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America Latina e modernità

Recensione ad "America Latina e modernità. L’opzione decoloniale: saggi scelti", a cura di Gennaro Ascione (Arcoiris, 2014). [Andrea Freddi]

America Latina e modernità
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6 Maggio 2015 - 08.58


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di Andrea Freddi

In uno dei saggi contenuti nel volume, Santiago Castro-Gómez riprende le parole di Spivak e definisce il progetto della modernità come un “esercizio di violenza epistemica”. C’è un vincolo, afferma, tra conoscenza e disciplina: l’Occidente ha creato un ordine del discorso che, mettendo sistematicamente in relazione forme di conoscenza e tecniche di potere, ha dato forma a un progetto totalizzante di controllo e organizzazione della vita umana. Foucault è ovviamente un riferimento imprescindibile, ma Foucault non basta per mettere in evidenza come lo stesso discorso sia anche quello che ha creato l’America.

Le scienze sociali, attraverso l’imposizione di un regime di oggettività, hanno plasmato rappresentazioni e immaginari, che a braccetto con la spada e la croce, han fatto sì che i soggetti esperiscano il mondo nei termini di categorie dicotomiche attestanti la superiorità dell’Occidente sugli Altri (spagnoli/indios, moderni/tradizionali, sviluppati/sottosviluppati ecc.). É grazie al colonialismo che è sorto quel tipo di potere che Foucault ritiene caratteristico delle società e delle istituzioni moderne. A tal proposito Aníbal Quijano, in un altro saggio contenuto nel volume, propone il concetto di colonialità del potere, mostrando come i meccanismi panottici dello Stato moderno si inscrivono in una struttura più ampia di carattere mondiale, alla cui base sta l’espansione europea inaugurata simbolicamente dal primo viaggio di Colombo nel 1492.

Smascherare la violenza epistemica insita nella colonialità del potere è dunque uno dei principali obiettivi dei contributi raccolti all’interno di questo volume. America Latina e modernità curato da Gennaro Ascione propone in italiano le voci dei principali esponenti dell’“opzione decoloniale”, corrente di pensiero che a partire dagli anni novanta cerca di fare tesoro delle suggestioni teoriche di subaltern e postcolonial studies per analizzare la realtà latinoamericana. Come l’“opzione decoloniale” suggerisce, il loro lavoro non si esaurisce nell’analisi storica e nella decostruzione, ma consta di una parte propositiva che fa risaltare in modo ancora più marcato l’impegno politico.

L’obiettivo, per come viene tematizzato da Catherine Walsh, è dare vita a scienze sociali/culturali che non riproducano l’eurocentrismo, il colonialismo, e la razzializzazione propri delle scienze egemoniche, ma che mirino a un più risoluto intervento epistemico e sociale di carattere decoloniale. Forse il contributo più interessante in questo senso è quello di Walter Mignolo, celebre studioso argentino qui presente con un saggio scritto a quattro mani con Madina Tlostanova, che parla di border thinking. Egli rivendica la necessità di creare un “pensiero di confine” che ripensi l’eredità del colonialismo e dell’epistemologia occidentale dalla prospettiva delle forze epistemiche divenute forme di conoscenza subalterne a causa del processo di espansione europeo. Occorre, sostengono i “decoloniali”, elaborare un nuovo tipo di egemonia, caratterizzato dalla molteplicità dei luoghi di enunciazione; lo spazio accademico deve farsi contaminare da razionalità culturali altre.

In questi propositi si concentrano a mio avviso pregi e difetti di questa operazione intellettuale. La lettura degli otto saggi contenuti in America Latina e modernità è appassionante e rigenerante, una boccata d’aria fresca che grazie a queste traduzioni possiamo respirare anche nell’accademia italiana, che normalmente oscilla tra l’autoreferenzialità e un’esterofilia limitata ai poli del potere accademico, non certo a quanto si produce nelle università peruviane o colombiane. A partire dall’Introduzione del curatore – che propone alcuni illuminanti parallelismi con la situazione partenopea, mostrando così la pertinenza delle riflessioni decoloniali anche per guardare con occhi diversi alla storia di casa nostra – fino al saggio di chiusura di Arturo Escobar, il lettore è accompagnato in un crescendo di ribaltamenti di prospettiva che fanno a pezzi il pensiero moderno occidentale e mettono in luce la sua natura di produttore di egemonia.

Non si salva nessuno: da Cartesio, Kant e Hegel, fino a Marx, Weber e persino Foucault, la base eurocentrica e discriminante delle categorie della modernità viene messa a nudo. Il contributo di Escobar si spinge a decostruire il concetto di natura: anche la categoria anti-culturale per definizione è in realtà una creazione arbitraria che riproduce relazioni di potere inique. Le riflessioni dell’antropologo colombiano danno corpo a quello che forse è il contributo più denso e raffinato del libro. In esso dialogano in modo eclettico ma equilibrato alcune delle tendenze di pensiero critico più all’avanguardia nelle scienze sociali d’oltreoceano: l’ecologia politica, i science and technology studies, l’approccio fenomenologico, il femminismo post-strutturalista.

Una parte del saggio di Escobar riflette sul concetto di “natura organica”. Con esso si riferisce a modelli culturali non occidentali che, al contrario delle costruzioni moderne, non si caratterizzano per una rigida separazione tra il biofisico, i mondi umani e quelli sovrannaturali, ma sono spesso fondati su legami di continuità tra questi ambiti. É proprio in queste considerazioni che, a mio avviso, sorgono le criticità maggiori dell’opzione decoloniale. Quando cercano di rappresentare le logiche culturali alternative attraverso cui sfidare la colonialità del potere (e del sapere) dell’Occidente, si affidano spesso a generalizzazioni ed essenzialismi. A dire il vero, non è questo il caso di Escobar, che fa riferimento a un contesto etnografico peculiare, ma è l’unico a farlo. I volti, le azioni e le contraddizioni delle persone a cui questi Autori si propongono di dare voce non appaiono negli altri saggi, se non in modo anonimo nel vasto contenitore di “popoli indigeni e di discendenza africana dell’America Latina” o nella nebulosa categoria di “popolazioni subalterne”. L’universo indigeno viene troppo spesso evocato come un tutto omogeneo che si definisce sostanzialmente per due aspetti: la propria condizione storica di oppressione e subalternità nei confronti dell’Occidente e sempre rispetto ad esso, un’alterità culturale radicale e inconciliabile.

Questa rappresentazione non viene però supportata né dall’analisi di eventi della storia latinoamericana, né da casi etnografici specifici. Sembra che valga a prescindere dai contesti nazionali, dalle aree culturali, dai cambi di regime e dalle contingenze. Molto spesso è l’enfasi retorica, più che i riferimenti a ricerche storiche ed etnografiche precise, a portare avanti l’argomentazione. Va bene che l’intento dichiarato è di “indisciplinare le scienze sociali”, ma leggendo certe generalizzazioni viene da chiedersi: se non nel metodo e nei prodotti di queste, da dove prendono l’autorità per trarre conclusioni? Il sospetto è che l’autorità che ottengono è un’autorità morale accordata loro per manifesta solidarietà subalterna.

Giocando sul senso di colpa dell’Occidente, riescono a proporsi come portavoce credibili delle rivendicazioni subalterne della propria area di provenienza, l’America Latina, e guadagnare così una nicchia nel politically correctness dell’accademia USA, che molti di loro frequentano. Ma proporsi come rappresentanti delle voci indigene e raccontarle poi in modo riduttivo e stereotipato, non è esso stesso un atto di egemonia? Che ne è di quegli indigeni che non rientrano nella rappresentazione messa a punto? Castro-Gómez è quello che più lucidamente riflette su questi rischi quando afferma che le scienze sociali devono imparare a nominare la totalità senza cadere nell’essenzialismo delle meta-narrazioni, mettendo in guardia su come l’attuale produzione delle differenze sia congeniale a un mercato in grado di ridurre anche il dissenso a merce di consumo. Facendo ricerca in Guatemala, mi sono trovato di fronte a un’alterità indigena declinata in forme coloniali: una corsa a cavallo come attività rituale centrale della festa patronale; un’antica cassa contenente documenti prodotti dagli spagnoli venerata dagli sciamani locali come strumento di intermediazione con il divino.

Si tratta evidentemente di assimilazione di categorie egemoniche, ma non solo: è anche un indigenizzazione delle stesse. Andare a cavallo può voler dire sfidare il potere coloniale e appropriarsi di una sua prerogativa; attorno al culto della cassa veniva organizzato un sistema di incarichi politico-religiosi che governavano la vita pubblica della comunità, dando forma a un ordine corporativo che, vi-à-vis con lo Stato-nazione, riusciva a negoziare uno spazio di autonomia. L’indigeno guatemalteco è un indigeno meticcio e proprio il meticciato è una componente fondamentale della realtà latinoamericana che rimane pressoché fuori dal quadro dell’“opzione decoloniale”.

Senza prendere in considerazione il meticciato dal basso che, pur in condizione di subalternità, le popolazioni americane sono riuscite a praticare appropriandosi di un ampio repertorio di risorse simboliche, si rischia di rappresentarle come vittime passive di una storia che invece hanno contributo significativamente a indirizzare. Più che evocare una loro presunta purezza anti-egemonica e incompatibilità con l’Occidente, occorrerebbe valorizzare come sono riusciti ad accomodare l’Occidente all’interno delle logiche culturali locali, ad abbracciare la molteplicità rifiutando di farsi totalizzare da una singola narrazione. Le migliori decostruzioni delle pretese assolutistiche della modernità occidentale sono pur sempre quelle che emergono dagli “accostamenti irriverenti” che García Canclini considera propri delle “culture ibride latinoamericane”.

(6 maggio 2015)

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