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'L''uso dei corpi'

Tra diritto pubblico e biopolitica, l’immanenza. Una lettura di “L’uso dei corpi” di Giorgio Agamben (Neri Pozza, 2014). [Roberto Ciccarelli]

'L''uso dei corpi'
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3 Dicembre 2014 - 16.54


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di Roberto Ciccarelli

In pochi libri oggi c’è un’aria di scoperta. Può accadere leggendo L’uso dei corpi, ultima tappa del ciclo ventennale che Giorgio Agamben ha dedicato alla riflessione sull’Homo Sacer. Insieme a pochi altri, questo libro spiega perché oggi ciò che è da pensare è l’immanenza. Sulle tracce del filosofo francese Gilles Deleuze, che ne ha fornito un’originale ricostruzione, Agamben torna oggi su questi sentieri dove non mancano chiaroscuri e incroci problematici. In più Agamben arriva a spiegare il senso della sua indagine sul diritto pubblico (lo “Stato di eccezione”), sulla biopolitica (da lui declinata come potere “tanatopolitico” della razionalità occidentale).

Il libro è importante anche per un’altra ragione, decisiva per un filosofo che sin dai suoi esordi ha condotto un intenso confronto con Aristotele, Heidegger e la sua peculiare filosofia dell’Essere. Agamben ha finalmente deciso di prendere una strada che lo ha portato lontano dall’“ontologia prima”, cioè quella filosofia con la quale si è confrontato sia pure per via negativa.

Dall’interrogazione sull’Essere oggi passa a quella sulla vita e sull’esperienza, secondo la partizione di Jean Hyppolite. Agamben è uscito dai boschi dei sentieri interrotti in Germania e arriva a Parigi dove Georges Canguilhelm inaugurò nel Dopoguerra un’originale riflessione sulle norme. La stessa che oggi nutre quella sulla teoria dell’uso che trova ne L’uso dei corpi un’importante riformulazione, anche molto lontana da quella condotta dalla filosofia dei beni comuni, piuttosto nota in Italia.

E, infine, questo filosofo originale mostra di usare la teologia, che molti sforzi ha assorbito nei libri prodotti in questi anni, per il suo originale intento decostruttivo. Agamben, infatti, non è un teologo, e non ha passato gli ultimi anni studiando i padri della Chiesa per un’improvvisa conversione. La sua aspirazione a costruire una genealogia della razionalità teologica dell’Occidente assume una forma definitiva che non dovrebbe essere tuttavia confusa con quella di Michel Foucault, fonte inesauribile di ispirazione anche per il filosofo italiano. Gli strumenti sono diversi, ma gli esiti potrebbero non essere lontani.

La scoperta (inattesa) di un libro spinozista

La scoperta che questo libro porta con sé è il pensiero di Spinoza. È questo il senso della (ri)scoperta dell’immanenza compiuta nell’uso dei corpi: nel ripercorrere la storia della metafisica, Agamben trova in Spinoza il modo per neutralizzare la gerarchia (aristotelica) tra essenza e essere, tra causa e effetto, tra potenza e atto, tra sostanza e modo – cioè la razionalità della politica e il suo intimo rapporto con la metafisica e la teologia. Alla fine di questo percorso impervio ci ritroviamo in una nuova scena della filosofia. Dove si parla di ontologia modale che è anche un’etica.

Tra le pieghe della patristica, e poi nella scolastica – filosofia che prenderà forma abbacinante in Spinoza, e da allora insuperata – Agamben formula le seguenti tesi:

1) La vita è prodotta vivendo

2) Esistendo insieme, noi ci formiamo a una vita

3) Produrre una forma significa dare una forma a questa vita

4) La modalità in cui una vita prende forma è l’espressione singolare di un modo universale, comune a ogni forma del vivente

Queste sono le caratteristiche di un’“ontologia modale”. Con una definizione meno tecnica, si può dire che il suo pensiero risponda alla “scena etica del pensiero contemporaneo”, così la chiamava Deleuze. Il problema di questo pensiero è immediatamente politico. Con questa “etica” Agamben vuole dire che non abbiamo bisogno di principi morali, ortopedie sociali, patria e origini. Insomma di tutte le chincaglierie con le quali il discorso pubblico si adorna per presentarsi in società e solfeggiare lo spartito del vittimismo, del dover essere, del “dobbiamo crescere” e correggere il legno storto dell’umanità.

La trasformazione del modo in cui viviamo, oggi, è un problema etico, e non morale. È un problema estetico, perché molto dipende anche dallo stile con il quale un autore sigla la sua opera. E poi è un problema politico, già noto al filosofo arabo Averroè: come congiungere, letteralmente copulare, il singolo individuo con l’intelletto generale.

L’apolide è il più politico di tutti

Tale congiunzione avviene nella vita contemplativa del filosofo. Secondo Aristotele questa contemplazione induce il filosofo a essere un apolide nella sua comunità, a sciogliere il suo vincolo di appartenenza. L’apolidia era inquietante per i Greci. E non lo è meno oggi. Per questo il pensiero viene bandito dalla [i]polis[/i], ma l’apolide non smette mai di fare politica. Una politica alla quale il filosofo fa costantemente appello sin dal 1990, quando pubblicò un libro tanto smilzo quanto folgorante: La comunità che viene.

Questo “bando”, figura centrale nell’Homo Sacer, conosce una versione positiva ne L’uso del corpo. È il bando che colpisce il filosofo, ma anche lo schiavo più volte evocato in questo libro. Entrambi hanno la possibilità di costruire una vita insieme “super-politica e apolitica”, cioè una vita politica fuori dai confini della polis, in una polis diversa da quella esistente.

La figura più potente che incarna questa vocazione del filosofo è Diogene il Cinico. Ne parlò Michel Foucault nelle sue lezioni sul Coraggio della verità (Feltrinelli). Il cinico, con il suo essere apolide, è il sedimento politico dell’attivista rivoluzionario del XIX secolo o del XX secolo. Più in generale, di tutti coloro che vogliono trasformare la città partendo da una condizione politica non collocabile nei suoi confini prestabiliti.

L’apolide è soprattutto una figura centrale nel pensiero politico contemporaneo dove conosce infinite incarnazioni: la donna, il sans papiers, il precario, i soggetti Lgbtqi, il “precario”. Tutti oggetto del “bando” sovrano, tutti soggetti fuori dalla normalità che la norma impone senza tuttavia mai riuscire a prendere le misure del mondo. Più che una politica dei margini, Agamben invita a ripensare la politica come forma dell’apolidia di massa nella traumatica sconnessione tra la cittadinanza e il suo territorio, e dei diritti dal suo soggetto.

La sua filosofia è senz’altro quella che è riuscita a interpretare al meglio questa condizione: da un lato, c’è la massima distanza tra il [i]bios[/i] e la [i]zoé[/i], tra la vita nuda e quella civilizzata; dall’altro, c’è la terribile concentrazione in una sovranità fantasmatica che ha potere di vita o di morte su intere popolazioni. Insieme questi opposti formano il soggetto del potere, dominato e dominante.

Agamben sta conducendo una delle più radicali opere di decostruzione di questo dispositivo che domina il soggetto e lo costituisce sin dalla sua più profonda intimità. L’importanza de L’uso dei corpi, ma sintomi in questa direzione si trovano già in Altissima povertà, sta nel considerare completata quest’opera così radicale e assidua. Ora si tratta di spiegare come se ne costruisce un’altra.

Una politica dell’esilio

Oggi “l’esilio dalla politica cede il posto a una politica dell’esilio” scrive Agamben. Proviamo a sciogliere questa formula. Chiaramente non significa “ricostruiamo la sinistra”, un motto che contraddistingue l’impotenza attuale ed esprime un concetto talmente vuoto che potrebbe essere declinato nel suo opposto (“ricostruiamo la destra”) senza cambiare di significato. Non sembra essere nemmeno un elogio dell’esodo dalla politica, né la celebrazione degli emarginati che finisce per rafforzare la loro esclusione.

Il problema è molto più complesso: come può la negatività assoluta di una condizione di bando trasformarsi in una presa di parola affermativa? Nei termini di Agamben: in che modo la più radicale decostruzione del soggetto e della capacità di dominio tanatopolitico sulla vita diventa creazione di una nuova (forma di) vita? Il senso di questa domanda coglie una certa aria dell’epoca e traduce un passaggio culturale decisivo avvenuto negli ultimi anni.

Sin dagli anni Ottanta, Agamben ha sostenuto che l’alternativa non sta nel rovesciamento meramente ideologico del modo di produzione, né nel curare il soggetto sul lettino dello psicoanalista per averne uno nuovo e autentico alla fine della cura. Considerazioni simili venivano svolte dal cosiddetto “pensiero negativo”, come da quello “impolitico”.

Oggi la discesa agli inferi è terminata ed emerge con forza l’esigenza di fare esprimere la critica su un terreno affermativo, trovando il modo di non considerarla solo come un residuo del dispositivo del soggetto, ma come l’effetto di un potere destituente. L’apolide costruisce città e, allo stesso tempo, si sottrae. Come conciliare questa che sembra una contraddizione?

Questa esigenza trova ne L’uso del corpo una risposta originale. Si istituisce qualcosa nell’uso di una vita. Ma per essere efficace, questo uso deve “destituire ogni proprietà giuridica, senza che questa deposizione fondi una nuova identità”. In altre parole: una nuova istituzione è tale quando destituisce l’esistente usando le norme esistenti e creandone delle nuove. E ancora: “Una forma di vita depone la condizione in cui vive, non le nega, ma le usa”.

Agamben cita San Paolo, a lui caro: “Se sei uno schiavo – scrive il santo – non preoccupartene, piuttosto usa la tua condizione di schiavo”. In altre parole: chi è senza parte, cioè non ha mezzi né identità riconosciuta, non ha alcun peso in una comunità politica. Può usare questa condizione per abolire la distribuzione delle parti in commedia, non semplicemente per prendersi il centro della scena. In fondo era questo lo scopo della lotta di classe di Marx: allontanarsi dalle gerarchia sociale non per riprodurne una nuova, bensì per abolirla. Non è detto che, una volta costruita la “società comunista” questa esigenza non si ripresenti in termini ancora più forti.

Poveri, schiavi e banditi

Il contesto in cui si muove Agamben non è anarchico. Egli intende piuttosto dimostrare come la struttura delle classi, la distinzione tra Stato e mercato, tra potere e contro-potere sia contingente, storica, prodotto di un dispositivo che cerca di governare l’ingovernabile. La contingenza più grande deriva dal contatto tra una zona di massima inclusione e massima esclusione, tra integrazione e apocalisse. Un contatto che viene incarnato dalle figure spossessate di tutto: poveri, schiavi, “banditi”.

A loro il cristianesimo ha detto: il dominio esercitato sulla vostra vita non ha importanza rispetto alla vita che vi aspetta dopo. Quel potere che sfrutta, distrugge o uccide è destituito di fondamento. La radicalità di francescanesimo sta nel dimostrare che esiste una potenza che destituisce e rivela la “nullità dei vincoli” a cui la vita viene assoggettata. La ricerca spasmodica è quella di fare emergere una vita nella sua forma libera. Qui e ora. E non solo nella “città di Dio”.

La risorsa, ma anche il limite costitutivo, del ciclo Homo Sacer è che tale forma libera di vita non può affermarsi sul terreno della teologia cristiana. Agamben l’ha cercata ai margini della Chiesa: tra gli angeli, i mistici, i francescani, nelle teologie politiche che si sporgono su un abisso da cui vengono salvate dall’auctoritas della Chiesa. O dalla funzione autenticamente conservatrice del pensiero politico o di quello giuridico. Ma qui non c’è salvezza, se non quella rimandata alla vita dopo la morte o delegata al sovrano che ha potere di morte, non a quella che depone il potere in questa vita e gode del suo essere libera.

Come si libera allora questa vita e come si rende inoperoso il potere che viene esercitato su di essa? Non c’è fuori possibile, l’alternativa va cercata dentro. Quello che non sappiamo, o meglio che la nostra cultura filosofica e politica non ci aiuta a comprendere subito, è che in questo dentro esiste una dinamica che sfugge allo stesso potere. Ed è una dinamica immanente, comune, basata sull’uso non sui principi, sulla pratica non sulla somma delle esperienze o il loro consumo. Questo comune nutre lo stesso potere, e il diritto usato per governare qualcosa che resta invisibile, ma onnipresente.

Una cosa di tutti e di nessuno

Nell’uso dei corpi Agamben riconosce un debito nel lavoro di Yan Thomas, un filosofo francese di immenso talento che si è occupato di diritto romano. Thomas ha chiarito che quel comune ricercato con perizia dal pensiero contemporaneo era già presente tra i giuristi romani. I romani attribuivano a questo spazio, sospeso tra diritto privato e diritto pubblico, una funzione religiosa, sacra, inalienabile nello scambio commerciale, come dal patto politico con il sovrano. Lo stesso Agamben lo ha fatto sin dalla metà degli anni Novanta, con Homo sacer. Lui però l’ha lasciato sospeso, non ne ha quasi mai osservato la concretezza. Sino al punto di identificarlo nel “pensiero”.

Nel diritto romano, così teso alla risoluzione delle controversie che emergono dalla materialità dell’esistenza, si tratta invece di una zona di “uso pubblico” come piazze, teatri, mercati, portici, strade, acque, fiumi la cui indisponibilità è “assoluta” e le cose che da esse possono essere prodotte sono sottratte all’appropriazione privata. Questi usi, così come i prodotti o le azioni che da essi discendono, sono “liberamente accessibili” a tutti. Per i romani questa “cosa” non “era di nessuno” (Res nullius). Il loro valore non è considerato sotto l’angolo della loro costituzione giuridica o di quella del mercato.

Da questa ricostruzione, Agamben comprende che è in questo spazio che avviene il “contatto” tra la potenza e l’atto. È nell’uso che si costituisce una cosa, ed è proprio su questo uso che lo Stato e il Capitale predispongono i loro dispositivi di governo. Il punto è: se questo spazio non è appropriabile per nessuno, come può essere usato da chi ci vive, indipendentemente da chi è o a cosa appartiene? La risposta, in fondo, è semplice: esso si dà quando viene usato da una collettività di utenti, si forma e riforma sulla base di un esercizio che si dà nel processo e con il processo.

Siamo così arrivati al cuore del pensiero dell’immanenza: non c’è mai un prima o un dopo, se non quello stabilito nel mezzo di un processo che si genera quando tale collettività si riconosce in un uso specifico e storicamente determinato. Questo corrisponde a ciò che Agamben chiama potere destituente. Tanto più si esercita quotidianamente la potenza espressa in questo esercizio, tanto più si destituisce senza abdicare i poteri esistenti. Non ci si sottrae verso il vuoto, nell’immenso fuori dove l’individuo “inoperoso” resta da solo con il suo pensiero, ma si insiste nel cuore del presente dove zampilla folgorante la sorgente del contemporaneo. L’immensa temporalità di una potenza che si esplica in un uso generativo, istituente, continuo di ciò che è comune a tutti.

L’uso e l’intelletto generale

L’Uso del corpo sembra ricondurre questo processo nella dimensione auratica del pensiero, non in quella della storia. Per Agamben sembra essere chiaro che questo pensiero esprime un intelletto collettivo e che la teoria dell’uso è tale quando viene agita consapevolmente da una moltitudine. Se è corretta questa interpretazione, allora bisogna rafforzare l’immanenza tra uso e intelletto, così come quella tra la pratica e il potere istituente.

Proprio com’è accaduto, in fondo, nel corso della modernità politica, dalla rivoluzione francese a quella sovietica, e in maniera più discreta ancora oggi. Quello spazio inappropriabile del comune è a disposizione di un’intuizione singolare e di massa, man mano che si matura la capacità di crearlo. Una capacità che ha segnato l’irruzione sulla scena della politica delle donne e dei lavoratori, gli schiavi fino ad allora esclusi dall’uso del comune. Tale irruzione ruppe d’un colpo il monopolio statale sull’utilità comune – che poi in realtà era la messa a disposizione delle ricchezze e del mondo ad una sola classe. E ruppe anche la censura sulle attività più comuni che fanno una vita: la riproduzione, il lavoro, le relazioni, l’intelligenza.

Oggi queste attività sono state nuovamente consegnate all’amministrazione burocratica della produzione così come al governo neoliberale del mercato, ma restano sulla scena sotto la forma di un rimosso, un frammento o l’uso che deriva dalle relazioni o nei rapporti di forza.

Politica del noi

Nei suoi ultimi anni Michel Foucault definì quest’uso nei termini di una “politica del noi”, una politica generata dalle pratiche che fanno le singolarità ciò che sono. O meglio, direbbe Deleuze, le fanno divenire quello che sono. Agamben ragiona a questa altezza, tra Foucault e Deleuze, e con lo stesso pensiero dell’immanenza, e sostiene che questa azione si svolge immediatamente nel pensiero. Può essere, e sarebbe già un grande cosa. Ma quale potenza, desiderio, e nutrimenti potrebbe trarre questo pensiero da uno spettacolare movimento, o convergenza stellare di energie e creazione, che liberino qui e ora le singolarità dall’appartenenza a una categoria sociale, a un tipo psicologico identificabile, dimostrando con il proprio uso che ogni forma di sovranità è inoperosa.

(24 novembre 2014)

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Photo © Giuseppe Biagi, (Da una terra all”altra).

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