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L'insistenza discreta della guerra civile

Una recensione a: "Stasis. La guerra civile come paradigma politico. Homo sacer, II, 2", di Giorgio Agamben (Bollati Boringhieri, 2015). [Marco Tabacchini]

L'insistenza discreta della guerra civile
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21 Aprile 2015 - 12.54


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di Marco Tabacchini

Vi è un preciso motivo per il quale il recente film di Martin Scorsese, The Wolf of Wall Street, ha così faticato a farsi riconoscere come un film di guerra. E questo non tanto per l’assenza pressoché totale di azioni crudeli e morti platealmente somministrate, cose di cui il cinema di genere non è mai stato troppo avaro, e nemmeno per l’abilità con cui le situazioni più ironiche si susseguono, in un vorticoso montaggio, alle scene drammatiche. La difficoltà che lo spettatore prova nel rubricare una simile pellicola tra le più fedeli alla contemporanea declinazione della guerra dipende piuttosto da una radicale incapacità di percepire quest’ultima proprio là dove essa imperversa nelle sue forme non militari, là dove a fatica si distingue non solo da una qualsiasi attività lavorativa, ma perfino da un divertimento consumato tra colleghi o da un godimento individuale. È come se l’aspetto frivolo, perfino triviale, della guerra contemporanea abbia saputo disarmare la nostra capacità di percezione, non più in grado di riconoscerla dietro le innocue apparenze che sempre più spesso essa suole rivestire.

Eppure è lo stesso intraprendente e disinvolto broker a offrire la chiave per una diversa comprensione della sua vicenda: al momento di aizzare contro le potenziali vittime di turno i suoi dipendenti, i suoi «fottuti guerrieri», intimando loro di strozzare i propri clienti con le azioni da vendere, Jordan Belfort non esita a svelare l’aspetto omicida e terroristico del loro impiego, nonché il potenziale distruttivo di quei telefoni neri che, al pari di ogni altro congegno, non sanno funzionare da soli, ma necessitano di essere usati da qualcuno, senza il quale «sono soltanto attrezzi di plastica, come un M-16 carico senza un marine che prema il grilletto». Solo una volta impugnati, anch’essi potranno abbattere il proprio obiettivo e rivelarsi così armi forse meno brutali di un fucile, e tuttavia altrettanto letali, altrettanto efficaci nel liquidare le vite prese a bersaglio: per il solo fatto che alcune vite si troveranno spinte a colpire e confermare la propria supremazia mediante una semplice telefonata, altre vite si troveranno letteralmente schiacciate da un simile gesto e dalla violenza che esso reca con sé, liquidate nella più imperturbabile indifferenza (la sola forma di disprezzo consona al tenore di una simile guerra).

Chiunque si affrettasse a leggere una simile situazione entro un regime metaforico in cui la guerra è presa a modello dalla feroce dimensione lavorativa, non solo ne mancherebbe le implicazioni, le modalità con cui una simile metafora non cessa di incarnarsi in una pratica quotidiana, ma rischierebbe inoltre di disconoscere i mutamenti in cui è incorsa negli ultimi anni la dimensione stessa della guerra, la quale ha saputo farsi – là dove ciò poteva esserle strategicamente favorevole – tanto inapparente da perdere molti dei tratti con cui da tempo immemore il nostro immaginario ha tentato di circoscriverla. Sarà forse per questo che, nel leggere i due testi di Giorgio Agamben raccolti sotto il titolo [url”Stasis. La guerra civile come paradigma politico”]http://www.bollatiboringhieri.it/scheda.php?codice=9788833925875[/url]. Homo sacer, II, 2 (Bollati Boringhieri, 2015), si ha l’impressione che la prima, ineludibile sfida di fronte a cui la guerra contemporanea ci pone sia quella di sottrarre quest’ultima all’ovvietà rassicurante a cui essa è stata tradizionalmente consegnata. Si tratterà, in altri termini, di rinvenire non tanto la possibilità della guerra, quanto piuttosto la sua stessa presenza – inconfessabile, notturna e segreta – là dove i nostri occhi non si dimostrano più capaci di riconoscerla.

Compito tutt’altro che agevole se, come mostra Agamben sulla scorta degli studi di Nicole Loraux consacrati alla Grecia antica, l’evento della guerra civile non consiste tanto nel clamore di un singolo episodio cruento, sia pure d’eccezionale efferatezza, quanto piuttosto nel violento instaurarsi di una soglia di indifferenza che confonde, in mancanza di qualsiasi limite, le classiche partizioni che da sempre presiedono all’istituzione della politica: «la guerra civile assimila e rende indecidibili il fratello e il nemico, il dentro e il fuori, la casa e la città. Nella [i]stasis[/i], l’uccisione di ciò che è più intimo non si distingue da quello di ciò che è più estraneo» (ivi, 22), mentre la straniante intimità dei propri nemici virtuali si accompagna all’estraneità che le prossimità provano al reciproco contatto: solo la guerra condivisa sembra ormai ricordare loro l’appartenenza a un mondo comune.

Non stupisce pertanto come i Greci abbiano fatto della guerra civile «l’indimenticabile che deve restare sempre possibile nella città» (ivi, 29), come se solo dalla sua attenta esposizione (tale da costringere chiunque, una volta essi sia stata scatenata, a prendervi parte sotto pena di essere marchiati d’infamia ed esclusi dalla fruizione dei diritti civili) questi potessero attendersi la restaurazione delle partizioni che essa aveva pur provvisoriamente infranto. Se la famiglia ha potuto allora presentarsi come l’origine stessa della guerra civile e al contempo permanere come il paradigma stesso della successiva e sempre auspicata riconciliazione, ciò è dipeso dalla premura con cui i Greci hanno saputo sostenere la tensione tra politico e impolitico, tra pubblico e privato, riarticolando ogni volta meticolosamente la loro separazione: «La Grecia classica è forse il luogo in cui questa tensione ha trovato per un momento un incerto, precario equilibrio. Nel corso della storia politica successiva dell’Occidente, la tendenza a depoliticizzare la città trasformandola in una casa o in una famiglia, retta da rapporti di sangue e da operazioni meramente economiche, si alternerà invece a fasi simmetricamente opposte, in cui tutto l’impolitico deve essere mobilitato e politicizzato» (ivi, 31).

È proprio il carattere persistente di questa tendenza, grazie alla quale la dimensione della guerra civile ha potuto accrescere la propria intensità, a richiedere, come indicato da Agamben in apertura al volume, la necessità di reperire quali sono le alterazioni a cui essa è stato sottoposto in seguito all’espansione che negli ultimi decenni ha interessato la guerra civile mondiale. D’altra parte, se un tempo il fenomeno della guerra civile poteva essere descritto nei termini della stasis emphylos, conflitto interno a un gruppo chiuso e delimitato di cittadini, tale accezione sembra del tutto inadeguata per una guerra rispetto alla quale chiunque, per il solo fatto di agire nel mondo, per il solo fatto di non potersi sottrarre a un mondo in comune, si trova giocoforza ingaggiato: ora la sua dimensione si è dilatata tanto da risultare indifferente a qualsivoglia delimitazione, sia essa di Stato, territorio o popolazione.

La posta in gioco di un simile impiego estensivo – tanto della sua tecnica quanto del suo concetto – consisterebbe non più nella supremazia di una forma di governo, nella conquista dello Stato o nell’imposizione dell’interesse di una delle fazioni in gioco, bensì nell’egemonia di una precisa forma di vita. La guerra civile ha così cessato di designare uno scontro delimitato, tanto per quanto riguarda i suoi soggetti che per i tempi e i luoghi del suo darsi, finendo per contraddistinguere un flusso ininterrotto entro il quale sembra impossibile distinguere le singole operazioni che la compongono. Illimitata e irriconoscibile, essa testimonia della pervasività di un’intensità politica che non ammette alcuna esteriorità, liquidando in primo luogo chiunque sembri incapace o riluttante a conformarsi a un simile dettato.

E così, non solo tutte le attività, siano queste perfino ludiche o ricreative, si sono trovate improvvisamente impiegate entro i ranghi dell’odierna mobilitazione totale, la quale ha saputo prontamente richiamare a sé ogni attività all’apparenza improduttiva al fine di occupare profittevolmente anche il tempo libero, ma la totalizzazione della guerra ha finito con il dirottare verso scopi bellici anche il lavoro propriamente detto, corredato di tutta la gaiezza e l’incosciente esuberanza che solo il divertimento sembra oggi garantire. All’irrimediabile labilità che da tempo contrassegna i confini tra militare e civile, si accompagna ora il sospetto che sia proprio quest’ultimo dominio ad alimentare, seguendo inedite traiettorie, la guerra in corso: come scrivevano già vent’anni fa Qiao Liang e Wang Xiangsui, è forse giunto il tempo di scoprire, non senza stupore, che molti dei dispositivi e dei costumi con cui siamo abituati a convivere, apparentemente così innocui e così comuni, hanno iniziato ad assumere caratteristiche offensive e letali, come se ogni attività umana fosse passibile di trovarsi fuorviata nei suoi effetti, rubricata sotto etichette all’apparenza inoffensive ma che non per questo si dimostra meno aggressiva una volta portata a compimento.

Con il prevalere di una simile disseminazione della guerra rispetto alla sua tradizionale limitazione, le due dimensioni dell’oikos e della polis sembrano oggi incessantemente collassare l’una nell’altra. Decretato il carattere obsoleto della partizione di tempi, spazi e attività che in passato aveva presieduto alla loro divisione, caduta dunque la distinzione, tanto cara ad Hannah Arendt, tra politico e sociale, tra le attività relative a un mondo comune e quelle primariamente legate alla conservazione della vita, la guerra civile cessa di designare un conflitto ben delimitato ed eccezionale, per costituirsi come il paradigma entro cui attualmente si articola, nelle sue forme più imprevedibili, «la soglia di politicizzazione fondamentale dell’Occidente» (ivi, 7). Azioni militari a bassa intensità, operazioni di polizia internazionale, lupi solitari e combattenti improvvisati, con tutta la loro carica di orrorismo spettacolare, non sono gli unici elementi incaricati di comporre lo scenario contemporaneo della guerra: andrebbero infatti annoverati tutti coloro la cui forma di vita mal si distingue da una ferma presa di posizione a favore del sistema, la schiera di professionisti e dilettanti asserviti al capitale per i quali, ricorda giustamente Roman Schnur, «si dovrebbe parlare qui non più di “cittadino in uniforme” ma di “uniforme nel cittadino”».

Al pari dei primi, anch’essi contribuiscono a delineare gli incerti contorni di una situazione in cui, alla cancellazione del conflitto e alla demonizzazione della violenza, fa seguito l’estensione di una guerra tanto più intensa quanto meno apparente o appariscente. Qui la guerra si è fatta letteralmente civile e non per questo meno brutale. Con Norbert Elias, si potrebbe dire che essa si è forse incivilita al punto da trovare, mediante la sua forma più raffinata e al contempo più letale, il proprio posto legittimo anche in una società che tollera malamente eccessi di crudeltà. Al processo di monopolizzazione tendenziale della violenza reputata legittima, processo perseguito delegittimando ogni forma altra di violenza, si è così affiancato un sempre maggiore ripudio della crudeltà, come se quest’ultima dovesse ormai costituire lo stigma dell’altro, il marchio della sua inciviltà, oppure l’eccesso a cui ancora si presta una forza legittima non ancora efficacemente controllata (con la possibilità, dunque, di una sua maggiore legittimazione). Non è allora un caso che «la forma che la guerra civile ha assunto oggi nella storia mondiale è il terrorismo» (ivi, 31): la fragorosa sanzione, che unanime si leva ogni qualvolta essa emerge tra le pieghe della narrazione ufficiale, trova la sua perfetta contropartita in quel malessere inarticolato che la accompagna là dove alcuna storia riesce ancora a renderne conto.

Una guerra civile, dunque, o meglio incivilita al punto da farsi inapparente, senza esperienza e senza conflitto, estranea al disaccordo, condotta perfino in assenza della pur rassicurante figura del nemico, come se l’ostilità stessa non fosse più all’origine di una relazione, quanto piuttosto di un’atmosfera pervasiva che chiunque si trova costretto a respirare. La guerra civile a cui noi assistiamo e a cui noi partecipiamo, la guerra civile che ci accomuna e che in tal modo ci rende tutti simili, si confonde allora con la sua stessa sublimazione: l’elevazione della guerra entro un modello più rispettabile, certo, ma anche il passaggio alla sua forma diffusa, estesa e impalpabile. In altri termini, la sua rassicurante edificazione a mera prassi quotidiana, in opposizione a quel carattere di vertigine che, ancora cinquant’anni fa, Roger Caillois non faticava a riconoscerle come sua più intima qualità. La perdita di questa vertigine ha così permesso il sorgere di una situazione in cui non è più concesso avvertire quanto si sta compiendo, in cui la possibilità di percepire la guerra in corso sembra impervia tanto quanto la sua stessa interruzione.

Una simile guerra senza limiti – senza delimitazione così come senza fine – ci costringe a confrontarci, in quanto spossessati dell’esperienza del conflitto e tuttavia costantemente invischiati nella violenza, con la necessità di seguirne le incessanti metamorfosi sotto l’apparenza pacificata della società, come se la stessa comunità eretta allo scopo di scongiurare la guerra civile finisse ogni volta per riproporla e attuarla secondo nuove e inaudite forme. Se già in Hobbes, ricorda Agamben, «il corpo gigantesco del Leviatano formato da innumerevoli piccole figure non è una realtà, per quanto artificiale, ma una illusione ottica, a mere phantasm» (ivi, 47), altrettanto si può dire della pretesa pacificazione del corpo politico, la quale, ben più che un’immagine rassicurante, funziona come un vero e proprio dispositivo dello sguardo a fronte del quale la guerra civile non si trova affatto sventata, bensì solo negata e al contempo resa endemicamente presente in ogni singola vita. Ma come il corpo politico non può che fondarsi sull’esclusione di una moltitudine che non cessa tuttavia di insistere tenacemente in esso, anche queste singole vite si troveranno un giorno a doversi confrontare con la presenza delle inevitabili lacerazioni che le animano. Porsi fin da ora in ascolto di una tale presenza è forse il primo passo per riconoscere nella guerra civile il marchio con cui, oggi, è segnata la nostra appartenenza al campo della politica.

(20 aprile 2015)

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