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I forconi e la politica dei diritti

I diritti sono deboli se la politica li abbandona. Ma quale destino assegnamo a una politica svuotata di diritti e perduta per i principi? [Stefano Rodotà].

I forconi e la politica dei diritti
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14 Dicembre 2013 - 22.14


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di Stefano Rodotà.

Sapevamo che la povertà si estendeva,
che dilagavano le diseguaglianze, che la percentuale della fiducia
dei cittadini nelle istituzioni era precipitata al 2%. Eppure questi
dati venivano considerati come pure registrazioni statistiche.
Valutate alla stregua di variazioni di sondaggi e non come lo
specchio di una situazione reale che rivelava quanto la coesione
sociale fosse a rischio. Ora quel momento è arrivato, e bisogna
chiedersi come una situazione così difficile possa essere governata
democraticamente. È problema capitale per le istituzioni, che non
possono ridurlo ad affare di ordine pubblico. Ma è compito pure
delle forze politiche che non possono trasformare le critiche
legittime nella tentazione di raccogliere consensi nella logica della
spallata al sistema, della tolleranza di metodi violenti.

I cittadini si sono sentiti privati
della rappresentanza, affidati alle pure dinamiche economiche,
amputati dei diritti. Da qui bisogna ripartire. La provvida decisione
della Corte costituzionale mette di fronte alla necessità di una
legge elettorale centrata non solo sulla governabilità, ma sul
recupero della rappresentanza. E la dimensione dei diritti è quella
dove si fa più evidente l’intreccio tra le varie questioni.

Torniamo per un momento a Prato, dove
la drammatica morte dei cinesi non è stata causata da un semplice
incendio, ma proprio alla negazione dei loro diritti. Se ad essi
fossero stati garantiti un lavoro legale e la sicurezza, il diritto
alla salute e quello all’abitazione, dunque il rispetto minimo
della dignità della persona, nessuno di loro sarebbe morto. Questo
non è un caso eccezionale, ma la testimonianza di una separazione
sempre più diffusa dell’economia dai diritti, che trascina con sé
anche quella tra politica e diritti, causa non ultima della
disaffezione dei cittadini. L’azione del Governo è in grado di
colmare questa distanza?

Oggi la risposta non può che essere
negativa. L’attuale maggioranza ha come sua componente essenziale
il Nuovo Centrodestra, apparso a qualcuno come una sorta di destra
moderna e che, al contrario, al posto dei diritti civili pone i
“valori non negoziabili”, ribaditi come irrinunciabile segno di
identità. Al posto dei diritti del lavoro ha insediato una logica
che ha fatto deperire le garanzie. Al posto del rispetto dell’altro
ha collocato il reato di immigrazione clandestina e l’ostinato
rifiuto di allargare la cittadinanza. Al posto della legalità
costituzionale vi è ancora la coda lunga delle norme che hanno
distorto la legge in custode di interessi privati. Ognuno di questi
casi ha nomi e cognomi, corrispondenti esattamente a quelli di
esponenti della nuova forza politica. E questo è un ostacolo che
continua ad impedire una esplicita strategia di uscita dalla non
politica dei diritti che ci affligge da anni.

Cominciamo dalle clamorose inadempienze
del Parlamento. Fin dal 2010, prima la Corte costituzionale, poi la
Corte di Cassazione hanno riconosciuto che le persone dello stesso
sesso, unite in una convivenza stabile, hanno «il diritto
fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia». Parole
che non hanno trovato ascolto nelle aule parlamentari, sì che un
diritto fondamentale continua ad essere ignorato. Il silenzio, che
riguarda anche il riconoscimento delle unioni tra persone di sesso
diverso, è destinato a continuare?

Non meno scandaloso è quanto sta
accadendo a proposito dell’accesso alle tecniche di procreazione
assistita. La legge del 2004, il più scandaloso prodotto delle
ideologie fondamentaliste, è stata demolita nei suoi punti
essenziali da giudici italiani ed europei, ma per il Parlamento è
come se nulla fosse accaduto e non vi è stato quell’intervento
che, riconducendo a ragione quel che resta della legge, è necessario
per restituire alle donne l’esercizio pieno dei loro diritti. 

Inoltre, è fallito per fortuna il
tentativo di approvare una legge sulle decisioni sulla vita in
contrasto con il diritto fondamentale all’autodeterminazione e con
la norma costituzionale che vieta al legislatore di «violare i
limiti imposti dal rispetto della persona umana». Ma non si fa
nessun passo nella direzione di approvare le poche norme necessarie
per eliminare ogni dubbio intorno al diritto della persona di morire
con dignità. E così il diritto di governare liberamente la propria
vita — il nascere, il costruire le relazioni personali, il morire —
è ricacciato in una precarietà che testimonia di una vergognosa
indifferenza del legislatore. Sarà mai possibile rovesciare questa
attitudine?

La restaurazione della legalità
attraverso i diritti investe direttamente l’essenziale tema del
lavoro, che ha conosciuto una sua “riduzione privatistica”
soprattutto attraverso l’articolo 8 del decreto 138 del 2011, dove
si consente la possibilità di stipulare, a livello aziendale o
territoriale, contratti collettivi o intese in deroga alle leggi. Il
negoziato tra datori di lavoro e sindacati non avviene più con la
garanzia della legge a tutela di diritti essenziali, ma torna ad
essere affidato ai rapporti di forza, mai così “asimmetrici”
come in questo tempo di crisi pesantissima. Questa norma deve essere
cancellata, così come ha fatto la Corte costituzionale dichiarando
illegittime norme limitative della rappresentanza sindacale, con una
decisione che ci ricorda la necessità di una legge in materia che,
nella logica costituzionale, riconosca ai lavoratori i diritti
strettamente connessi alla loro condizione. E la questione del
reddito di cittadinanza, della quale ci si vuol liberare con qualche
mossa infastidita, rappresenta una buona occasione per ripensare il
tema difficile del rapporto tra lavoro, cittadinanza, eguaglianza,
dignità.

Il filo è sempre quello che connette
diritti e restaurazione della legalità. Lo vediamo discutendo di
carcere, dove i diritti si scontrano con trattamenti inumani e
degradanti e dove la responsabilità del Parlamento non si individua
soltanto intorno ad amnistia e indulto, ma con la pari urgenza di
incidere sulle cause del sovraffollamento, che hanno le loro radici
in reati legati all’immigrazione o al traffico di stupefacenti,
all’inadeguatezza del codice penale. Lo vediamo a proposito della
tutela della privacy che, da una parte, esige maggior rigore
all’interno; e, dall’altra, impone di non considerarla una
questione “domestica”, ma un tema che imporrebbe una presenza del
governo italiano in quella dimensione internazionale dove si gioca
una inedita partita di legalità costituzionale. Lo vediamo nel
deperimento continuo del diritto alla salute e di quello
all’istruzione.

Viviamo ormai in una situazione in cui
la Costituzione è ignorata proprio nella parte dei principi e dei
diritti. E lo stesso accade nell’Unione europea, amputata della sua
Carta dei diritti fondamentale, che pure ha lo stesso valore
giuridico dei trattati. La simmetria tra Italia e Europa è
rivelatrice. La lotta ai populismi, anche nella prospettiva delle
prossime elezioni europee, passa proprio attraverso l’esplicito
recupero del valore aggiunto assicurato proprio dalla garanzia dei
diritti.

Questo catalogo, ovviamente parziale,
consente di cogliere i nessi tra politica e società, i limiti delle
impostazioni solo economicistiche, la rilevanza dei principi di
eguaglianza, dignità, solidarietà. Ma serve anche a mostrare non
solo l’inaccettabilità di qualsiasi sottovalutazione dei diritti,
ma pure la debolezza d’ogni posizione che ritenga possibile
separarli dalla democrazia. È vero, i diritti sono deboli se la
politica li abbandona. Ma quale destino possiamo assegnare ad una
politica svuotata di diritti e perduta per i principi?

Fonte: La Repubblica,
13 dicembre 2013.

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