” troppo avvelenate: intendendo come veleni sia quelli dell”ambiente
nel quale viviamo sia quelli che inquinano la qualità delle nostre ore,
del nostro tempo, del nostro vivere quotidiano totalmente speso nel
produrre e nel consumare, tuttavia nel terrore continuo che una
diminuzione di questo produrre e di questo consumare ci renda ancora più
infelici. Un paradosso.

La questione della critica esistenzialista al capitalismo è antica e
passa attraverso filosofi, romanzieri, sociologi. E però – hanno ragione
quelli come Simonetti – manca di una teorizzazione sistematica, di una
struttura onnicomprensiva e risolutiva come pretendeva di essere – ad esempio – quella di Marx nella sua critica al primo capitalismo.

A me in verità questa carenza strutturale non spaventa, anzi non sembra nemmeno tanto un minus:
abbiamo visto che fine hanno fatto, le macroanalisi sistematiche e
ideologiche, specie quelle con ambizioni definitive. E credo che il
pensiero sistematico sia abbastanza figlio dell”Ottocento, dei tentativi
di ridurre l”infinita complessità del reale in un unico tomo. Il che
non è proprio cosa riproponibile nell”infinito caos mutante della
contemporaneità.

Resta tuttavia, come un macigno, quella cosa lì, cioè la denuncia che
questo Papa (il quale, sì lo so, è antiabortista, antidivorzista etc
etc) sta provando a far transitare da una piccola fetta di
tardo-fricchettoni o di eccentrici intellettuali francesi alla
discussione mainstream, al dibattito diffuso: l”insostenibilità
esistenziale di un modello di produzione e di ripartizione, quindi la
necessità di modificare almeno in parte questo modello, di cambiare un
po” le coscienze e la politica in questo senso.

E qui viene spontaneo pensare al movimento cosiddetto
“decrescitista”, alla cui base com”è noto ci sono i libri  del filosofo
dell”economia Serge Latouche. Fra i padri di questa corrente di pensiero
però c”è anche Nicholas Georgescu-Roegen, l”economista rumeno secondo
il quale era necessario ripensare radicalmente un sistema industriale
che, in base ai principi della termodinamica, non poteva che
assottigliare nel tempo l”energia e le materie prime fino al loro
azzeramento. Altri ancora fanno risalire le radici del decrescitismo nel
Club di Roma di Aurelio Peccei, a cui il Mit di Boston nel 1972
commissionò il “Rapporto sui limiti dello sviluppo:” uno studio in cui
venivano indicati i rischi per l”umanità derivanti da un meccanismo che
si regge sul principio di una crescita infinita, a cui veniva
contrapposta la necessità di un modello che gradualmente “planasse”
verso una stabilità ecologica ed economica.

Secondo Latouche, tra l”altro, il decrescitismo è «l”unico progetto
politico in grado di ridare un senso alla sinistra» perché «si fonda su
una critica radicale del liberismo e si ricollega all”aspirazione
originaria del socialismo».

Per capire se può avere ragione o no, bisogna subito chiarire alcuni
malintesi: la decrescita – almeno nelle intenzioni di chi la propone –
non è la recessione, cioè la crescita negativa del Pil; è un modello di
società in cui le relazioni umane – quindi anche quelle economiche – non
sono più finalizzate al Pil, che diventa così solo una fra le tante
misurazioni del vivere sociale, decisamente una delle meno importanti
per stabilire la qualità di vita di una popolazione. Molto più rilevanti
sono gli aspetti immateriali della nostra esistenza, come il tempo
libero, le relazioni umane, l”ambiente, la creatività, la convivialità,
il piacere della generosità e quello della cultura.

Secondo Latouche, la limitazione dei livelli di consumo e produzione
non riporterà ad una vita di privazioni né al “ritorno alla candela”,
bensì a un miglioramento complessivo della qualità della vita; e questo
avverrà non nonostante la diminuzione dei beni in nostro possesso, ma proprio grazie
alla liberazione della schiavitù dell”acquisto compulsivo e
dell”iperlavoro necessario per ottenerlo. In termini pratici Latouche
propone quindi le sue“otto erre” (rivalutare, riconcettualizzare,
ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare,
riciclare). Ma qui vi rimando alla lettura diretta se non l”avete già
fatta.

In estrema sintesi, comunque, il decrescitismo si basa quindi
sull”assunto secondo cui «una crescita infinita è incompatibile con un
pianeta finito», come dice lo stesso Latouche: «Viviamo in un mondo
dove milioni di lavoratori lavorano sempre di più, troppo, impazziscono,
si stressano, si suicidano, e altri milioni di persone invece non
lavorano affatto», quindi «lavorare meno è una delle misure per
risolvere la disoccupazione, e altre sono la rilocalizzazione e la
riconversione ecologica», attuando «un protezionismo sociale per
permettere a tutti di lavorare e un protezionismo ecologico per salvare
il pianeta», mentre «la concorrenza e il libero scambio sono il
protezionismo dei predatori, degli speculatori, delle banche».

Sono idee che hanno impattato diversamente sulla sinistra italiana:
si va dal rifiuto caricaturale del decrescitismo, visto come ritorno a
una società feudale, povera e contadina; fino all”estremo opposto, cioè
all”esaltazione acritica delle teorie di Latouche come se queste
costituissero l”equivalente postindustriale del pensiero marxengelsiano.
In mezzo, l”area che guarda a quelle di Latouche come positive
suggestioni, in fondo molto simili a un filone storico di una parte
della sinistra italiana, che va dallo slogan “lavorare con lentezza”
propugnato nel 1977 da Radio Alice fino al movimento No Tav e più in
generale all”opposizione contro le cosiddette grandi opere.

Decisamente fra i primi, cioè saldamente ancorato a una visione
sviluppista, è il pensiero prevalente del Partito democratico. Ai tempi
di Bersani questo era proprio un cardine (tanto che l”allora segretario
democratico definì «marziano» l”avversario Grillo perché parlava di
decrescita felice) ma anche Renzi si è espresso in modo molto chiaro in
proposito: «Non usciremo dalla crisi con la decrescita ma creando posti
di lavoro e investendo sull”Italia».

Non stupisce la contrarietà verso la decrescita del Pd “dei ceti
produttivi”. Anche se la realtà è un po” più sfumata perché Enrico
Berlinguer già negli anni Settanta parlava di un “nuovo modello di
sviluppo” e su questo ha scritto un libro il docente universitario e
deputato di Sel Giulio Marcon, per la collana “I precursori della
decrescita”, curata dallo stesso Latouche. Sostiene Marcon a proposito
di Berlinguer: «I suoi discorsi sull’austerità, i suoi comportamenti e
il suo temperamento sobrio e misurato, la sua tempra morale indicano le
tracce di una ricerca politica e di una dimensione umana che alludono –
anche esplicitamente – alla critica della hybris della società
capitalistica e di un modello consumistico che a partire dagli anni
Sessanta stava corrodendo e corrompendo la società italiana e
l’Occidente».

Per quanto riguarda i Cinque stelle invece la vicinanza alle tesi di
Latouche è più profilata e chiara. Sia nei comizi sia nel suo blog,
Beppe Grillo cita spesso il filosofo francese per argomentare che «la
crescita non crea lavoro, crea solo disperazione»; e il capitolo
“energia” del programma M5S sembra decisamente ispirato al concetto di
decrescita: impianti di micro-cogenerazione, incentivazione della
produzione distribuita di energia termica con fonti rinnovabili,
battaglia contro le inefficienze e gli sprechi attuali nella produzione
termoelettrica che non sono accettabili né tecnologicamente e così via.

Fin dai suoi show immediatamente successivi alla defenestrazione
dalla Rai, Grillo aveva iniziato a proporre riferimenti sempre più
frequenti agli sprechi assurdi e antiecologici della società
consumistica. Come nel celebre sketch sullo spazzolino da denti: «Di
cosa è fatto uno spazzolino? Di plastica. Da cosa si ricava la plastica?
Dal petrolio. E’ rosso perché lo abbiamo colorato e ci abbiamo aggiunto
un po’ di cloruro. Ogni tre mesi il tuo dentista di fiducia ti dice,
devi cambiare lo spazzolino. Quanti ce ne saranno in Italia in questo
momento? Venti milioni? Ogni tre mesi venti milioni vanno
nell’immondizia, finiscono in un forno, vengono bruciati. I cloruri
diventano diossina, vanno nell’aria. Piove, la diossina va nel mare,
viene assorbita dal plancton, il pesce mangia il plancton, tu esci, vai
al ristorante, mangi il pesce e ti sei mangiato il tuo spazzolino».

L”avvicinamento vero di Grillo al pensiero decrescitista è tuttavia
successivo e avviene grazie all”incontro con studiosi come Mauro
Gallegati (che in realtà sembra più vicino alle idee di Joseph Stiglitz e
di Fritjof Capra sulla “crescita qualitativa”) e Maurizio Pallante
(fondatore del fondatore del Movimento Decrescita felice, spesso ospite
nel blog del comico genovese). Un altro riferimento importante per
Grillo in questo percorso è lo scienziato Marco Morosini, docente al
Politecnico federale di Zurigo ETH, conosciuto dopo uno spettacolo al
teatro Smeraldo di Milano nel 2003: è lui che gli spiega
l”insostenibilità dello sviluppo attuale e poco dopo inizia a inviargli
idee e proposte concrete. «La prima era quella di ridurre il consumo di
energia da 6000 a 2000 watt pro capite all”anno: è il cardine della
scelta energetica del governo svizzero nel 2002 come obiettivo entro il
2050», racconta Morosini. E poi: «Ridurre il consumo di materie prime da
40 a 20 tonnellate pro capite l”anno, per limitare il saccheggio che
stiamo facendo del pianeta». E ancora: «La settimana lavorativa di 30
ore da subito e di 20 ore tra vent”anni, allo stesso stipendio, perché
un terzo del Pil che produciamo fa danni, un terzo serve a riparare i
danni e solo un terzo è utile, basta concentrarsi su quest”ultimo». È
così che Grillo arriva alle sue posizioni attuali, espresse nel
libro-manifesto scritto con Gianroberto Casaleggio: «La vita non è
lavorare 40 ore alla settimana in un ufficio per 45 anni. È disumano.
Stavano meglio gli irochesi e i boscimani che dovevano lavorare un’ora
al giorno per nutrirsi».

Alle spalle di tutto questo ci sono, come accennato, molte
riflessioni di pensatori che già in passato hanno posto o affrontato la
questione: da un padre dell”economia come Thomas Malthus, due secoli fa,
al sociologo americano Thorstein Veblen, agli inizi del Novecento, fino
al filosofo ungherese Karl Polanyi, negli anni Cinquanta. Già allora si
cercava di separare «la crescita materiale misurata dal Pil e lo
sviluppo inteso come progresso di valori civili, sociali e culturali».

Oggi la prevalenza di quest”ultimo sembra avere tuttavia bisogno non
solo di mutamenti legislativi in termini di politiche energetiche ed
economiche, ma soprattutto di una grande trasformazione valoriale e
umana, a partire dall’istruzione primaria e dall’educazione familiare. E
non è un caso che uno dei contemporanei più attenti verso il
decrescitismo sia il giapponese Daisaku Ikeda, presidente della Soka
Gakai: l”associazione buddista secondo la quale qualsiasi grande
cambiamento sociale deve passare attraverso la trasformazione di ogni
essere umano, da raggiungere con il dialogo e la pedagogia.

Adesso parole simili sono arrivate dal capo della Chiesa cattolica,
appunto, che ha circa un miliardo di credenti. E che nella sua Enciclica
cita cinque volte il concetto di “interconnessione tra tutti gli esseri
viventi”, che non è certo esclusivo dei buddisti (c”è pure nel film
“Avatar”, per capirci) ma di quel filone di pensiero tuttavia sembra
parente stretto.

Forse ha ragione l”iperviluppista Simonetti: sono tutte cazzate ed è
una “nebulosa ideologica piena di errori tecnici”. Ma credo che se con
queste cazzate non si faranno i conti, in qualche modo, il vecchio
capitalismo vada a incocciare col suo musone contro il muro. E non in
tempi biblici.




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