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Un eroe dei nostri tempi

Marco Travaglio: "la pallosissima dissertazione di Giovanni Fiandaca espone la sua luminosa scienza giuridica a una serie di sfondoni, figuracce e balle a volontà".

Un eroe dei nostri tempi
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7 Luglio 2013 - 22.37


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di Marco Travaglio

Il professor Giovanni Fiandaca (foto),
giurista “de sinistra”, ha ottenuto un’improvvisa notorietà con un
presunto “saggio” contro il processo sulla trattativa Stato-mafia,
rilanciato dal Foglio, dai Macalusi e da altri difensori – professionali
e d’ufficio – degli imputati di Stato. La sera prima della decisione
della Corte d’assise sulla competenza del processo – come avveniva nella
Palermo metà anni 80 con aulici simposii contro il maxiprocesso di
Falcone e Borsellino l’allegra brigata s’è ritrovata a palazzo Steri per
un rito propiziatorio che impetrava il trasloco verso le nebbie e le
sabbie romane. Purtroppo invano: l’indomani i giudici hanno spazzato via
tutte le eccezioni delle difese e delle teste d’uovo retrostanti. Così
come il gup Morosini aveva già sbugiardato le loro tesi giuridiche,
rinviando a giudizio tutti gli imputati. Ma il Fiandaca, sia pur un po’
provato, insiste. E, sempre sul Foglio di Berlusconi & Ferrara, mi
riempie di insulti, sostenendo che avrei criticato il suo “saggio” senza
leggerlo, e comunque se l’avessi letto non l’avrei capito, perché sono
“ignorante”, “prevenuto”, “superficiale”, “giustizialista”, financo
“pernicioso”.

Purtroppo il suo cosiddetto “saggio” l’ho letto e temo persino di
averlo capito. Lui mi accusa di “non argomentare” e di rivolgergli
“attacchi ad hominem” perché lo considero “un azzeccagarbugli
filomafioso”. Si rassicuri: io lo considero semplicemente un orecchiante
molto sopravvalutato e disinformato. Infatti, nella sua pallosissima
dissertazione, non cita mai un solo atto d’indagine, e nemmeno
l’ordinanza di rinvio a giudizio del Gup: ma solo la memoria riassuntiva
dei pm (una ventina di pagine, poca fatica), esponendo così la sua
luminosa scienza giuridica a una serie impressionante di sfondoni,
figuracce e balle a volontà. Vuole che argomenti? Argomento.

Presunto sarà lei.
Fiandaca parla di ”cosiddetta trattativa” e “presunta trattativa”.
Cominciamo bene. La trattativa Stato-mafia è giudiziariamente
indiscutibile in quanto confermata da sentenze definitive della
Cassazione sulle stragi del 1992-‘93, oltreché dai diretti protagonisti e
testimoni, non solo mafiosi: Mori e De Donno parlano a verbale di
“trattativa” con i capi di Cosa Nostra tramite Vito Ciancimino, e non di
una semplice “presa di contatto”, come fa loro dire Fiandaca. Che deve
farsene una ragione: se vuol parlare di trattativa, si legga almeno le
sentenze. Ma per lui tutto è presunto. Infatti, riassumendo le tesi
dell’accusa, scrive: “Cosa Nostra avrebbe reagito (alla sentenza del
maxiprocesso, ndr) ideando e in parte realizzando un programma
stragista”. Avrebbe? Dunque anche le stragi sono cosiddette e presunte?
Il gioco delle tre carte. L’assenza di reati nella trattativa sarebbe
“confermata dal fatto che altri uffici giudiziari, in particolare
Firenze e Caltanissetta… non hanno ravvisato ipotesi di reato”. A
parte il fatto che, se due procure non trovano reati e una terza sì, non
si vede perché debbano avere ragione le prime due e non la terza, a
Fiandaca sfugge che Firenze e Caltanissetta sono competenti sulle stragi
e Palermo sulla trattativa: normale che Palermo contesti reati sulla
trattativa e le altre procure no.

Trattativa insindacabile.
“Ai pm – scrive il Fiandaca – sfugge… la divisione dei poteri: la
tutela della sicurezza collettiva… spetta al potere esecutivo e
l’eventuale scelta politica di fare qualche concessione ai poteri
criminali non è sindacabile giudiziariamente”. Se avesse letto almeno il
capo d’imputazione, saprebbe che qui il reato non è che la mafia tratti
con lo Stato e viceversa: il delitto contestato (art. 338 Cp, “violenza
o minaccia a corpo politico”) è che la mafia, col delitto Lima e le
stragi, ricatta i governi in combutta con alcuni servitori dello Stato
veri o presunti, per estorcere scelte politiche e normative che mai quei
governi avrebbero adottato senza essere sotto scacco.

Infatti l’ex
ministro Conso che non rinnovò il 41-bis a 334 mafiosi non è imputato
per quello (anzi è anche lui vittima della minaccia): ma per aver
mentito ai giudici sui retroscena di quella decisione. Quindi non sono
in discussione le scelte politiche, ma il ricatto di chi le determinò.
Che il ricatto sia reato, è da dimostrare: per questo si fa il processo.
Noi non abbiamo mai scritto che il reato sia provato, ma che spetta ai
giudici decidere se i fatti, ormai straprovati, siano reato, e se il
reato sia quello contestato, e se i colpevoli siano gli attuali
imputati. È Fiandaca che sostiene, sostituendosi ai giudici, che il
reato non c’è. Il “giustizialista” è lui, non noi.

Trattativa a fin di bene.
Dopo aver messo in forse la trattativa con condizionali e aggettivi
dubitativi, Fiandaca la dà per certa, ma con finalità buone, anzi
“salvifiche”: “L’obiettivo di far cessare le stragi mai potrebbe essere
giuridicamente qualificato come illecito; al contrario esso può apparire
doveroso”, una “scelta politica penalmente non censurabile”. Intanto,
come ben sa chiunque abbia letto qualche atto dell’inchiesta, la
trattativa – secondo l’impostazione accusatoria già vagliata dal Gup –
non partì “per arginare il rischio stragista” o “per far cessare le
stragi”, semplicemente perché partì quando non c’era stata ancora alcuna
strage: e cioè dopo il delitto Lima e prima di Capaci. Lo scopo era
salvare la pelle ai politici i cui nomi erano in una lista di morituri
dopo Lima: Mannino, Andreotti (o parenti), Vizzini, Andò, Martelli. I
quali puntualmente si salvarono grazie a un cambio di programma di Cosa
Nostra, che dopo Capaci abbandonò le vendette sui politici (servivano
vivi per recepire il “papello”) e virò su Borsellino, che si opponeva
alla trattativa. Dunque, come si legge nella sentenza definitiva di
Firenze sulle stragi del ’93, la trattativa non solo non fermò, ma
moltiplicò e rafforzò lo stragismo. Distogliendolo dai politici e
indirizzandolo su Borsellino (a proposito: chi è il “servitore dello
Stato” che avvertì i boss che il giudice ostacolava la trattativa? E chi
spiega ai parenti delle vittime di Firenze e Milano che i loro cari
dovevano morire ammazzati perché lo Stato perseguiva il “doveroso” e
“salvifico” obiettivo di fermare le stragi incentivandole?). In ogni
caso, che ogni scelta politica sia di per sé insindacabile per chi la fa
e chi la chiede è una fesseria: se io pago un politico in cambio di una
legge, è corruzione; se minaccio un politico per avere una legge, è
estorsione; se minaccio un governo a suon di bombe per ottenere “scelte
politiche” elencate in un papello che poi guardacaso diventa legge, è
minaccia a corpo politico; se mento al giudice, è falsa testimonianza.

Trattativa all’insaputa.
Nella sua rocciosa incoerenza, Fiandaca ipotizza che i “servitori dello
Stato” che trattarono con la mafia (ma la trattativa non era presunta?)
non siano punibili perché manca “l’elemento soggettivo”, “il dolo”,
l’“autentica coscienza e volontà di concorrere coi mafiosi nelle
violenze e minacce ai danni del governo”. Cioè, politici navigati e
ottimi conoscitori della mafia e ufficiali specializzati nella lotta
alla mafia trattarono con la mafia, poi si prodigarono per ammorbidire
il 41-bis come da papello , ma a loro insaputa. Un caso Scajola ante
litteram, e al cubo. Fiandaca, restando serio, domanda perché i pm non
abbiano contestato i reati di concorso esterno in associazione mafiosa o
addirittura concorso in strage. La risposta è banale: perché le stragi
furono decise da uomini di mafia e non di Stato, o almeno non c’è prova
del contrario. Complimenti comunque al grande giurista per il trucchetto
di negare il reato già vagliato dal gup ipotizzandone di più gravi e
iperbolici. Il solito gioco delle tre tavolette. 

Movente e contropartita.
Per Fiandaca, al Grande Ricatto mancano il movente e la contropartita.
Ma il movente, pienamente realizzato, era salvare la pelle ai politici
candidati a finire come Lima. Quanto alla contropartita, è inutile (?)
ricordare al giurista di chiara fama che l’estorsione e la minaccia sono
reati anche se non sortiscono effetti. Qui comunque gli effetti ci sono
eccome, anche se Fiandaca scrive che “la montagna ha partorito il
topolino” perché i pm sono riusciti a provare “solo” la “revoca di
alcuni 41-bis”. Alcuni? Il 26 giugno ‘93 il nuovo capo del Dap Adalberto
Capriotti (che ha preso il posto di Niccolò Amato, inviso ai boss e
subito licenziato) invita Conso a revocare centinaia di 41-bis come
“segnale di distensione” alla mafia. Conso, cinque mesi dopo, obbedisce
ribaltando le indicazioni della Procura di Palermo e regalando il
carcere molle a 334 detenuti: capi-mandamento come Antonino Geraci sr.,
Vito Vitale e Giuseppe Farinella, pezzi da 90 come Spadaro, Di Carlo
jr., Prestifilippo sr., i fratelli Ferrara e Calafato, Giuliano, Miano,
Di Trapani, Grassonelli, Spina, Fidanzati jr. Quasi tutti i maggiori
mafiosi allora detenuti, a parte l’appena arrestato Riina che, se fosse
uscito pure lui dal 41-bis, avrebbe suscitato un pandemonio. E questo
sarebbe il topolino? In ogni caso, per i pm, era già partita una seconda
trattativa con la nascente Forza Italia sul resto del papello, con
garanzie così solide da indurre Cosa Nostra a interrompere di botto le
stragi e ad annullare quella già decisa allo stadio Olimpico. Ma tutto
questo Fiandaca non lo sa. O non lo dice.

Il can per l’aia.
Anziché approfondire fatti e documenti contenuti nei 120 faldoni
dell’inchiesta (col rischio di disturbare le sue opinioni fondate sul
nulla), il Fiandaca dedica la seconda parte del “saggio” a stigmatizzare
la raccolta di firme del Fatto per i pm attaccati e trascinati al Csm,
le esternazioni di Ingroia, le sue scelte politiche, le intercettazioni
indirette di Napolitano sul telefono con Mancino (ma sì, dài, un posto
alla Consulta non si nega a nessuno), e persino a commentare
l’insuccesso elettorale dell’ex pm, come se tutto questo c’entrasse
qualcosa col processo. Il finale è strepitoso: processare politici
sospettati di delinquere significa “processare la politica”, con la
“tendenza populistico-giustizialista” già emersa con Mani Pulite di
innescare “quel conflitto fra politica e giustizia che nell’ultimo
ventennio ha disturbato il funzionamento della democrazia”. Ma certo, se
i politici rubano o trescano con la mafia, non vanno processati per non
“disturbare” la democrazia. Berlusconi non avrebbe detto meglio.

Ps.
Casomai Fiandaca volesse confrontarsi in pubblico, a Palermo o in tv o
dove vuole lui, io sono pronto. Troverà pane per la sua dentiera.

Fonte: Il Fatto Quotidiano.

Tratto da: http://www.antimafiaduemila.com/2013070743888/marco-travaglio/un-eroe-dei-nostri-tempi.html.

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