di Antonio Ingroia*
Con video integrale del convegno “Paolo Borsellino: la mafia mi ucciderà ma saranno altri a volerlo”
Dopo
 tanti anni ringrazio Antimafia Duemila che mi ha sempre costantemente 
invitato, fin dalla prima edizione di questo dibattito; non posso negare
 che personalmente sono un po’ più emozionato di altre volte, o 
disorientato, per il fatto che per la prima volta partecipo a questo 
momento senza indossare la toga di Pubblico Ministero che ho indossato 
per ventisei anni e per vent’anni consecutivi alla Procura di Palermo.
Una
 toga che però non mi sono strappato di dosso, ma che mi è stata 
strappata. Pur condividendo e sostenendo l’impegno che i colleghi della 
Procura di Palermo stanno proseguendo, mi ritrovo con una dose di 
raddoppiato pessimismo sulle chance di trovare la verità sulla strage di
 via d’Amelio e sulla trattativa in un’aula giudiziaria.
Ma forse, non 
avere più la toga mi consente di essere più franco, più schietto, direi 
anche più libero; quella toga si è trasformata in una camicia di forza 
rispetto alla mia libertà di espressione, limitata da procedimenti 
disciplinari che mi sono stati rovesciati addosso quando ho 
semplicemente esercitato la mia libertà di espressione.
Quindi è una toga che non avrei mai smesso se avessi pensato che 
indossandola ancora sarei riuscito a trovare la verità su quella 
stagione. Ma noi quella verità non la possiamo trovare in queste 
condizioni, con questa politica e con queste istituzioni. Diciamocelo 
chiaramente! Io non l’avrei mai tolta, come mai l’ha tolta Paolo 
Borsellino sino all’ultimo giorno della sua vita. Credo che sia successo
 a me come è accaduto ad altri magistrati e, senza fare parallelismi 
impropri, è capitato anche a Giovanni Falcone, al quale venne strappata 
la toga quando andò a Roma perché gli venne reso impossibile il suo 
percorso professionale. 
Perciò ribadisco che non mi sono tolto la 
toga, è il potere che mi ha strappato la toga, quel potere che non 
tollerava la mia ribellione, quella di un P.M. che si era ribellato al 
modello del P.M. che obbedisce e tace. Io non obbedisco e taccio perché 
non c’è niente a cui obbedire quando l’ordine è un ordine illegittimo. 
Allora non ho mai taciuto e da oggi potrò finalmente dire più 
apertamente quello che penso, anche quello che non ho detto negli anni 
passati quando ero costretto a mordermi la lingua ad ogni incontro e ad 
ogni dibattito a cui partecipavo.
Potrò dire quello che so e di cui ho 
le prove, ma oggi ho anche la libertà di dire quello che so di cui non 
ho le prove in senso giudiziario. Allora potrei dire che avermi 
strappato la toga di dosso potrebbe non essere stato un buon affare per 
chi l’ha fatto. 
Ma non voglio parlare di me, dobbiamo parlare di noi
 perché sia quelli da questa parte del tavolo che quelli all’altra parte
 siamo cresciuti, ci sono sempre più giovani, ma molti siamo sempre 
quelli, siamo gli stessi, siamo certo un po’ più stanchi, un po’ più 
feriti, invecchiati, un poco anche piegati dalla fatica e dai colpi 
vigliacchi alle spalle. Ciascuno di noi ne ha subiti tanti, anch’io, 
anche dai miei colleghi ed ex colleghi, però non siamo piegati, non 
abbiamo mai piegato le ginocchia e non piegheremo mai la schiena, questo
 è quello che conta. Siamo ancora qui, irriducibili, con rassegnazione 
zero, però bisogna vedere come la nostra rassegnazione noi la possiamo 
trasformare in azione, in impegno.
Siamo qui dopo tanti anni, ogni anno a
 piangere i nostri morti, qualcuno anche in più, come la morte di Agnese
 Borsellino, che è un fatto nuovo rispetto ai precedenti anniversari. 
Quel 19 luglio del ’92 ci ha cambiato la vita per sempre, credo a tutti,
 a ciascuno di noi, certamente a chi è qui. Non abbiamo ancora elaborato
 il lutto perché non sappiamo la verità sulla strage di via d’Amelio.  
Non sappiamo – nel senso giudiziario del termine – perché non si sono 
raggiunte le prove che fu una strage di Stato. Lo sapevamo fin dal primo
 giorno, senza avere la prova, perché lo sentivamo; e lo sanno, ma non 
lo possono dire, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi che con me hanno 
condiviso quei giorni, come non potevo dirlo io sino all’anno passato, 
ma noi lo sapevamo perché lo sentivamo che era una strage di Stato, così
 come Paolo Borsellino sapeva che era una strage di Stato la strage di 
Capaci. Ed è questa la ragione per la quale con ostinazione, con 
impegno, con testardaggine, cercava di “scavare†nell’agenda elettronica
 di Giovanni Falcone, aveva capito che nel lavoro di Falcone c’era la 
traccia che Giovanni non era stato ucciso perché era il nemico storico 
della mafia, ma perché c’era dell’altro. Poi come sapete venne 
cancellato il diario e hanno fatto ancora meglio con l’agenda di Paolo, 
facendola sparire, questa è la conferma della strage di Stato: 
depistatori di Stato per una strage di Stato. 
Ora noi conosciamo di
 più perché sappiamo di quei depistaggi colossali così definiti anche 
dal Procuratore di Caltanissetta. Nessuno può credere (io non ci credo) 
che uomini delle istituzioni così importanti abbiano depistato quelle 
indagini per “entusiasmo investigativoâ€, per cercare di catturare dei 
colpevoli a tutti i costi, o peggio per favorire qualche mafioso. Il 
depistatore di Stato, se è uno che fa carriera, lo fa per depistare la 
strage di Stato, questo è sempre accaduto nella storia del nostro Paese.
Se poi il depistatore è un alto funzionario della Polizia, come 
Arnaldo La Barbera, se il depistatore è un uomo che era a libro paga dei
 servizi, se i servizi in quel momento erano diretti da Bruno Contrada 
(che poi è andato in galera), e se il dottor Bruno Contrada a quel tempo
 collaborava col Procuratore di Caltanissetta Tinebra alle indagini per 
la strage di via d’Amelio, forse tutte le cose combaciano. E tutto 
questo coincide con quello che emerge dalle indagini della Procura di 
Palermo e della Procura di Caltanissetta sulla trattativa, sul ruolo 
cruciale che ebbe la trattiva e sul ruolo scatenante che questa ebbe 
rispetto alla strage, una trattativa vera e non teorica, una trattativa 
provata e non presunta. Ritengo grave, se non è cambiato nell’ultima 
approvazione al Senato (se è vero quanto ho letto nel comunicato 
giustamente denunciato dall’associazione dei familiari delle stragi del 
’93), che nella legge istitutiva della Commissione parlamentare 
antimafia, dove finalmente si mette fra le funzioni e gli scopi e le 
finalità della Commissione parlamentare antimafia l’indagine sulla 
trattativa, si scrive che la Commissione parlamentare antimafia dovrà 
indagare sulla “presunta†trattativa fra Stato e mafia. 
Questa 
Commissione parlamentare antimafia comincia davvero con il piede 
sbagliato e forse capiamo perché si è creata l’unanimità del Parlamento 
sulla sua  istituzione. 
In quei giorni del ’92 noi giurammo che 
avremo fatto di tutto, giurammo sulla bara di Paolo Borsellino e degli 
uomini e della donna della sua scorta che avremo fatto di tutto perché 
venisse fuori la verità. E Agnese disse che non avrebbe avuto pace 
fintanto che non vi fosse stata la verità, come l’ha detto Salvatore, 
come l’ha detto Rita. Agnese è morta. Possiamo dire che Agnese ha avuto 
pace perché ha avuto verità, tutta la verità, su quella strage? No, non 
lo possiamo dire, non prendiamoci in giro. Noi non sappiamo tutta la 
verità, sappiamo un pezzo di verità e certo è un bilancio sconfortante 
dopo ventun anni. 
Conosciamo chi sono i mandanti a volto coperto? 
Non li conosciamo. Non siamo riusciti a tirare via quella maschera e 
perché non ci siamo riuscii? Perché siamo stati incapaci? Perché la 
magistratura è stata incompetente? No, perché i complici, i mandanti, 
erano dentro lo Stato, dove stavano coloro che hanno depistato le 
indagini sulla strage di via d’Amelio perché quello Stato non è 
cambiato, è lo Stato di Portella della Ginestra, è lo Stato del 
depistaggio sulla strage di Portella, è lo Stato del depistaggio sulla 
morte di Salvatore Giuliano, è lo Stato dell’assoluzione dell’onorevole 
Palazzolo per l’omicidio Notarbartolo, è lo Stato dei depistaggi 
sull’omicidio La Torre, è lo Stato dei depistaggi sull’omicidio Dalla 
Chiesa e così via.
E’ sempre lo stesso Stato italiano nel quale noi 
siamo stati corpi estranei. E dove un certo tipo di magistratura, 
Falcone e Borsellino ieri e oggi i colleghi che coraggiosamente 
proseguono su questa strada (non voglio sconfortarli) sono ancora oggi 
corpi estranei. 
Non solo Paolo Borsellino non è stato protetto da 
quello Stato che non protegge i suoi uomini, ma è uno Stato che uccide i
 suoi uomini migliori che non si omologano; uccide, elimina in un modo o
 nell’altro i suoi uomini migliori che si ribellano all’ordine 
costituito e l’ordine costituito è quello dello Stato che tratta con la 
mafia, dello Stato che convive con la mafia. Questa è la ragione, questa
 è la cultura politica giuridica istituzionale prevalente nel nostro 
Paese dall’Unità d’Italia ad oggi ed è quella che ispira illustri 
giuristi e tanti politici. 
E noi questa cultura dobbiamo 
combatterla, se non combattiamo e non battiamo questa cultura non si 
riuscirà ad avere una magistratura autonoma e indipendente che possa, 
nelle aule giudiziarie, condannare gli uomini dello Stato. Di questo 
amaramente mi sono convinto in questi ultimi anni. È il detto del cane 
che non mangia cane, anzi direi il cane che non mangia il padrone, la 
magistratura deve essere soltanto un cane da guardia dell’ordine 
costituito e il padrone è quel potere politico della classe dirigente 
che è stata borghesia mafiosa, che perciò vuole la magistratura 
subordinata. 
Se la magistratura prova invece – con la dovuta 
ingenuità istituzionale di un uomo dello Stato – ad applica la 
costituzione a cominciare dal principio di eguaglianza di tutti i 
cittadini di fronte alla legge, arriva prima l’avvertimento e poi la 
punizione, in cui lo Stato si comporta esattamente come la mafia. La 
mafia è Stato, lo Stato è mafia, questa equazione purtroppo è diventata 
una realtà sempre più inestricabile, difficilmente oggi rescindibile, è 
un nodo indissolubile rispetto al quale dall’interno delle istituzioni 
statali non si può da soli, senza un movimento di massa di rottura 
dell’ordine costituito, cambiare le cose. 
Credo che tante vicende ne
 siano la dimostrazione, come la vicenda professionale di Giovanni 
Falcone e di Paolo Borsellino. Falcone e Borsellino hanno rischiato la 
carriera più volte quando hanno dimostrato “insubordinazioneâ€. 
Ricordiamo il procedimento disciplinare minacciato a Paolo Borsellino 
per un’intervista nella quale aveva lanciato l’allarme sul calo di 
attenzione alla lotta alla mafia e ricordiamo che poi Paolo dovette 
andare a Marsala. Seppe trovare anche a Marsala la forza e l’energia per
 continuare a occuparsi di mafia, lì dove lo incontrai, ma intanto il 
percorso del pool antimafia (al quale aveva dedicato quasi dieci anni 
della sua attività) era stato spazzato dall’azione combinata del 
Consiglio Superiore della Magistratura e della Prima Sezione della 
Cassazione presieduta da Carnevale. Non dimentichiamolo, magistratura e 
politica alleate contro gli eversori: Falcone e Borsellino. Il cliché si
 è ripetuto, i procedimenti disciplinari nei confronti di Di Matteo, 
Scarpinato, il procedimento per incompatibilità ambientale nei confronti
 del Procuratore Messineo hanno la stessa matrice, perché sono 
magistrati, alcuni perché parlano. Abbiamo visto la lettera di 
Scarpinato il 19 luglio scorso: il magistrato che parla e svela la 
verità va punito. Nel caso di Messineo sono stati ripescati fatti vecchi
 nel momento in cui Messineo ha messo piede nell’aula giudiziaria del 
processo “trattativa o ricatto allo Statoâ€. 
Chi tocca quel processo 
deve saltare, questo è il messaggio che arriva forte e chiaro. È un 
messaggio di intimidazione nei confronti della magistratura inquirente, 
della magistratura giudicante e del prossimo Procuratore di Palermo, in 
modo tale che sappia a cosa va incontro se dovese sostenere certe 
indagini e certi processi. 
È già successo a Caselli, ed è già 
accaduto che il successore di Caselli per prudenza abbia deciso di non 
vistare l’appello per il processo Andreotti contro la sentenza di 
assoluzione di quest’ultimo. E’ una storia che si ripete. Ebbene, la 
verità è che uno Stato in queste condizioni non può e non deve 
processare se stesso, guai a chi ci prova. Ricordo in questi incontri 
(quando ancora svolgevo le funzioni di procuratore aggiunto a Palermo e 
mi occupavo dell’indagine sulla trattativa con i colleghi del pool che 
oggi coordina Vittorio Teresi) che cominciammo a parlare due anni fa con
 una certa emozione del fatto che si erano aperti degli spiragli, io 
dissi che eravamo nell’anticamera della stanza della verità e c’era 
l’emozione del vedersi profilare all’orizzonte quella verità 
imbarazzante, quella verità negata, quella verità che l’omertà di Stato 
ci aveva precluso.
Andammo avanti per un altro anno, dissi l’anno scorso
 che eravamo entrati nella stanza della verità, ma che con un po’ di 
delusione avevamo trovato una stanza al buio, una stanza che non aveva 
la luce della verità, perché qualcuno aveva spento le luci.
Successivamente mi sono convinto che in quei mesi è accaduto di peggio, 
che non solo è stata spenta la luce nella stanza della verità, ma è 
stato ricostruito il muro di gomma fatto di omertà di mafia e omertà di 
Stato che ha impedito alla verità di emergere in questi vent’anni. Per 
una serie di coincidenze (alcune fortunate, altre dovute alla caparbietà
 di qualche investigatore) si era aperta una falla e in quella falla, un
 po’ tumultuosamente, sono passate notizie, rivelazioni, improvvisi 
ritorni di memoria di uomini delle istituzioni smemorati, che per la 
prima volta hanno avuto paura di essere scoperti e di rispondere dei 
fatti che stavano venendo fuori per effetto delle rilevazioni combinate 
di Spatuzza da una parte e di Massimo Ciancimino dall’altra.
Ma poi quel
 muro di gomma è stato chiuso e (tutti lo pensano, nessuno lo dice, ed è
 bene che qualcuno lo dica) per effetto di un atto della Presidenza 
della Repubblica con il quale è stato sollevato un conflitto di 
attribuzione che, al di là del valore che aveva e al di là del 
significato che quelle intercettazioni telefoniche avevano (l’abbiamo 
detto e ripetuto tante volte, non avevano alcuna rilevanza penale), è 
stato un segnale, un segnale di isolamento, di presa di distanza, anzi 
di conflittualità del palazzo sino ai più alti vertici nei confronti di 
una piccola istituzione, come è ovviamente la Procura di Palermo, a 
fronte della Presidenza della Repubblica. 
E immediatamente (al di là
 che quella fosse o non fosse l’intenzione di chi ha avviato il 
conflitto di attribuzione) il muro di gomma si è richiuso, la falla si è
 tappata.
Io non so, mi auguro (naturalmente non ho più accesso al 
segreto investigativo della Procura di Palermo e delle altre Procure) 
che così non sia, ma la mia sensazione, dall’esterno, è esattamente 
questa. E così è, non solo rispetto alle chance di accertamento della 
verità, ma rispetto al clima politico culturale e istituzionale che si 
respira nel Paese e si respira nelle istituzioni, perfino nelle 
istituzioni giudiziarie, un clima di cui è frutto la sentenza con la 
quale è stato assolto il generale Mori. 
Per riprendere Saverio 
Lodato che parlava dei commenti giornalistici, ho letto alcuni commenti 
alla sentenza Mori: “Si sgretola un pilastro del processo trattativaâ€, 
ma di quale pilastro stiamo parlando? Il processo trattativa si fonda 
(lo sanno meglio di me i colleghi che se ne occupano) su ben altri 
elementi, rispetto al quale il favoreggiamento di Provenzano a Mezzojuso
 costituiva un piccolo episodio che noi ritenevamo una appendice, una 
applicazione del patto politico mafioso che era stato stipulato per 
effetto della trattativa, la cui prova rimane forte e non è in alcun 
modo intaccata da questa sentenza. Sia chiaro, e questo lo dico ai 
giornalisti un po’ distratti.
Per altro è una sentenza di primo grado, 
che già la Procura ha detto che impugnerà. Si dice che avrebbe segnato 
un cambio di marcia della magistratura giudicante, che sarebbe stata 
fino a oggi troppo indulgente dei confronti della Procura. Non so quale 
sia questa indulgenza della magistratura giudicante, non credo che 
segnali un cambio di marcia, credo che sia un ritorno indietro, 
rappresenta un vecchio modo di valutare le prove che noi c’eravamo 
dimenticati e questa è la dimostrazione.
Sono gli effetti di quella 
cultura politico giudiziaria e istituzionale che è in involuzione, un 
passo alla volta, un giorno alla volta, anche per effetto di quel 
conflitto di attribuzione. “Bocciatura dei P.M.â€, ho letto su qualche 
altro titolo di giornale, innanzitutto, con tutto il rispetto della 
magistratura giudicante, come una sentenza può bocciare una posizione 
del Pubblico Ministero, un Pubblico Ministero può bocciare il risultato 
di una sentenza, non esiste la supremazia della magistratura giudicante 
nei confronti della magistratura inquirente. Quindi i colleghi nell’atto
 di appello potranno bocciare la sentenza di assoluzione Mori. Tanto 
meno è un segnale ai P.M. per il quale i P.M. dovrebbero imparare a 
costruire in altro modo le inchieste. Io direi che forse bisognerebbe, 
in un rapporto biunivoco, anche dare indicazioni ai giudici su come 
modificare il loro modo di valutare le prove. Come si fa? Ci sono anche 
qua degli esempi, noi la storia dobbiamo ricordarla, anche questo è già 
successo. Certo, dobbiamo tornare a quarant’anni fa, perché l’Italia di 
oggi assomiglia a quella di quarant’anni fa, è già successo ad un grande
 magistrato, Pubblico Ministero e giudice istruttore, anche lui 
impertinente, anche lui che a un certo punto decise di fare politica.
Quel magistrato si chiamava Cesare Terranova il quale da Pubblico 
Ministero prima e da giudice istruttore poi, mise in piedi delle 
straordinarie inchieste che misero alla sbarra per la prima volta la 
mafia corleonese del tempo, di Luciano Liggio e dei suoi sodali, ma ebbe
 due insuccessi gravi, al processo dei centodiciassette di Catanzaro, 
del dicembre del ’68 e al processo di Bari del ‘69 dove vennero tutti 
assolti. Cosa accadde? Che queste sentenze di assoluzione erano una 
indicazione a Cesare Terranova che doveva trovare come cambiare il modo 
di fare inchiesta? O Cesare Terranova capì che quella magistratura 
giudicante del tempo non era all’altezza di valutare le prove, o non 
c’era la cultura giuridico istituzionale per fare quel tipo di processi 
in cui i mafiosi erano impuniti. Allora erano i mafiosi con la coppola 
ad essere impuniti. 
Cesare Terranova capì che dall’interno del 
palazzo di giustizia di Palermo non ci riusciva, si candidò in politica.
 Si candidò da indipendente nelle file del P.C.I. (ho detto che l’Italia
 di oggi assomiglia a quella di allora, mi sbaglio: l’Italia di oggi è 
peggiore dell’Italia di allora, perché nell’Italia di allora Cesare 
Terranova si candidò in una lista comunista che più rossa non si può) e 
nessuno si permise di mettere mai in dubbio il suo lavoro e la sua 
professione di magistrato quando era Pubblico Ministero e giudice 
istruttore a Palermo. 
Cesare Terranova dimostrò che poteva essere 
più utile in quel momento da politico anziché da magistrato partecipando
 ai lavori della relazione della Commissione parlamentare che fu 
relazione di minoranza: denunciò Gioia, Lima, Ciancimino, quando la D.C.
 li difendeva, e quella relazione di minoranza fece storia. Fece storia,
 cambiò il modo di pensare degli italiani e cominciò anche a cambiare il
 modo di pensare dei magistrati e della magistratura giudicante. Fu un 
primo passo. Cesare Terranova capì che poteva tornare a fare il 
magistrato e nessuno, quando lui chiese di tornare a fare il Giudice a 
Palermo, pensò di spedirlo né ad Aosta né disse che non poteva avere 
l’imparzialità per fare il magistrato a Palermo, né la Democrazia 
Cristiana e neppure il Movimento Sociale che erano i partiti dall’altra 
sponda rispetto al Partito Comunista. E neppure Emanuele Macaluso, ma 
era un’altra Italia. La mafia aveva le idee chiare e non consentì a 
Cesare Terranova di riprendere il suo posto, perché venne ucciso prima 
che assumesse le funzioni di consigliere istruttore a capo dell’ufficio 
istruzione di Palermo. Ma il seme proseguì e poi Falcone, Borsellino, 
Costa ancora prima di lui, ancora accerchiati da una magistratura nella 
quale continuavano a fioccare le assoluzioni per insufficienza di prove.
Ecco che il 416 bis (come dovrebbe ricordare, ma ogni tanto 
dimentica, Giovanni Fiandaca di avere scritto qualche anno fa) è stata 
soprattutto una norma di orientamento politico culturale, una norma che 
ha cambiato la mentalità dei giudici, una norma che non ha ampliato 
l’ambito di applicatività del reato associativo, ma ha dato una spinta 
ai giudici. Ed ecco che improvvisamente, folgorati sulla via di Damasco,
 sono cominciate a fioccare le sentenze di condanna, di fatto è cambiata
 radicalmente la giurisprudenza. 
Ma su cosa è cambiata la 
giurisprudenza? Un passo alla volta, è cambiata nei confronti dei 
mafiosi con la coppola. Ai tempi di Terranova venivano assolti i mafiosi
 con la coppola, ai tempi di Falcone e Borsellino questi si sono 
cominciati a condannare, ma appena Falcone e Borsellino hanno provato a 
saltare, a salire il gradino più alto dei rapporti mafia – politica, 
mafia – affari (da Ciancimino ai cugini Salvo, ai Cavaliere del Lavoro 
di Catania), arrivarono i guai per Falcone e Borsellino. E lì avviene la
 distruzione del pool antimafia, complice la magistratura, un’altra 
magistratura giudicante, quella della Cassazione di Carnevale (per altro
 assolto), quindi non è frutto necessariamente di collusione; se fosse 
frutto di collusione meglio sarebbe. È frutto invece di omologazione, di
 un’omologazione politico culturale istituzionale di cui è stata vittima
 tutta la classe dirigente, quella di cui parlava il collega Gozzo nella
 sua lettera quando dice del Ministro per il quale bisogna convivere con
 la mafia. 
Prima bisognava convivere con la mafia, poi bisognava 
convivere con la borghesia mafiosa, ma guai portare alla sbarra la 
borghesia mafiosa.
Ma anche questo scalino, alla fine, con il prezzo e 
con il sacrificio del sangue di Falcone e Borsellino lo abbiamo salito, 
siamo riusciti a salire su quel gradino, il gradino delle relazioni 
esterne. E’ quello che si è riusciti a fare con il processo Andreotti, 
con il processo Dell’Utri, con il processo Contrada. Si è riusciti a 
fare quello che a Falcone e Borsellino non è stato consentito fare, 
salire il gradino del rapporto mafia – politica, mafia – economia. Ora 
siamo davanti ad un altro gradino ed è quello più alto, non so se è 
l’ultimo gradino, ma a oggi è l’ultimo che vediamo. Non è più il 
rapporto mafia – politica, mafia – economia, non è più il rapporto di 
collusione con la mafia di singoli politici o di gruppi di politici, ma è
 la collusione fra lo Stato e la mafia, questo è il tema del processo 
cosiddetto “trattativa o riscatto allo Statoâ€, cioè il procedimento 
penale che per la prima volta nella storia del nostro Paese vede alla 
sbarra nello stesso processo i capi mafia, i capi degli apparati 
investigativi dei servizi segreti, ex Ministri e parlamentari. E questo 
lo Stato italiano oggi non lo regge, oggi lo Stato italiano non regge 
questo tipo di processo. Non lo vuole.
E non vuole che siano processati 
uomini di Stato (lo dice, addirittura, Giovanni Fiandaca in 
quell’articolo e lo legittima), non bisogna fare processi di questo 
genere.
Noi siamo davanti a questo scalino ed è uno scalino dietro il 
quale non c’è soltanto il processo allo Stato, c’è anche sangue, ci sono
 le stragi, c’è il sangue in particolare di Paolo Borsellino e della 
scorta, che è morta con lui, perché è morta su quello stesso gradino nel
 momento in cui Borsellino (un po’ per testardaggine, ma un po’ per 
quello che si è saputo fino a oggi, perfino quasi per caso) ha saputo la
 verità sulla trattativa. Lo Stato non vuole che i cittadini italiani 
sappiano questa verità, il tema è questo, la persecuzione politico 
giudiziaria nei confronti dei magistrati che vogliono continuare 
ostinatamente a fare questo processo è tutta lì. 
Per salire questo 
scalino bisogna fare come fece Cesare Terranova, capire che contro un 
muro di gomma così non basta sostenere la magistratura e l’impegno dei 
magistrati (che con la schiena diritta, con l’impegno e a testa bassa 
vanno avanti), perché quel muro è più potente, è più potente dei pochi 
magistrati che si impegnano e di quei pochi magistrati andranno a 
sbattere contro quel muro. Ci dobbiamo rassegnare? Io dico di no, io 
dico però che assieme ai magistrati che devono continuare ad insistere 
da questa parte del muro di gomma per cercare di aprire degli altri 
varchi bisogna girare dall’altra parte del muro. 
Soltanto con un 
impegno serio si possono aiutare i magistrati a buttare giù quel muro, 
ma per andare dall’altra parte del muro non occorre qualche Don 
Chisciotte che si improvvisa manovratore senza sapere come si entra 
nella stanza dei bottoni, occorre un movimento di massa che si impegni 
su alcune battaglie che si possono fare. Credo che vadano fatte alcune 
proposte, credo che una di queste debba cogliere l’occasione di questa 
legge istituiva della Commissione parlamentare antimafia.
Credo che non 
ci sia solo la responsabilità penale, ci deve essere anche la 
responsabilità politica, ma questo Parlamento è un Parlamento eletto in 
virtù di una legge elettorale incostituzionale, è un Parlamento che non 
ha la legittimità e la legittimazione per accertare la verità sulle 
stragi e sulla trattativa. 
Bisogna chiedere al Parlamento che faccia
 un atto di volontà, che modifichi la legge parlamentare e che per la 
prima volta (del resto ogni Commissione parlamentare si istituisce in 
virtù di una legge), introduca un’innovazione nella composizione della 
Commissione parlamentare: si preveda che non come consulenti, ma come 
membri di diritti ne facciano parte i rappresentanti delle associazioni 
dei familiari delle vittime e delle associazioni che si sono impegnate 
per la verità sulla stagione delle stragi a cominciare ovviamente, visto
 il suo impegno, dall’associazione delle Agende Rosse, ma non solo, che 
facciano parte della Commissione di inchiesta. Che sia una Commissione 
di inchiesta mista di parlamentari e di rappresentanti della società 
civile con gli stessi poteri di ogni Commissione parlamentare di 
inchiesta. Il Parlamento può fare una modifica alla legge appena 
approvata perché si accerti la verità (al punto da aver raggiunto quasi 
l’unanimità nell’inserire questo emendamento nell’istituzione della 
Commissione parlamentare di inchiesta che si occupi anche delle stragi e
 della trattativa), immagino che non avranno difficoltà a fare una 
modifica del genere, visto anche la pessima prova che ha dato quella 
scorsa.
La Commissione Pisanu aveva promesso che si sarebbe occupata 
delle indagini sulla trattativa e apparentemente l’ha fatto, con una 
sfilata di audizioni. Ma poi la montagna ha partorito un topolino con un
 risultato in cui la Commissione parlamentare di inchiesta (che avrebbe 
dovuto indicare la responsabilità politica dei politici responsabili 
della stagione delle stragi e della trattativa) li ha assolti tutti, la 
politica si è autoassolta. Di una Commissione parlamentare così non ci 
fidiamo e chiediamo che questa Commissione parlamentare sia invece 
integrata in modo paritario da componenti della società civile. Dimostri
 in questo modo il Parlamento di essere all’altezza delle aspettative e 
se non lo fa il Parlamento si faccia una petizione popolare con una 
raccolta di firme, con la quale si chiede alla Commissione parlamentare 
che non inizi i propri lavori se non c’è una partecipazione dei 
rappresentanti della società civile. 
Credo che questo possa essere 
solo un esempio del fatto che si può abbattere il muro di gomma e lo si 
può abbattere non delegandolo soltanto alla magistratura, soprattutto 
quando la magistratura è isolata, accerchiata, direi disarmata da un 
potere politico istituzionale ostile in modo totale e globale. Credo che
 in questi casi si possa riuscire a cambiare le cose soltanto con una 
forte (non direi più mobilitazione popolare, non basta neanche più la 
mobilitazione popolare) e vera e propria sollevazione popolare. 
Abbiamo
 bisogno di una sollevazione del popolo che vuole la verità, che vuole 
che sia abbattuta l’omertà di Stato, che ha protetto fino ad oggi i 
mandanti a volto coperto della strage di via d’Amelio e delle altre 
stragi impunite del nostro Paese, una sollevazione popolare contro la 
giustizia diseguale, forte con i mafiosi con la coppola e debole con i 
potenti. 
Leggeremo la motivazione della sentenza Mori, ma mi 
colpisce che sia stata usata la stessa formula assolutoria, il fatto non
 costituisce reato, già utilizzata per la mancata perquisizione del covo
 di Riina e se i giudici del favoreggiamento Provenzano arriveranno alla
 stessa conclusione (cioè che c’è un difetto di dolo), abbiamo uno dei 
più importanti, acuti, intelligenti e abili investigatori di razza come 
il Generale Mori che ha favorito la mafia, prima mancando di perquisire 
il covo di Riina – senza rendersene conto – e ha favorito Provenzano per
 la seconda volta – senza rendersene conto. Un caso paradossale di 
favoreggiamento della mafia “a sua insaputaâ€, da parte del più alto e 
più importante e più famoso investigatore del Paese.
Io non ci credo e 
so che le cose non possono essere andate così. 
Occorre questa 
sollevazione popolare contro questo Stato. Questo Stato delle tante 
trattative, che probabilmente oggi, dietro le quinte, avvengono; non so 
cosa abbiano accertato o stiano accertando i colleghi sulla vicenda 
relativa alla cosiddetta confidenza di Totò Riina all’agente di 
custodia, ma quella non è una confidenza, quella non è una rivelazione: 
quello è un messaggio in codice per riaprire altre trattative. 
Ci 
sono altre trattative in corso oggi, noi non vogliamo più uno Stato 
delle trattative. Contro lo Stato delle trattative occorre appunto 
questa sollevazione popolare, per uno Stato che sia davvero 
intransigente. 
Per abbattere quel muro di gomma, per una politica 
che sia amica della giustizia e della magistratura e non ostile della 
verità (come è stata ed è ancora oggi), nella consapevolezza che la 
magistratura da sola non può cambiare il corso degli eventi, solo un 
movimento di massa può scardinare il sistema criminale che oggi è 
direttamente intrecciato con pezzi del sistema istituzionale. Lo può 
scardinare non la magistratura, lo può scardinare solo un movimento dal 
basso, credo che questo si debba fare, non solo per un dovere nei 
confronti dei morti, ma lo si debba fare perché senza verità non avremo 
democrazia, senza verità non avremo pace, e questa è una pace che 
dobbiamo anche a chi non c’è più.
* Intervento di Antonio Ingroia al convegno “Paolo Borsellino: la mafia mi ucciderà ma saranno altri a volerloâ€
Foto © Giorgio Barbagallo
VIDEO 
Paolo Borsellino: “La mafia mi ucciderà ma saranno altri a volerlo”
Fonte: [url”http://www.antimafiaduemila.com/2013072044185/parla/una-sollevazione-popolare-contro-lo-stato-delle-tante-trattative.html”]http://www.antimafiaduemila.com/2013072044185/parla/una-sollevazione-popolare-contro-lo-stato-delle-tante-trattative.html[/url]
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