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Il Nuovo Anno di un condannato a morte

«Tutti e quattro - Napolitano, Grasso, Boldrini e Renzi - si sono sempre ben guardati dal pronunciare il nome del condannato a morte, non gli hanno mai fatto una telefonata di solidarietà umana, lo hanno accuratamente ignorato in ogni loro dichiara

Il Nuovo Anno di un condannato a morte
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22 Dicembre 2014 - 21.22


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di Saverio Lodato

Non sappiamo come passerà la notte di Capodanno un condannato a morte, a data da destinarsi, a causa del suo lavoro che non viene gradito, che addirittura risulta insopportabile, che viene considerato un intralcio per i manovratori grandi e piccoli di questo Paese. Non sappiamo quali pensieri gli passeranno per la testa mentre sarà circondato da moglie e figli nei cui sguardi indovinerà facilmente interrogativi pesanti come macigni; mentre immaginerà il 2015 che si spalanca davanti a lui come un ennesimo scenario di trappole, sgambetti, tradimenti, veleni; mentre sarà incerto sul destino di una grande inchiesta che, insieme a un manipolo di altri colleghi della sua stessa tempra, ha tenacemente voluto e spinto avanti nell’incrollabile certezza che per l’accertamento della verità i magistrati, se magistrati sono e non pagliacci che riempiono una toga, devono fare questo e altro.

Sappiamo una cosa, però. Ed è la prima che ci viene in mente. Che sono quattro le massime cariche dello Stato. Al primo posto, c’è il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Al secondo, il Presidente del Senato, Piero Grasso. Al terzo, il Presidente della Camera (in questo caso, se si preferisce, “la” Presidente), Laura Boldrini. Al quarto, il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Direte: che c’entra questo elenco? C’entra, invece. Eccome, se c’entra!

Tutti e quattro – Napolitano, Grasso, Boldrini e Renzi – si sono sempre ben guardati dal pronunciare il nome del condannato a morte, non gli hanno mai fatto una telefonata di solidarietà umana, lo hanno accuratamente ignorato in ogni loro dichiarazione sull’argomento, e non è che le occasioni siano mancate.

E’ un caso? Quattro coincidenze in una? Difficile pensarlo. Da due anni ormai tutti gli italiani sanno che il condannato a morte risponde al nome di Nino Di Matteo, che non è, badate bene, carica dello Stato, né massima né minima, ma che per la dignità di ciò che resta del nostro Stato fa indiscutibilmente più di quanto fanno gli altri quattro messi insieme. E’ un punto sul quale vale la pensa insistere. Eppure i quattro lo ignorano. Non gli concedono neanche un minimo attestato di esistenza. Cerchiamo di capire perché.

Le massime cariche dello Stato, di norma, preferiscono indirizzare la loro solidarietà persino a personaggi della cosiddetta “antimafia”, ma questi personaggi hanno da essere un po’ tromboneschi, non protagonisti veri, semmai “figure” o “figurine” che possono rientrare, di solito per cognome illustre, in un teatrino allargato della politica in cui c’è posto anche per loro, e magari persino lauti finanziamenti, perché da loro le istituzioni non hanno proprio nulla da temere. Né vale l’obiezione: cosa hanno da temere i “politici” dai “magistrati antimafia”? Ché dopo le vicende romane simile obiezione sarebbe ultronea, nel senso di superflua.

Questa è una prima ragione del silenzio raggelante che da due anni circonda Di Matteo e gli altri come lui (i Teresi, i Tartaglia, i Del Bene, e valgano questi nomi per tutti). I magistrati antimafia, e quelli di Palermo in particolare, a Roma non sono mai andati giù. Questo loro interpretare la funzione, all’insegna di una indipendenza programmatica, a signori e signorotti della politica romana suona al pari di una bestemmia.

L’attuale Arrogantocrazia – questo governo, insomma – che di battutismo e annuncite, guanti di sfida lanciati a destra e a manca, dispregio pacchiano dei valori (ci viene in mente la ministra Boschi che tra Fanfani e Berlinguer rottamerebbe Berlinguer), pretesa di una longevità politica che rasenta le vette dell’eternità come accadeva nel Pantheon sovietico, in cui si moriva almeno un mese dopo essere morti, e dove lavorano al Cremlino, sin dai tempi di Stalin, equipe di “impagliatori” iperspecializzati nella conservazione dei “cadaveri illustri”, questa attuale Arrogantocrazia, dicevamo, detesta istintivamente i magistrati palermitani. Ma questa è solo una parte delle verità. Il nome di Di Matteo, infatti, è diventato evocativo del processo sulla trattativa Stato-Mafia che si celebra a Palermo, nonostante non siano mancati fulmini e saette quirinalizi.

Il tacito teorema che accomuna i quattro che fanno orecchie da mercante possiamo spiegarlo così: Di Matteo è l’uomo di punta delle indagini sulla trattativa; ammettere che Di Matteo rischia la vita significa ammettere implicitamente che chi in Italia indaga su fili ad altissima tensione (e vivaddio se non lo sono i fili scoperti di uno Stato che trattò, trattava e tratta con la mafia) rischia di finire assassinato, significa ammettere che il processo di Palermo è cosa serissima e che il nostro Stato, se necessario, spara. Né sarebbe la prima volta.

Il teorema, anche se non verbalizzato, anche se i quattro non lo ammetteranno mai, è esattamente questo. Significherebbe insomma riconoscere addirittura centralità a un qualcosa che con le unghia e con i denti si intende negare, tenendola sin quando possibile fuori dalla porta. E’ bene che per il 2015 Nino Di Matteo se ne faccia una ragione, anche se abbiamo motivo di ritenere che abbia già idee chiarissime in proposito.

Un fatto di cronaca – strettamente mafiologico, se così si può dire – ci ha notevolmente rafforzato nella nostra convinzione. Ci riferiamo al “pentimento” di Vito Galatolo, il boss della borgata palermitana dell’ Acquasanta che ha iniziato a collaborare proprio con Di Matteo.

Intanto, stiamo parlando di una delle “famiglie” più feroci e ammanigliate con i livelli occulti del Potere della Cosa Nostra palermitana. Vito, cosa che anche molti addetti ai lavori tendono inspiegabilmente a dimenticare, è figlio di quel Vincenzo Galatolo attualmente all’ergastolo per la strage Dalla Chiesa, la strage Chinnici, l’uccisione di Pio La Torre e quella di Ninni Cassarà; nonché coinvolto, con tutta la famiglia, nel fallito attentato dinamitardo all’Addaura, nel quale poi la vittima designata, Giovanni Falcone, stigmatizzò la presenza di “menti raffinatissime”.

Questo solo per dire che il Vito che si pente oggi non è l’ultimo arrivato quanto ad araldica criminale. Prova ne sia che con le sue dichiarazioni ha già provocato una slavina di arresti. Ma il fatto è che Vito ha vuotato il sacco proprio sulla recente preparazione di un attentato a Di Matteo, indicando nel dettaglio la quantità di tritolo che i mafiosi avrebbero in parte comprato dagli ‘ndranghetisti calabresi; in Vincenzo Graziano, reggente del “mandamento” delle borgata di Resuttana, recentemente catturato da polizia e carabinieri, il custode momentaneo dell’esplosivo; e nel trapanese Matteo Messina Denaro, primula rossa del momento, l’esplicito mandante di questa condanna a morte.

Il “caso Galatolo” è un’ottima cartina di tornasole ai fini del nostro ragionamento. I magistrati che parlano con Galatolo hanno dichiarato che esistono “formidabili riscontri” alle sue parole, pur essendo preoccupati perché il tritolo ancora non è saltato fuori. Ma questa collaborazione sta avendo scarsissima eco nei media, mentre a rigor di logica – in tempi di retorica sui successi antimafia – andrebbe enfatizzata.

E qui non vale solo il teorema di prima: ché parlar di Galatolo significherebbe parlar di Di Matteo. La domanda che infatti sorge spontanea è: Messina Denaro ha chiesto alla mafia palermitana di uccidere Di Matteo, ma a Messina Denaro chi è che glielo ha chiesto? Un superlatitante, attorno al quale si stringe il cerchio con l’arresto di familiari stretti, fiancheggiatori, gregari, soci in affari, prestanome, non ha altro a cui pensare? Si sente minacciato dalle indagini di Di Matteo sulla trattativa Stato-Mafia? E perché mai?

Ognuno è libero di darsi le risposte che vuole, così come noi ce ne siamo data una. Ci teniamo a un’ultima notazione in proposito: non è un mistero per nessuno che neanche all’interno del palazzo di Giustizia di Palermo Di Matteo goda – se così si può dire – di “buona stampa”. Sono molti i suoi colleghi che arricciano il naso di fronte al pentimento di Vito Galatolo. Sono gli stessi – lo diciamo per inciso – che si schierarono apertamente contro Antonio Ingroia quando Ingroia si trovò al centro di una violentissima tempesta istituzional – mediatica che alla fine si risolse con il suo abbandono della magistratura. Sarebbe bene che la deontologia professionale non risultasse mai sacrificata a ragioni di protagonismi e invidie che vorremmo fossero finite con le tragedie delle stragi di Capaci e via d’Amelio.

A tale proposito va detto che il nuovo procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, avrà subito il suo bel da fare. Sul modo in cui si è arrivati alla sua nomina è stato scritto parecchio, anche su AntimafiaDuemila. Tutto è nato – tanto per cambiare, verrebbe da dire – da un intervento a gamba tesa del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, volto a stoppare la candidatura di Guido Lo Forte “reo”, anche lui, di coinvolgimento nel processo sulla trattativa. A farne le spese sono stati – come è noto – sia Lo Forte, sia Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, entrambi molto più titolati di Lo Voi a ricoprire quell’incarico.

Napolitano, quando ha voluto (e lo ha voluto spesso durante i suoi due mandati), ha fatto strame di regolamenti, criteri oggettivi, prassi consolidate, in materia di “gestione” della giustizia e della politica. Ma è pur vero che a uscirne con le ossa rotte da questa nomina è l’intero CSM, capace solo di ratificare il diktat di Napolitano, come è altrettanto vero che la presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi, che si è sperticata in lodi della procedura adottata dal Csm, ha perduto una grande occasione per stare zitta su materia della quale, all’inizio del suo mandato, lei stessa ammise candidamente di non capirne nulla. E vada steso un velo pietoso su consiglieri laici di provenienza Pd e Movimento 5 Stelle, che a quei giochi si sono supinamente prestati.

Quanto a Lo Voi, dalla poltrona che adesso occupa, saprà cogliere tutte le occasioni possibili per dimostrare di non essere il “normalizzatore” voluto da Napolitano e che molti, invece, stanno paventando. E che se venne designato da Berlusconi in persona per occupare la carica di delegato italiano ad Eurojust, ciò non ha comportato il fatto di essersi legato le mani a vita in ossequio a un pregiudicato che Renzi e Napolitano hanno scelto per ridisegnare i poteri nella nostra Repubblica. Ma è sin troppo ovvio che sarà innanzitutto il processo sulla trattativa, in un senso o nell’altro, lo snodo principale dei futuri anni della Procura nel capoluogo siciliano.

Lo Voi – è stato ricordato da più parti – si è distinto, in passato, per “non aver firmato” pagine della storia della Procura palermitana che invece andavano firmate e controfirmate: il processo Andreotti e la denuncia appello degli otto sostituti procuratori per cacciare il “capo” Giammanco, all’indomani delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Difficilmente, prendendo le distanze in un modo o nell’altro dall’inchiesta sulla trattativa, Lo Voi potrebbe rivendicare il “gesto” richiamandosi allo spirito volterriano. Lo Voi – di cui conosciamo l’intelligenza – questo lo capisce benissimo da solo, senza bisogno che qualcuno glielo ricordi.

E forse il condannato a morte, nella notte di Capodanno, su questo aspetto farà una riflessione analoga alla nostra.

(22 dicembre 2014)

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