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Un sasso nello stagno

'Marco Bertorello, "Non c''è euro che tenga" (Ed. Allegre, 2014). Nota critica su un prezioso libretto sull’euro. [Raffaele Sciortino]'

Un sasso nello stagno
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26 Marzo 2015 - 18.45


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di Raffaele Sciortino

Titolo e sottotitolo del libro di Marco Bertorello formano quasi un contrappunto: Non

c’è euro che tenga. Per non piegarsi alla moneta unica non serve uscirne. Non si

tratta di ambiguità ma del tentativo dichiarato di non farsi imporre, analiticamente e

politicamente, il terreno dall’opposta ma speculare alternativa euro sì/euro no. Non

che Bertorello non sappia, come molti di noi, che il terreno più avanzato per la ripresa

del conflitto in “basso a sinistra” è in Europa quello che con estrema difficoltà, e in

sostanziale isolamento, stanno in questi giorni tentando popolazione e governo greci.

Ma il punto è a quali condizioni e con quale prospettiva calcare il terreno europeo.

Investigare più a fondo queste condizioni è il merito di questo prezioso libretto

che prova a lanciare un sasso nello stagno dello stantio, e diciamocelo: piuttosto

miserevole, stato del dibattito a sinistra sul tema.

Partiamo dall’analisi. Tre le tesi principali che si possono ricavare.

La prima ci

dice che [i]Euro makes sense[/i], il varo della moneta unica europea non è frutto di un

errore (p.es. di architettura istituzionale) o dell’irrazionalità delle classi dirigenti

europee. Piuttosto, si è trattato di uno strumento fondamentale per rispondere alla

competizione su di un mercato in via di globalizzazione, dal quale hanno tratto

vantaggio tutti i settori delle borghesie e dei ceti proprietari europei, ovviamente

in diverso grado e con risultati differenti, come è oggi sotto gli occhi di tutti.

Aggiungerei, su questo punto, che il mix di strategia neo-mercantilista (a cerchi

concentrici intorno all’industria tedesca) verso l’esterno e competizione intra-
europea sul mercato unico, pur con le inevitabili tensioni, puntava a indirizzare la

competitività sul terreno dell’innovazione e della concentrazione del capitale europeo

come unico argine anche per rendere meno esplosivo il progressivo smantellamento

del compromesso capitale-lavoro (welfare, salari, mercato del lavoro) che quella

stessa strategia richiedeva. Azzardando, ma neanche tanto se guardiamo ai bassi tassi

di interesse della prima fase, si è trattato in certo senso dell’equivalente europeo della

finanziarizzazione dei consumi negli [i]States[/i].

Tutto ciò, e siamo al secondo punto, non toglie ma rafforza e inquadra una critica

di classe all’Europa “realmente esistente”, come scrive Bertorello. Cioè, non solo

l’euro consolida trend economici-sociali e di classe precedenti (asimmetrie intra-
europee crescenti e attacco anti-operaio) ma non è esclusivo strumento dell’egemonia

di Berlino (anche, certo) sull’Europa. Qui vale la pena di citare: “l’Europa tedesca

è meno tedesca di quanto si creda”, le strategie competitive sono “ambizioni

transnazionali delle classi dirigenti europee” (p. 57).

Non c’è qui lo spazio per approfondire la discussione sul perché secondo Bertorello i facitori di Europa non

perseguono un super Stato-nazione ma un’entità sovra-nazionale pro competizione,

ragion per cui il più Europa richiesto oggi da molti per attutire con una transfer

union i colpi delle politiche rigoriste rischia di essere nient’altro che un’illusione,

ma forse la spiegazione risente qui di un tantino di economicismo di troppo, mentre

bisognerebbe riandare al rimosso delle classi dominanti europee – prive di un solido

Federalist – rispetto a un potenziale pericolo “sovietico” a scala continentale. Ma

soprattutto non tiene conto della sorda ma profonda ostilità statunitense a qualunque

progetto duro di Stato federale europeo a venire. Questo, infatti, si può dare per i

nostrani “realisti di mercato” (o ordo-liberisti), non solo tedeschi, dopo e non prima

dell’affermazione dell’euro, ovvero della potenza economica che vi sta dietro,

nei confronti del dollaro a scala internazionale e il disciplinamento delle singole

componenti nazionali e territoriali a questo fine. Solo a queste condizioni, come del

resto riconosce anche Bertorello, Berlino sarebbe disposta ad accettare trasferimenti

di risorse a scala continentale. Ma è arrivata prima la crisi globale.

Terza tesi: la crisi non nasce dall’euro né in

Europa. Può sembrare banale affermarlo ma non lo è affatto alla luce delle letture

mainstream, anche a sinistra, sull’(euro)crisi come frutto della moneta unica,

dell’egoismo tedesco, dell’austerity e spiritosaggine simili. Su questo il libro è forse

fin troppo cauto: si tratterebbe invece di andare più a fondo nel “provincializzare

l’eurocrisi” situandola nel quadro non solo dell’inceppamento della globalizzazione

con epicentro negli Usa (dunque: cosa sta succedendo all’accumulazione

capitalistica?) ma altresì della micidiale manovra di scarico degli effetti della crisi sul

resto del mondo da parte di Washington innanzitutto attraverso le politiche espansive

della Fed (è strano che nel libretto non si parli mai dell’assalto speculativo all’euro

passato attraverso l’attacco ai debiti pubblici dei cosiddetti Piigs) ma sempre più

anche con strategie geopolitiche volte a impedire la seppur minima de-
dollarizzazione dei flussi di valore globali
. Infatti, non sovrastimare la moneta e le

politiche monetarie (corretto!) non significa affatto non vederne il risvolto effettivo

come strumenti non neutri in termini di conflitti inter-borghesi (di nuovo: dollaro

versus euro, e non solo) e di classe (vedi salvataggi della finanza privata via aggravio

dei debiti pubblici, ridistribuzione al contrario delle risorse via Quantitative Easing,

ecc.).

Ma se è così, andrebbe riletta anche l’attuale politica di risposta europea alla

crisi: l’austerity non è semplicemente il frutto del marchio rigorista del progetto

europeo a guida teutonica (l’unica egemonia possibile, del resto) ma anche e

soprattutto il tentativo di contenere e in prospettiva abbattere l’indebitamento

pubblico su cui può scorazzare, questo il punto, la finanza a stelle e strisce, e su cui

dunque rischia di infrangersi un’opzione europeista effettiva. Strategia capitalistica,

va da sé, ma diversa e per certi versi confliggente con quella “keynesiana”

statunitense. Nodo complesso, questo, ma ineludibile per ogni seria analisi della crisi

e delle risposte anti-capitalistiche (potenziali) ad essa, ma anche delle stesse risposte

anti-austerity. Al di là di queste criticità il libretto è mille miglia lontano, è bene

sottolinearlo, dai peana di sinistra viva Draghi abbasso Merkel in nome di un

presunto keynesismo che guarda all’esempio… Obama!

Siamo così alle implicazioni politiche del ragionamento rivolto a chi si pone nei

termini di resistenza alle politiche in corso e/o di ricerca di un’alternativa di sistema.

In positivo, Bertorello aiuta, dicevamo, a non sottomettersi al terreno mutuamente

esclusivo euro/no euro che pretende di coprire l’intero campo delle possibilità. E

questo è importante. Il senso politico è però più profondo: il libretto rende bene

l’impasse della situazione attuale in Europa. È una piccola operazione di verità, viene

da dire.

L’impasse è tra l’opzione di euroexit – che non è la soluzione di nessuno tra i

problemi che ci si pongono – e l’impossibilità di un’Europa unita e socialdemocratica

come nei desideri, a tinte ora più giacobine ora più sociali, degli europeisti di sinistra.

Tale impossibilità deriva dall’analisi dei meccanismi strutturali alla base dell’Europa

realmente esistente, il che mina alle radici ogni discorso su un’altra Europa possibile

a meno di scardinare quegli stessi meccanismi.

La prima opzione a sua volta viene

decostruita efficacemente nel suo elemento centrale di risposta, anche comprensibile,

all’eurocrisi e alle politiche rigoriste in termini di illusorio ritorno a una (impossibile)

sovranità nazionale e monetaria che si riduce in fondo alla riproposizione di politiche

di svalutazione competitiva. Non ha la pretesa di essere una critica originale, questa

di Bertorello, ma ha la caratteristica di mettere a fuoco il dato critico cruciale di

simili opzioni: rispondere all’esasperazione dei meccanismi competitivi che stanno

al cuore della crisi con un di più di competizione, solo compressa in un ambito più

ristretto (che per certa sinistra vale illusoriamente come ambito per una ripresa del

conflitto).

Neanche tanto paradossalmente, dunque, euroscetticismo ed europeismo

mostrano tutta la loro affinità nel loro non mettere in discussione la logica del

mercato, la competizione, seppur a scale differenti ma pur sempre nell’illusoria

speranza di poter ripristinare il patto sociale lavoro-capitale. Il che non toglie, va

aggiunto, che ragioni materiali profonde stanno dietro le due opposte composizioni

sociali, trasversalmente alle classi e a configurazione non statica. Dimenticarlo

equivarrebbe a fare di una corretta e necessaria critica una mera opzione ideologica

e precludersi la comprensione e l’intervento nelle dinamiche sociali e politiche, tanto

più se indipendentemente dalla volontà di chicchessia si dovesse arrivare alla rottura

dell’euro. Resta che qualunque seria ipotesi di lotta alla crisi non può non tornare

sulla questione cooperazione contra competizione.

Ora, l’impasse di cui sopra non si scioglie facilmente o altrimenti non sarebbe tale.

Paralizza al momento anche le possibilità di un’opposizione sociale reale, ampia, non

frammentata, non semplicemente reattiva. Senza la presunzione di avere la risposta,

Bertorello avanza l’ipotesi di un’alleanza sociale del lavoro contro l’economia

del debito come possibilità di ricomposizione a scala europea. Non credo sia così

semplice (neanche lui lo crede ovviamente). Intanto, la questione debito, seppur

cruciale anche come obiettivo di lotta, non può essere separata dall’intreccio tuttora

essenziale con le forme della produzione e della riproduzione capitalistica, con

l’”industria” (come rapporto sociale) e le possibili riconfigurazioni del rapporto

industria-finanza-vita (non è la stessa cosa la via “crescitista” occidentale e quella

“sviluppista” dei Brics, per nominare anche solo un tema). Il fascino delle teorie

sull’uomo indebitato non ci porta tanto lontano. Inoltre, ogni proposta sulla revisione

dei debiti, minima o massima che sia, non può non porsi il problema: no debito ma

per fare cosa? Per rimettere in moto la macchina del mercato, ancorchè reso più

“equo”, o per iniziare finalmente a porre il problema della riappropriazione delle

condizioni sociali di produzione e riproduzione dell’esistenza?

Così pure sul versante della ricomposizione dei soggetti, il problema è innanzitutto

cosa è diventato il lavoro e perché fatica a riaggregarsi, più in generale cosa è

diventato il potenziale noi della lotta al capitale. Problema tremendo. Non a caso

Bertorello conclude il suo scritto richiamandosi ai soggetti reali più che a programmi

astratti. Ecco: il discorso finisce dove dovrebbe ri-iniziare, sui soggetti, sulla

soggettività, e non è il minor merito di questo lavoro concludere sulla necessità di

riaprire.

(26 marzo 2015)

Vedi anche : [url”Non c”è euro che tenga”]http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=113905[/url], di Marco Bersani.

[url”Torna alla home page”]http://megachip.globalist.it/[/url]

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