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Per un'etica del riconoscimento

Ciò che è vivo e ciò che è morto nell’opera di Karl Marx. Intervista al filosofo Roberto Finelli a cura di Paolo Bartolini.

Per un'etica del riconoscimento
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2 Ottobre 2016 - 21.37


ATF

Intervista
al filosofo Roberto Finelli a cura di Paolo Bartolini.

Nel
suo profondo e originale lavoro di studio sul pensiero di Marx ha mosso delle
critiche radicali all’antropologia implicita del filosofo di Treviri. Può
dirci, secondo lei, quali sono gli aspetti ancora attuali della critica
marxiana e quali, invece, vanno ormai abbandonati senza rimpianto?

   Proverei
a rispondere a questa prima, classica, domanda su ciò che è vivo e ciò che è
morto nell’opera di Karl Marx attraverso il riferimento ai due titoli dei miei
libri che scandiscono i miei studi sul pensiero marxiano: Un parricidio mancato (Boringhieri) del 2005 e Un parricidio compiuto (Jaca Book) del 2014 (entrambi
già impliciti e anticipati nel mio libro più sinteticamente generale su Marx
del 1987, Astrazione e dialettica dal
romanticismo al capitalismo. Saggio su Marx,
Bulzoni, Roma). Nel Parricidio mancato ho voluto evidenziare quanto la foga del ribellismo
giovanile unita a una non profonda conoscenza della filosofia di Hegel, comune
a una buona parte del movimento dello
Junghegelianismus
degli anni ’30 e ’40 dell’800, abbiano sollecitato Marx a
un troppo facile e corrivo rovesciamento dell’idealismo di quello Hegel che,
con la sua collocazione dal 1818 all’Università di Berlino, era divenuto il
pontefice massimo, assai più che l’amico-nemico Schelling, della filosofia e
della cultura tedesca postkantiana.

   Uccidere quel padre metaforico significava,
sul piano più proprio del confronto tra singole individualità, superarlo nel
primato dell’egemonia filosofica, così come, sul piano più largamente culturale
e politico, rovesciare lo spirito
nella materia, la teoria nella prassi, la filosofia contemplativa e speculativa nell’azione del
proletariato rivoluzionario.

  La mia tesi di fondo è che la definizione
marxiana del proletariato quale soggettività collettiva intrinsecamente buona,
animata non da interessi individuali e privati bensì portatrice, per principio,
di un interesse collettivo e universale, proprio
perché privata dell’egoismo della proprietà privata,
sia una costruzione
artificiale dello stesso Marx, partorita dalla necessità di opporsi allo
Spirito di Hegel nell’identificare una forza della storia ancora più universale
e concreta. E’ il prodotto cioè di un’operazione prevalentemente mentale di
Marx che nella definizione di proletariato, quale classe di esseri umani
possessori solo della propria prole e privi di ogni proprietà privata, ha trovato
il passaggio, tutto concettuale, all’ideale di una soggettività organicamente
unitaria, priva di divisioni e d’individualismi, e anticipatrice, nel suo esser già in comune, della futura,
comune, umanità.

   E’ un Marx che, com’è ben noto, subisce
profondamente l’influenza di Feuerbach. E questi è un pensatore cui ho dedicato
molte pagine dei miei studi, per approfondirne una teoria dell’essere umano che
mi è sempre apparsa profondamente arretrata rispetto a quella di Hegel.  Giacché mentre Hegel ha sempre indagato trame
di relazioni fortemente complesse tra soggettività e alterità, Feuerbach ha
sempre privilegiato una teoria dell’essere umano organicistica e fusionale, che
vede l’esser comune, il “Genere”, come il valore e, di contro, l’individuo, la
singolarità, come il disvalore.

   Feuerbach per me è stato, a differenza di
quanto afferma la quasi totalità degli interpreti e degli studi su questo
autore, un pensatore fortemente spiritualista e regressivo rispetto alla
problematicità antropologica raggiunta da Hegel.  Ed è appunto il suo spiritualismo e
misticismo dell’umano, nel quale l’altro
non costituirebbe mai limite e conflitto ma sempre integrazione e accrescimento
del sé
, che si deposita nel presunto materialismo di Marx, obbligandolo a
una teoria presupposta della soggettività collettiva ed organica che mi sembra
viva, come dicevo, solo nella sua mente di giovane rivoluzionario tedesco.

   Ora, a mio avviso, è proprio questa
concezione di un’umanità già di per sé comunitaria e comunista che Marx, anche
quando abbandona almeno a parole il feuerbachismo, continua a porre a base
della sua teoria della storia, celebrata come materialismo storico. E’ la
metafisica feuerbachiana del genere umano, nella quale torna a dirsi non è
questione alcuna di individuazione, differenza e alterità, che Marx trapianta e
trasferisce nel cuore della sua filosofia della storia, fondata sulla operosità
collettiva dell’homo faber, la cui
fabbrilità e produttività sempre positiva e fecondatrice di progresso entra di
volta in volta in contraddizione con istituti e relazioni di proprietà che si
appropriano impropriamente dei risultati e della ricchezza prodotta da quella
produttività collettiva. Fino a giungere, con il capitalismo e l’attuale mercato
mondiale, a un «individuo universale», a un individuo globalizzato dallo
sviluppo delle relazioni economiche estese all’intero pianeta, la cui
universalità di relazioni, ovvero il suo esser comune, non potrà che entrare in
conflitto con gli istituti e il diritto dell’appropriazione privata.

   Questo complesso di tesi a me sembra siano
fondate su un manicheismo proposto da Marx – e in vero inaccettabile, condito
com’è di metafisica del lavoro e di positivismo progressista – tra bontà
intrinseca dell’homo faber e del
comunitarismo/comunismo delle sue forze produttive da un lato e, all’opposto, la
violenza e l’ingiustizia della forme dell’arbitraria appropriazione privata. A
conferma cioè che, a ben vedere, il materialismo storico di Marx ha continuato
di fondo a pensare l’evoluzione della storia secondo il manicheismo di valori
proprio di Feuerbach: cioè secondo il modulo di genere contro individuo. Il genere e il comune come valore
positivo, l’individuale e il privato come valore negativo.

   Di questo paradosso, ovvero che il materialismo di Marx si risolvesse
invece, a ben guardare, in uno spiritualismo
fusionale e nell’assunzione di una mitica soggettività collettiva presupposta,
è stato completamente vittima il cosidetto operaismo italiano e gli epigoni che
a tutt’oggi ne continuano l’errato atteggiarsi, di pensiero e di pratica
politica. La cultura dell’operaismo infatti è sempre caduta nell’errore di
considerare il darsi di una soggettività operaia, o di una soggettività
comunque alternativa, come presupposta e sganciata dal sistema di riproduzione
economica e ideologica dominante, e capace quindi, nella sua autonomia, di
essere il vero soggetto della storia della modernità, cui l’economia del
capitale e i poteri della proprietà privata risponderebbero sempre in una
dimensione di sola risposta e di riorganizzazione reattiva.

   Questo mito dell’autonomia di una
soggettività collettiva e alternativa, che tanti danni ha generato nella storia
politica e culturale, non solo italiana, ma prevalentemente italiana – tanto
che taluni, da cui oggi è doveroso dissentire, parlano addirittura di una Italian Theory – nasce dal fallace
materialismo del Marx della cosidetta Ideologia
tedesca
e del cosidetto materialismo storico:  luoghi, invece, come dicevo, a un altissimo
tasso di antropologia senza alterità e di uno spiritualismo comunitario e
messianico. 

   Del resto ben sa chi frequenta un poco la
psicoanalisi e la dialettica hegeliana che l’intento di un parricidio che vuole
negare radicalmente, uccidere cioè metaforicamente, la figura del padre, non
accogliendone alcun tratto positivo della personalità, che, come in tutti gli
esseri umani, non può non essere presente, è di necessità condannato al
fallimento. Negare astrattamente, per un rovesciamento completo, significa
rimanere fissati in un’attitudine infantile, manichea, che vuole scindere e
separare nettamente bene e male, bianco e nero. Dunque, senza essere in grado
di accedere a quella attitudine ben più matura della psiche che riconosce
l’ambivalenza del sentire, la mescolanza e la compresenza delle pulsioni
emozionali, come fondamento dell’umano e che perciò non nega mai totalmente e
in astratto bensì nega conservando ciò che di quel negato va pure riconosciuto
ed accolto.

   Senza tale maturità psicodinamica e,
insieme, concettuale, si rimane, subalterni e posseduti proprio da ciò che si
voleva superare, come accade a tutti i componenti dello Junghegelianismus, che, non all’altezza della ricchezza
antropologica e filosofica conquistata da Hegel e dal suo idealismo, ma,
volendola estrinsecamente, cioè arbitrariamente e a forza negarla, finirono per
ritrovarsi, senza averne coscienza, nell’orizzonte di categorie e di pensiero
del proprio insuperato maestro.

   Così Marx, attraverso prima il rovesciamento
della teoria nella prassi e poi attraverso una teoria della storia conclusa
nella metafora “edilizia” di struttura e sovrastruttura (dottrina di riduzione
del teorico al pratico per la quale,
a ben vedere,  lo stesso materialismo
storico, in quanto teoria, diviene contraddittorio
con se medesimo), consegna in eredità alla storia dei comunismi a venire una
teoria dogmatica e monoculturale
della storia in cui non v’è posto alcuno, se non come residuo e falsificazione,
per la teoria e le attività umane non materiali-economiche.

   Ma
soprattutto consegna alla tradizione comunista un’antropologia debolissima a
persistente matrice feuerbachiana, la cui continuità confuta a mio avviso la
teoria althusseriana della coupure
epistemologique
, ossia del superamento da parte di Marx, con la concezione
del materialismo storico, dell’umanità generica di Feuerbach.

  Va dunque confutata la leggenda agiografica
dello sviluppo dall’idealismo al materialismo secondo la filiera processiva e
progressiva Hegel-Feuerbach-Marx e,
all’opposto, va ben discusso e argomentato quanto l’antropologia di Feuerbach e
poi di Marx costituisca un arretramento rispetto alla teoria hegeliana
dell’individuazione e della socializzazione attraverso riconoscimento ed
alterità.

   Per quanto riguarda il Parricidio compiuto, per non rendere ancora più lunga questa mia
risposta rimando alla lettura del mio libro. Qui basti dire che la maturità di
Marx nasce con l’elaborazione di un lutto, che, prima che quello dei suoi
piccoli figli, morti prematuramente, è, per quello che ci concerne, quello
della rivoluzione mancata nell’Europa del 1848 e del fallimento delle speranze
che aveva acceso nei rivoluzionari di tutto il continente. Di lì nasce, insieme
all’enorme capacità di studio che la mente geniale di Marx è sempre stata
capace di sostenere, quella sistematicità di lavoro teorico al British Museum
che lo porterà alla stesura di Das
Kapital
. Da quel lutto epocale, in cui viene meno la possibilità di un
rovesciamento immediato e radicale dell’esistente e dell’imporsi di una
soggettività rivoluzionaria, rinasce il valore e la necessità di una teoria e
di una scienza critica che muova dal Capitale
come soggetto egemonico ed onnipervasivo della società moderna. Questo Marx ora
si riavvicina al padre Hegel e ne accoglie il metodo della scienza: la
definizione di ciò che sia verità e il modo di dimostrarla e di esporla,
cambiandone contemporaneamente il contenuto e le sue articolazioni essenziali.
Ma, appunto, assumendo, con una forte ispirazione analogica, che il Capitale, quale soggetto della modernità
e delle nostre vite, sia come il Geist,
lo Spirito di Hegel: un principio cioè di totalizzazione in tutte le sfere
dell’esistente del suo imperativo di profitto e di accumulazione che rende sempre
più la vita nella quale viviamo una società totalitaria e unidimensionale.
Senza poter aggiungere qui, per motivi di brevità, come e quanto le due diverse
tipologie teoriche ed etico-politiche dei due Parricidi marxiani, non si dispongano, a veder bene, in modo
lineare e consecutivo, nel prima e nel dopo dell’evoluzione psichica e
concettuale di Marx, bensì convivano insieme nel periodo della maturità,
sovrapponendosi e intrecciandosi, finendo col rendere assai spesso
indistricabile, quanto a messa a fuoco dei due diversi soggetti della
modernità, il discorso marxiano. 

In
che modo le psicologie del profondo, alle quali dedica la sua attenzione ormai
da anni, possono arricchire e ampliare il ripensamento della soggettività
contemporanea sfuggendo tanto al primitivismo psicologico della sinistra
storica quanto allo svuotamento di senso operato, a livello psichico, dal
capitalismo giunto alla sua fase neoliberista?

  Il fallimento e l’autodissoluzione del
comunismo sovietico e l’estendersi del capitalismo a sistema-mondo che l’ha
accompagnato hanno significato la realizzazione e la conferma del capitale come concetto: cioè come
sistema totalizzante e universale che, non trovando limiti fuori di sé, si fa
pervasivo dell’intera realtà sociale e personale, tenendone insieme (cum-capio) i vari segmenti al fine della
sua accumulazione/riproduzione.  Ma per
ben intendere la natura di tale gigantesco processo di totalizzazione io non
credo che si possa più far ricorso al marxismo della Scuola di Francoforte, che
per primo ha messo a tema la società moderna come società falsamente
democratica e, invece, intrinsecamente totalitaria. Non si può più spiegare
infatti il mondo contemporaneo in termini di sfruttamento, alienazione,
feticismo, società autoritaria ed amministrata. Perché, a mio avviso, il porsi
come soggetto centrale di senso del nostro vivere da parte di una ricchezza
monetaria-astratta – la cui accumulazione, proprio perché soggetto meramente
quantitativo, può essere tendenzialmente infinito – oggi richiede la messa in
campo di due categorie profondamente nuove che sono quelle di «svuotamento» e
«surdeterminazione della superficie».

   Svuotamento significa che la logica
dell’accumulazione della ricchezza quantitativo-astratta è divenuta a tal punto
l’imperativo categorico di ogni comportamento, di ogni politica e di ogni
morale che qualsiasi dimensione di soggettività umana e di alterità del mondo
naturale perde ogni tratto di costituzione autonoma per essere governato e
attraversato dalla logica dell’astratto. Dove appunto proprio perché
soggettività astratta e impersonale quella del capitale – costituita cioè dai
protocolli della sua produzione, circolazione, distribuzione, tendenzialmente
eguali in ogni dove – il suo operare compare sempre meno come costrizione e
violenza esterna degli uni sugli altri e sempre più come generalizzazione
dall’interno di tipologie obbligate e monotòne di azione e di cultura. Con la
messa in atto, dunque, di una colonizzazione che, proprio perché non violenta e
non coattiva dall’esterno, opera silenziosamente dall’interno, lasciando di
quel mondo invaso e svuotato solo una pellicola di superficie, un contorno, una
silhouette, in cui si deposita, come
residuo, un’apparenza di vita e di concretezza. 

   Insomma vorrei dire che la peculiarità del
tempo storico e sociale che stiamo vivendo è quello di una radicale superficializzazione – di un farsi
superficie – del mondo
, secondo cui la logica accumulativa dell’astratto e
delle relazioni sociali dure e profonde, con le sue leggi inesorabili e
spietate, viene nascosta e dissimulata, ai nostri occhi e al nostro esperire,
da una logica seduttiva e fuorviante della superficie e del concreto.

   Così la logica del capitale e della sua
inevadibile accumulazione, fatta, secondo la definizione insuperata di Marx, di
lavoro non pagato, di lavoro normato e spersonalizzato – costituita cioè di
relazioni asimmetriche e diseguali tra classi – si dissimula, nella coscienza
comune di tutti, come logica della democrazia, dell’eguaglianza e della parità
tra gli individui e come, parimenti, di un lavoro personalizzato e concreto, ad
alto quoziente di partecipazione e creatività soggettiva.

  Qui io faccio mia l’analisi della
postmodernità elaborata da F. Jameson quale cultura della superficie e della
riduzione della realtà a segno, come, parimenti, celebrazione dell’ermeneutica
e della smaterializzazione di ogni dove: mi riferisco cioè all’opera del
critico americano, ma ancorandola alla produzione del plusvalore del capitale e
alla natura della sua ricchezza come, di fondo, immateriale ed astratta, quale
che sia il valore d’uso in cui s’incarna e si materializza.

   Ed è proprio in tale dissimulazione dell’astratto nel concreto, in tale rispecchiamento
per opposizione tra essenza ed apparenza, che si struttura, nella mia
visione, il carattere di fondo della società contemporanea: quale società di
uno spettacolo che è contemporaneamente oggettivo e soggettivo. Visto che
questo tipo di società, incentrata sull’astratto capitalistico, non può che generare
una soggettività astratta, conforme alle procedure e alle regole dell’etica
accumulativa, ma che contemporaneamente percepisce e identifica se stessa nelle silhouettes delle sue apparenti
libertà: di presunto attore di un libero mercato, di cittadino di una libera
democrazia, di lavoratore quale gestore in atto delle sue competenze e
professionalità. Come accade appunto con il lavoro informatico contemporaneo,
che, diversamente dal lavoro fordista, richiede l’intervento non più del corpo
ma della mente, con le sue capacità calcolanti-raziocinanti, in apparenza
massimamente personali e creative, ma, in effetti, applicate a programmi e a
percorsi di senso già precodificati, come predeterminati e vincolati nelle loro
possibilità, da altri. 

   Dello svuotamento e della
superficializzazione del mondo non può non far parte, ovviamente, la
superficializzazione dell”essere umano. Ovvero non può non far parte l’ipertrofia della mente
comunicativo-calcolante e, di contro, l’atrofia
della mente emozionale.

   La
produzione e la circolazione dell’astratto economico produce e generalizza una soggettività intrinsecamente povera: caratterizzata dall’incapacità di umanizzarsi
in un dialogo con la propria interiorità affettiva e, all’opposto, da una attenzione
rivolta univocamente ai messaggi, alle comunicazioni, agli stereotipi comuni e
collettivi del mondo esteriore. Con la conseguenza che oggi viviamo tutti una
sorta di catastrofe dell’emozione, perché quello che sta venendo sempre più
meno è la capacità di sentire se
stessi, di incarnare il proprio
pensiero, di fronte a un pensare informativo/conoscitivo che si fa sempre più
astratto ed anaffettivo (rimando in tal senso all’ultimo testo dello
psicoanalista Riccardo Lombardi, Metà
alato
, metà prigioniero,
pubblicato da Bollati Boringhieri).

   Di fronte a tale epocale svuotamento
emozionale dell’essere umano, con le
sciagurate compensazioni di superficie che ne conseguono
, il modello
relazionale e terapeutico della psicoanalisi io credo assuma un valore non
limitato al solo spazio psicoanalitico ma di necessità estendibile all’intero
vivere sociale e civile: giacchè ciò che è primario oggi, rispetto alla
devastazione non solo ecologico-economica ma anche e soprattutto antropologica
messa in atto dall’accumulazione capitalistica di plusvalore, è rimettere in
moto un percorso verso una capacità di individuazione e di riflessione, a partire dal senso che ci indica il nostro
sentire
, che nelle generazioni dell’oggi e dell’immediato domani è andata
completamente perduta.

   La messa a tema di un’antropologia della miseria e della povertà assoluta, prima che
economica, psichica ed affettiva – quale questione oggi centrale dell’umanità –
credo espliciti assai bene quanto la mia riutilizzazione del Marx degli scritti
sul Capitale implichi comunque anche
da parte mia un radicale “parricidio”, che mi obbliga a rifiutare ogni
teorizzazione e celebrazione di soggettività forti e di per sé pugnaci,
presuntivamente capaci, senza elaborazione psichica, individuale e collettiva,
di opere di trasformazione ed emancipazione.

In
piena crisi di rappresentanza politica, che funzione le sembra che conservi la
forma partito? E quali rapporti intravede tra democrazia parlamentare, diretta
e partecipata?

   Il deficit originario e permanente, quanto
ad assenza di una teoria dell’individualità, che ha gravato sull’antropologia
comunista, conducendola alla sua estenuazione e sconfitta a conclusione del
secolo scorso, ha generato l’affermarsi di due impianti ideologici, di ben
diversa estensione egemonica tra di loro.  
Sulla sinistra del movimento comunista ha generato il pensiero della
postmodernità, d’ispirazione e di scuola essenzialmente francese, che,
esaltando il valore del frammento contro il sistema, della differenza contro
l’identità, del segno contro la materialità del significato, ha costituito nel
suo complesso, malgrado la raffinatezza di molte sue analisi, un pensiero, a
mio avviso, sostanzialmente neoconservatore.
Dico neoconservatore, perché ha guardato, nella mia prospettiva, solo all’effetto di superficie della
radicalizzazione della modernità in cui è consistita la globalizzazione:
cogliendo con ciò solo il movimento della parvenza
diffusiva
della società capitalistica e rimuovendone, invece, la struttura
e l’identità di essenza.

  
Mentre, fenomeno ben più significativo, sulla destra l’implosione
dell’antropologia comunista e del suo monismo valoriale dell’eguaglianza ha
generato la diffusione, questa volta in termini non più di élites intellettuali
ma di massa, del neoliberismo e dell’individualismo gaudente e consumatore. Ha
generato cioè la diffusione generalizzata di un pensiero unico del mercato,
della scomparsa delle “classi” a favore dei “cittadini”, della riduzione del welfare a favore della concorrenza tra i
singoli atomi: trasformazioni e istanze che hanno ridotto lo spazio dello
statuale ed hanno tradotto la politica dalla funzione della rappresentanza a quella della
rappresentazione.
Ossia non più come confronto tra i partiti, in quanto
rappresentanti di luoghi e classi diverse, fino ad essere opposte, della
società civile, con la contrapposizione delle visioni del mondo che ne
derivava, quanto invece come scenario e recita
dell’apparente confliggere
di un ceto politico che rappresenta solo i privilegi
e la perpetuazione di sé medesimo. Considerato che il contenuto del suo
decidere è già preso altrove: come accade con gli obblighi e gli automatismi di
un economico sempre più sovranazionale, che, appunto, ogni ceto politico
nazionale ha la funzione di travestire e rappresentare come interesse, non di
pochi e di una medesima e diffusa borghesia sovranazionale, bensì come
interesse generale cui tutti i membri di una società e di una nazione avrebbero
a partecipare.  

   Il
farsi egemone da parte dell’economia di mercato, e il paradigma di libero
cittadino che ne è derivato, ha ridotto così la sfera della politica a sfera
della mediazione tecnica e neutrale di
interessi particolari già altrove costituiti e legittimati, la cui
presupposizione non può essere discussa. Con la conseguenza per la quale,
cessata la politica come confronto tra idee e ideologie, il partito politico,
privo di ogni riferimento al piano dell’universale,
è divenuto solo conglomerazione di lobbies, dedite agli interessi particolari e
alla corruzione che, data l’angustia dell’interesse solo privato,
necessariamente ne deriva.

  Per
questi motivi strutturali oggi il partito non ha più senso per una politica
come etica e come cura del bene comune. Tanto più che nella storia del nostro
paese è stato proprio il partito in quanto tale, il partito più organizzato
quanto a istanza centrale ed articolazioni locali, ad essere la fonte
principale del passaggio sociale e personale funesto e depresso che stiamo
vivendo. Giacchè è stata proprio la classe dirigente del PCI, ossia dello “stalinismo
democratico italiano”, che, per proporsi
come nuova classe dirigente e mantenersi nei privilegi dei poteri pubblici ed
istituzionali
, ha gestito il passaggio dei ceti popolari da una cultura
moderna di classe ad una cultura postmoderna della cittadinanza fondata
sull’economia di mercato.   Basti pensare
ai due vulnus profondissimi apportati,
nel suo trasformismo, dal ceto politico ex-comunista alla costituzione del
nostro paese: la riforma del sistema elettorale dal proporzionale al
maggioritario da un lato che, con l’adesione al modello bipartitico americano,
ha aperto le porte alla politica come spettacolo vuoto di idee e alla sciagura
tragica del berlusconismo, e dall’altro le riforme dell’istruzione scolastica e
universitaria, che guidata appunto da politici e pedagogisti ex-comunisti,
hanno portato alla distruzione  della
scuola e dell’Università pubblica italiana (si pensi alla mortificante riforma
del 3+2): con lo scopo di adeguarsi ai modelli anglosassoni e soprattutto di
praticare genocidi di massa, “formando” generazioni di cervelli, vuoti a perdere, pronti ad essere invasi
e riempiti da messaggi e comandi esteriori. 
Per non dire ovviamente di quanto è accaduto con le nuove legislazioni
sul mercato del lavoro, sempre guidate da ex-comunisti, che, col togliere
fissità e certezze ai nostri lavoratori, giovani e meno giovani, hanno
contribuito a mondializzarli,
portandoli agli orari e alle subalternità degli altri mondi, e soprattutto a
farli maturare antropologicamente, immettendo in ciascuno di essi, per così
dire, “spirito d’impresa individualizzante” e “capacità d’investimento e di
rischio”!

   La
politica può cessare di essere tecnica della democrazia solo in presenza di un
rinnovato confronto e scontro tra ideologie. E l’ideologia, in quanto visione
sistemica, non può essere, come scriveva Gramsci, che “totalitaria”: nel senso
che ciascun gruppo o classe sociale deve ricostruire, a partire dalla sua
differenza di ruolo e di collocazione nell’insieme sociale, una prospettiva
propria, possibilmente coerente ed unitaria, di definizione di valori e
disvalori, nonché d’interpretazione della realtà. La politica può vivere io
credo solo della lotta e del confronto delle idee, all’interno dei quali ciascuno
individuo o gruppo si commisura con gli altri riguardo al grado maggiore o minore di universalità del suo proporre. Visto che
può farsi egemonica infatti solo una politica che formula e celebra valori al
più alto grado d’inclusione possibile, sia nel senso orizzontale
dell’estensione più ampia possibile del proprio corpo giuridico a tutti gli
esseri umani, senza preclusione alcuna, sia nel verso verticale, della facilitazione
e dell’accoglimento più profondo d’ognuno alla individuazione e differenziazione
del proprio Sé. 

Più
volte ha criticato aspramente il pensiero postmoderno considerandolo
un’appendice inconsapevole del postfordismo. Altrettanti dubbi ha espresso su
concetti quali “biopolitica” e “transindividuale”, assai frequenti nell’area
dei movimenti e del post-operaismo. Qual è il suo rapporto con il pensiero di
Michel Foucault e con quegli autori che, coniugando spinte anarchiche, marxismo
eterodosso ed echi nietzschiani, ha avuto comunque il merito di mettere in
discussione il culto dell’identità come premessa indispensabile per la
“rivoluzione”? E come intende, in fin dei conti, il rapporto tra identità e
differenza? 

Una delle acquisizioni teoriche più feconde e
più positive maturate dagli autori del postmodernismo, nella loro critica ad
ogni teoria che muovesse da un soggettività forte e inconcussa, è stato quello
di aver denunciato il nesso che legava nel marxismo Sovranità del Soggetto, Continuità
della Storia
e Palingenesi della
Rivoluzione
. Di aver rinunciato cioè a quella metafisica del lavoro, che nella mente del primo Marx, auctore Fuerbach, aveva concepito, come
ho già detto, una teoria della storia (poi chiamata materialismo storico)
costruita sulla potenza
ontologico-emancipativa
del lavoro.

  E’
una vera e propria metafisica del lavoro
quella che il primo Marx infatti concepisce, ponendo a suo fondamento una
soggettività così coincidente con l’operosità costruttiva del suo operare da
non albergare dentro di sé egoismi e differenze d’interesse individuali. E
perciò da poter valere come una soggettività
intrinsecamente universale
, su cui costruire un’intera filosofia della
storia fatta di cadute, alienazioni e riappropriazioni, fino alla affermazione
definitiva e palingenetica della sua universalità attraverso la rivoluzione. 

   Ma
il fatto è che con ogni teoria del soggetto il postmodernismo ha rinunciato ad
ogni idea di totalità e di sistema. Ha esaltato la valorizzazione del
frammento, della differenza, della variazione e della discontinuità, di contro
ad ogni prospettiva che guardasse alla ricostruzione di modalità di vita e di
relazione generalizzanti e con un amplissimo grado di diffusione omogenea.

  Nietzsche
e Heidegger sono stati gli eroi eponimi di questa svolta anarchica e regressiva.
Il primo per una teoria del reale, ridotto alla continua variazione del
rapporto tra forze corporee, in cui non è facile vedere proiezioni di
esperienze e vicissitudini personali: e quindi con il profondo limite di aver
voluto fare di una psicologia, individuale e privata, una filosofia. Il secondo
per la dissoluzione di ogni fondamento e di ogni certezza del vero a muovere
dalla riproposizione di una categoria arcaica, e inutilizzabile a mio avviso,
come quella di “Essere”: con la radicalità della differenza, quasi teologica,
tra piano ontologico e piano ontico che la riproposta di quell’arcaismo ha
consentito.

   Ora
a me sembra veramente paradossale che queste celebrazioni della differenza
siano smentite sul piano della nostra quotidianità da un’esperienza di vita
completamente dissimile, proprio in quanto attraversata e dominata invece da
pratiche di ripetizione dell’identico che sottraggono al nostro esistere ogni
nota di attingimento del nuovo e dell’emozionale.

   Nel mondo della nostra quotidianità ogni tipo
di relazione intersoggettiva appare prendere sempre più la forma della
quantificazione monetaria e questo passaggio attraverso il riconoscimento del
denaro appare togliere spazio ad altre forme possibili di riconoscimento e di
reciproca identificazione. E’ come se l’intersoggettivo
impedisse ormai l’infrasoggettivo.
Come cioè se il dominio omologante e astratto delle relazione esterna impedisse
l’attingimento di qualsiasi profondità della relazione interna. Così oggi la
socializzazione è possibile solo attraverso la deindividualizzazione della
storia di vita – anche prenatale – di ciascuno e l’adeguazione del
comportamento d’ognuno a codici che, grazie alle nuove tecnologie, sono sempre
più impersonali ed astratti. A tal riguardo, come ho detto più volte, ci sarebbe
molto da riflettere sulla stessa natura del linguaggio informatico, e sulla sua
struttura binaria del conoscere che ne deriva, con la rigida esclusione del sì
dal no che lo connota, a confronto con l’impasto pulsionale, le movenze
contraddittorie, che invece connotano in generale la vita emozionale
dell’essere umano e che rendono assai più complicato il riconoscimento del
proprio sentire.

  
L’isterilimento delle emozioni più profonde, in cui si riassume e si
percepisce la più propria individualità di ciascuno, produce l’affermarsi delle
emozioni più superficiali, più legate allo stereotipo collettivo, più
frammentate e disperse: proprio perché prive di un radicamento profondo negli
affetti di base della nostra vita. Ed è appunto in questo modo che si genera, nell’astenia e nel vuoto dell’indeterminato,
quella soggettività versatile e diveniente, proteiforme e rizomatica, che ha
preteso costituire il valore per eccellenza della liquidità postmoderna e che,
a mio avviso, rappresenta invece solo la
silhouette
estrinseca e dissimulatrice della penuria di vita di una
soggettività astratta.

  La
mancanza di profondità delle filosofie del postmoderno a mio avviso sta qui:
nell’incapacità di intendere che oggi l’astratto, l’universale, il generale non
sono più solo luoghi della mente, di un pensiero logico, che usa quelle
funzioni e quelle categorie unicamente per la propria economia mentale – come vuole
ad es. tutta la tradizione dell’empirismo anglosassone e buona parte della
filosofia analitica – ma sono luoghi, all’opposto, dell’economia reale. Sono
modi e funzioni di un’astrazione reale, che con le sue leggi d’accumulazione
quantitativa, pervade dall’interno, colonizzandoli, emozioni e pensieri del
nostro corpo/mente.

   Né è
casuale dunque che la peculiarità e lo stile più proprio di un certo tipo di
cultura tedesca della prima metà dell’800 – penso qui ovviamente soprattutto ad
Hegel e a Marx – sia consistita proprio nel pensare che l’astratto potesse essere non solo modalità dell’organizzazione
logica ma anche e con la modernità soprattutto, principio dell’ontologia sociale.

  Sull’operosità
di un’astrazione reale nella storia e nella società Hegel, a mio avviso, ha
maturato, rispetto alla tradizione filosofica e culturale inglese e francese,
il massimo di originalità, assai più, va detto, che non con le dialettiche
irrigidite della negazione e della contraddizione, pure massimamente presenti ed
operose nel suo sistema. E di lì infatti, io credo, che si sia aperta una
diversità profondissima di Weltanschauungen
tra mondo tedesco e mondo inglese e francese che ha attraversato fino ad oggi
tutta la cultura moderna e contemporanea. La riflessione di Hegel sull’astratto
come fattore di costruzione antropologica, storica e sociale, è stata, io
credo, la conquista teorica più feconda dell’idealismo tedesco postkantiano ed
è l’eredità che Hegel ha consegnato  Marx
quando questi, dopo il grande lutto del suo estremismo rivoluzionario, si è
messo a studiare seriamente a Londra il Capitale
come vero soggetto della modernità e il modo specifico in cui la dinamica
dell’astratto capitalistico e della sua accumulazione diviene, per usare le sue
parole, «praticamente vera».

  
All’interno di tale quadro di considerazioni la vicenda di Michael Foucault
appare esemplare di quanto s’è appena detto. Intellettuale e ricercatore
raffinatissimo, ha dilatato fino al massimo una cultura d’ispirazione
fortemente empiristica, lontanissima dalla tradizione tedesca della sociologia
e della filosofia dell’astratto. In tale dilatazione ha raggiunto ed esplorato
campi mai seriamente indagati (carcere, manicomi, sessualità) con una
originalità e una profondità d’indagine ammirevoli. Ha soprattutto elaborato
una teoria del potere, sottratta alla centralizzazione e alla prescrizione autoritaria
hobbesiana, e dispiegata mirabilmente come fattore di consenso e di
soggettivazione che opera dall’interno. Ma dalla cornice della sua biopolitica
ha rimosso, per presupposizione antihegeliana e antimarxiana, il vero luogo
della biopolitica moderna che si colloca in quell’uso della forza-lavoro che è
il cuore della produzione di capitale e conseguentemente del Capitale di Marx. Ha rifiutato cioè di
studiare approfondire, della cultura tedesca, la lezione severa e difficile di
Hegel e Marx, per abbandonarsi al facile anarchismo dionisiaco di Nietzsche e,
di conseguenza, non ha potuto vedere quello che è sotto gli occhi di tutti,
eccetto forse degli intellettuali accademici sedotti dalla biopolitica: cioè
che la disposizione governamentale di fondo del corpo e delle menti nella
società moderna si è sempre giocata e continua a giocarsi in quel sistema
forza-lavoro/macchina (sia essa macchina fordista o macchina telematica
postfordista) che, in quanto sistema di rapporti sociali e non mera tecnica, è
il cuore della socializzazione moderna.

Ultimamente,
prefigurando l’inevitabilità di altri decenni di dominio capitalistico, ha
prospettato la necessità di pensare a dei “conventi laici”, a delle istituzioni
del riconoscimento, intermedie tra la dimensione statuale e quella dei rapporti
esclusivi fra singoli individui, dove sperimentare forme di relazione umana
differenti da quelle strumentali all’accumulazione di capitale. Può chiarire
meglio a che tipo di etica fa riferimento e come promuovere/diffondere
istituzioni efficaci in tal senso?

   Una
società centrata sull’accumulazione di una ricchezza astratta non può che
generare soggettività astratte: cioè forme e identità astratte di
soggettivazione. Ma facendo attenzione, perché anche qui il distacco dal
marxismo classico e tradizionale, metafisico e non più utilizzabile (se mai lo
sia stato), deve essere netto. Soggettività “astratta” non significa infatti, a
mio avviso, soggettività “alienata”, come hanno sempre voluto invece i marxismi della contraddizione e della
alienazione
che hanno caratterizzato la polemica ideologica e politica del
XX secolo, e come in Italia ha sempre voluto il marxismo italiano di Della
Volpe e di quella complicata e contraddittoria figura che è stato Lucio
Colletti.

 
Soggettività astratta non significa infatti una soggettività che perde e
colloca la sua ricchezza fuori di sé (come accade all’homo faber del proletariato), alienandola appunto, ed entrando in
opposizione/contraddizione inevitabile con chi la obbliga a tale impoverimento
di sé. Giacché soggettività astratta significa soggettività originariamente povera, in quanto
separata, per diritto monopolistico di proprietà, non solo dalla totalità del
mondo ambiente – come vuole la sua definizione classica ma sempre valida di
soggettività appartenente al proletariato, possessore della sola prole e della
sola propria forza-lavoro – ma separata,
essenzialmente, da sé medesima
.

   La
soggettività astratta del nostro mondo moderno, o per meglio dire ipermoderno (e certamente non postmoderno), è una soggettività di
povertà assoluta, perché, a muovere dalla povertà del proprio sentire,
dall’isterilirsi delle proprie emozioni, non è in grado di interiorizzarsi, di
accedere a una propria interiorità. E’ una soggettività, si potrebbe dire,
disincarnata. Una soggettività senza corpo emozionale proprio, nella quale il conoscere prevale sul sentire. Ossia dove i codici pubblici della
relazione e della comunicazione intersoggettiva prevalgono completamente sui
codici privati dell’emozione e del riconoscimento di sé, producendo appunto una
soggettività comune, indifferenziata, fusionale e pronta alla seduzione
occasionale dell’evento.

   A
questa antropologia della povertà assoluta – assoluta, perché povera, prima che
del mondo e dei mezzi di produzione, finanche di sé medesima –  corrisponde dunque una patologia sociale
generalizzata definibile attraverso una delle poche categorie utilizzabili del
pensiero funambolico e cagliostresco di J. Lacan: quella di «forclusione». Per
dire cioè che forse oggi le sofferenze psichiche maggiori sono dovute non a
scissione, rimozione, sostituzione, proiezione, compensazione di affetti quanto
proprio al dolore dell’indeterminato e
del vuoto che invade e stringe le
nostre vite e che non ci consente dentro di noi di accedere all’affetto.            A tale nichilismo interiore, che
barra la sfera del sentire, nella soggettività della miseria assoluta
corrisponde, come dicevo, la retorica del
sopravalore della superficie
, per cui tutto ciò che è esterno, pubblico,
oggetto di comunicazione, mass-mediologico, informatico, malgrado la sua
inconsistenza di senso e d’emozione, malgrado la sua ovvietà e banalità, viene
valorizzato e, in modo ilare e irresponsabile, sovradimensionato. 

   Mortificazione del sé (nel senso etimologico e
di condurre a morte) e prevalere dell’intersoggettivo
sull’infrasoggettivo sono dunque oggi
le note più devastanti e patologiche dell’umanità ipermoderna: non come
fenomenologia patologica di singoli individui ma come patologia di massa. Di una massa che, come si diceva, è stata
privata della sua maggiore proprietà
privata
, ossia della capacità di trovare il senso, la direzione della
propria vita, nel sentire di sé medesima, anziché nel conoscere dettato e
pronunciato da altri.

 Un’etica del futuro – di un futuro per ora
assai lontano e utopico – io credo debba muovere da qui. Dalla coscienza che il
diritto alla propria interiorità, alla relazione tra corpo emozionale e mente
con il minor grado possibile di barriere e di censura, debba rientrare nei
diritti fondamentali dell’essere umano. Debba porsi cioè a base di una nuova
civiltà giuridica e di una nuova organizzazione sociale, che tenga conto, dopo
un secolo di approfondimento delle scienze psicoanalitiche, del significato necessariamente bino del
concetto di «società»: società esteriore nel
significato tradizionalmente storico del termine, e, in pari tempo, società interiore, come definizione e
messa in campo della struttura composita e non ingenuamente semplice e
identitaria, della psiche dell’essere umano. 

  Tale arricchimento e complicazione psicoanalitica del concetto di società comporta una
ridefinizione dei valori e delle libertà fondamentali dell’individuo. Ed
implicherebbe una configurazione, profondamente nuova, di molti istituti
sociali che dovrebbero coniugare la loro attività secondo la cura e la
promozione di una libertà del riconoscersi. Basti pensare alla riorganizzazione
di una scuola che dovrebbe poter coniugare il percorso del conoscere con quello, appunto, del riconoscere.

  Ma per considerazioni ulteriori su questa
tematica rimando ad uno dei miei ultimi saggi, Riflessioni sul “convivium” tra Kant e Hegel [in F. Fistetti-U.
Olivieri (a cura), Verso una società
conviviale.
Una discussione con Alain
Caillé sul ‘Manifesto convivialista’
, ETS, Pisa 2016, pp. 139-159], nonché
al capitolo finale del mio libro, Un
parricidio compiuto
.

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Roberto Finelli è
professore senior di Storia della filosofia all’Università di Roma Tre. I suoi
campi di ricerca sono da molti anni la filosofia dell’idealismo tedesco da un
lato e l’epistemologia della psicoanalisi dall’altro.  Ha pubblicato libri e saggi in varie lingue
su Hegel e Marx. Ha curato edizioni italiane di classici della psicoanalisi.
Dirige la rivista on-line di filosofia, scienze sociali e psicoanalisi dal
titolo “Consecutio rerum (www.conse

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