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Monasteri del Terzo Millennio

E’ stato recentemente pubblicato il nuovo libro di Maurizio Pallante, forse l’opera più matura dell’autore e fondatore del Movimento per la Decrescita Felice.

Monasteri del Terzo Millennio
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6 Gennaio 2014 - 00.30


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di Dafni Ruscetta.

E’ stato recentemente pubblicato un nuovo libro di Maurizio Pallante, dal titolo ‘Monasteri del terzo Millennio’
(edito da Lindau), forse l’opera più matura dell’autore e fondatore del
Movimento per la Decrescita Felice. Non solo perché esprime una visione
d’insieme che è andata affinandosi negli anni, ma soprattutto in quanto
rappresenta un punto di svolta anche da una prospettiva più filosofica.
Non trascurando affatto, al contempo, le possibili soluzioni concrete
per un cambiamento culturale di ampia portata.

Diversi gli spunti interessanti offerti dalla lettura del libro, che
si apre con la constatazione del declino della spiritualità in Occidente
a favore di una dimensione più materialistica
, che trae origine dalla
fede nella scienza e che ha portato a privilegiare l’aspetto della
razionalità.

L’appiattimento delle relazioni umane, del rapporto con se
stessi, del rapporto col territorio, sarebbero le conseguenze di un
simile approccio, in cui le cose materiali, la concorrenza e la
competizione sono diventati i valori preponderanti.

Nelle attuali società fondate sui rapporti mercantili, in cui ciò che
conta è la crescita infinita della produzione di merci, tutti i
rapporti umani sono mediati dal denaro. A poco a poco si sciolgono i
legami con il territorio (l’abbandono delle campagne e dei piccoli
paesi è un esempio concreto), una
deresponsabilizzazione sempre maggiore nei confronti degli ecosistemi e
dell’ambiente in generale avanza. Ciò non accadeva, invece, nelle
società in cui ognuno ricavava i propri mezzi di sostentamento dal
territorio, ragion per cui nessuno aveva interesse a deturpare quel
territorio. In quelle stesse società gli scambi erano fondati sul dono e
sulla reciprocità, gli artigiani locali, ad esempio, scambiavano i loro
prodotti con quelli della terra. I legami sociali delle comunità
contadine rappresentavano un’importante norma non scritta.

La perdita di quei saperi, della cultura materiale, ha significato un impoverimento culturale,
perché quasi più nessuno è in grado di ‘saper fare’, ma occorre
acquistare tutto. La riduzione del tempo dedicato alle relazioni umane,
la mortificazione della creatività e la mancanza di spiritualità
rappresentano oggi vere e proprie mutilazioni dell’essere umano, che
causano profonde sofferenze interiori e una perdita di senso della vita.
Le conseguenze più evidenti sono la violenza verso se stessi e verso
gli atri: indifferenza nei confronti delle sofferenze altrui, aumento
dei crimini, insicurezza sociale, aumento della dipendenza da
psicofarmaci etc. E le sofferenze causate dall’attuale crisi economica
stanno per sfociare in una crisi sociale difficilmente controllabile,
perché nelle scelte individuali pesano anche e soprattutto i valori su
cui ogni società si struttura e modella l’immaginario collettivo.
Recuperare il saper fare e rivalutare la valenza culturale dell’autoproduzione sono due aspetti fondamentali di un cambiamento di paradigma culturale.

E qui Pallante offre un contributo davvero unico e originale, che a
mio avviso lo rende uno dei ‘filosofi’ più completi del nostro tempo: il
concetto di ‘contemplazione‘ (da cui deriva, probabilmente, il richiamo alla dimensione spirituale dei monasteri). Partendo dal principio ‘ora et labora‘
di alcuni antichi ordini monastici – secondo cui lo spirito e il corpo
rappresentano i due aspetti in cui si tradurrebbe la completezza umana –
la contemplazione, cioè l’osservazione con rispetto sacrale, sarebbe il
mezzo con cui raggiungere la perfezione e la completezza appunto.

D’altra parte, come ci ricorda lo stesso Pallante, l’agricoltura (la
parola deriva dall’unione delle parole latine ager=campo e cultus=venerazione)
è l’attività che consente agli esseri umani di partecipare alla
riproduzione della vita, ecco perché essa ha sempre avuto una forte
connotazione religiosa in tutte le epoche storiche. Ovviamente il fare
può essere finalizzato alla contemplazione solo se assume
caratteristiche etiche e spirituali, cioè deve essere un fare
disinteressato, finalizzato a custodire e migliorare il mondo, a
percepire la perfezione intrinseca di ciò che si osserva. Il fare ha,
allora, una connotazione qualitativa: è un’attività finalizzata a
realizzare miglioramenti. La dimensione spirituale degli esseri umani si
può valorizzare solo dedicando il meglio di sé. Il lavoro stesso
dovrebbe avere una connotazione spirituale.

La connotazione qualitativa del fare e la misura conferiscono
all’autoproduzione un valore che trascende la sua funzione
utilitaristica. Recuperare il senso e il valore della misura, che è il
fondamento dell’armonia. L’autoproduzione non si limita, pertanto, a
soddisfare le esigenze della sopravvivenza, ma rende più bello il mondo,
perché il bisogno che ha la psiche di bellezza è fondamentale. L’amore
per la bellezza si nutre di conoscenza disinteressata, non può mutare il
suo oggetto a ogni cambiamento di stagione, non può essere ridotto
all’adesione a un canone effimero elaborato mediaticamente dal mercato.

 L’autoproduzione negli orti familiari e l’acquisto diretto da piccoli
contadini di prossimità consentono di spendere meno, mangiare prodotti
più sani e recuperare un saper fare importante, di reinserire i rapporti
economici all’interno dei rapporti sociali, di restituire alla
compravendita la sua originaria dimensione relazionale. La comunità è un
insieme di persone unite da legami sociali che si fondano sull’economia
del dono. La cultura e i valori della comunità, basati sulla sobrietà, sulla solidarietà e sulla tradizione
sono incompatibili con la mercificazione e con l’economia della
crescita all’infinito, fondati a loro volta sul consumismo e sulla
competizione. Ad esempio, l’attuale organizzazione dell’economia e del
potere è incompatibile con la società Sarda. La vocazione della Sardegna, la sua storia, è, semmai, storia di comunitarismo, di solidarietà (alcuni di voi avranno sentito parlare di ‘s’ajudu torrau’ o ‘sa paradura’),
di auto-produzione e di sussistenza, di operosità, di sobrietà nei
consumi e niente sprechi, niente esibizioni di sfarzo, tutte norme di
natura morale iscritte nel DNA dei Sardi.

Il modo di produzione industriale ha bisogno, invece, di annullare le
identità per imporre a un numero sempre più vasto di persone gli stessi
stili di vita.

Il libro offre infine una proposta pratica, con cui Pallante introduce quelli che chiama ‘nuovi monasteri’.
Luoghi di condivisione in cui praticare relazioni umane fondate sulla
solidarietà e su forme di economia alternative, autosufficienti dal
punto di vista alimentare ed energetico, magari recuperando gli antichi
borghi esistenti e quasi del tutto abbandonati.  Vere e proprie comunità
in cui si collaborerà invece che concorrere, in cui la vita sarà
impostata sulla base di una diversa gerarchia di priorità.

I ‘monasteri del terzo millennio’ dovrebbero consentire di recuperare il valore della dimensione spirituale
e delle relazioni umane fondate sulla collaborazione e l’empatia. Ma il
distacco dal mondo non è mai isolamento, la ricerca di una vita più
autentica non è mai una chiusura in se stessi. Anche senza stravolgere
totalmente l’impostazione della propria vita, la dipendenza dal denaro e
dalle merci può essere stravolta.

E’ necessaria, dunque, una diversa narrazione del mondo. Occorre
sovvertire il paradigma culturale che accomuna le ideologie
ottocentesche e novecentesche d’ispirazione liberale e socialista.
Occorre un diverso sistema di valori. Come diceva Pasolini, citato dallo
stesso Pallante nelle pagine finali del libro: “Non c’è progresso senza
profondi recuperi nel passato, senza mortali nostalgie per le
condizioni di vita anteriori”.

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