di Giuseppe Oddo.
“Manomissione dell’altimetro” o “bomba a bordo”. Sono le due ipotesi formulate a caldo in una perizia dell’officina riparazioni motori dell’aeronautica di Novara condotta sui resti dei reattori dell’aereo precipitato il 27 ottobre 1962 a Bascapè, nei pressi di Milano-Linate. Tenuta nascosta per decenni e scoperta nella seconda metà degli anni Novanta da Vincenzo Calia, il sostituto procuratore di Pavia che riaprì le indagini sulla morte di Enrico Mattei, la perizia dell’aeronautica è una delle prove più lampanti dell’occultamento dei fatti e del depistaggio avvenuti intorno all’assassinio del fondatore dell’Eni.
Perché di assassinio si tratta, con buona pace dei negazionisti di ieri e di oggi.
Come ha accertato la Procura di Pavia nel 2003, al termine delle indagini, il Morane Saulnier 760 precipitato a Bascapè era stato sabotato la sera precedente con una piccola carica di esplosivo, mentre era parcheggiato nell’aeroporto di Fontanarossa, a Catania. Mattei era stato convinto a recarsi in Sicilia dove pernottò la notte tra il 26 e 27 ottobre 1962 e dove scattò la trappola della sua eliminazione. Cosa nostra, attraverso Stefano Bontate e il boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, fece solo un lavoro di fiancheggiamento.
Il velivolo fu manomesso da mani molto esperte. A fare da innesco fu il sistema di apertura dei carrelli, che il pilota Irnerio Bertuzzi azionò quando il piccolo jet era già allineato alla pista di Linate, pronto per l’atterraggio.
- Conferimento della cittadinanza onoraria di Matelica al magistrato Vincenzo Calia. Cronache Maceratesi
La perizia e varie altre carte inedite sulla sciagura di Bascapè figurano ora in un saggio di Chiarelettere che Business Insider Italia ha ricevuto in anteprima e che esce il 31 marzo in libreria: “Il caso Mattei”, lo stesso titolo del film diretto nel 1972 da Francesco Rosi, con Gian Maria Volontè nella parte del protagonista. Ed è un saggio che non passerà inosservato, perché uno dei due autori è Calia. Il magistrato, che oggi è procuratore aggiunto della Procura di Genova, ha scritto la prima parte del libro, che contiene il racconto dell’inchiesta e le sue convinzioni profonde.
Della seconda parte è invece autrice la giornalista di Euronews Sabrina Pisu che avanza una serie di ipotesi sui presunti mandanti dell’omicidio frutto della massa di indizi emersa dalle indagini.
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- 31/03/1977. Amintore Fanfani, Presidente del Senato e Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio. AGF
Smontata la tesi dell’incidente
Calia smonta la tesi dell’incidente – accreditata dalla commissione amministrativa di inchiesta istituita dall’allora ministro della Difesa, Giulio Andreotti – e dimostra come l’aereo cadde per un’”esplosione limitata non distruttiva” all’interno del velivolo, innescata dal congegno di apertura del carrello anteriore. Gli accertamenti eseguiti dall’esperto di tecnologia dei metalli Donato Firrao su piccoli frammenti dell’aereo, su oggetti personali di Mattei e su schegge estratte dai corpi riesumati, hanno evidenziato sui vari reperti la “presenza di modificazioni” riconducibili a “una sollecitazione termica e meccanica di notevole intensità ma di breve durata, caratteristica dei fenomeni esplosivi”. In pratica, la certezza di un’esplosione. L’ingegner Firrao ha anche partecipato al collegio peritale sulla sciagura di Ustica.
La carica esplosiva era stata sistemata nel cruscotto, proprio davanti al sedile del pilota Irnerio Bertuzzi, a destra del quale era seduto Mattei. Bertuzzi perse il controllo del velivolo a causa della piccola deflagrazione, che invalidò tutti i passeggeri. Viaggiava a bordo anche il giornalista statunitense di Time-Life William McHale, che stava realizzando un reportage su Mattei e che accettò all’ultimo momento l’invito del presidente dell’Eni di ritornare con lui a Milano. I corpi furono in parte spappolati dall’esplosione, e frammenti umani furono espulsi all’esterno, per la disintegrazione del tettuccio in plexigas che chiudeva la cabina di pilotaggio, e ritrovati sparsi per i campi lungo la traiettoria opposta a quella di caduta dell’aereo. Uno dei testimoni chiave, l’agricoltore Mario Ronchi, che aveva visto nel buio della sera l’aereo in fiamme girare a vuoto nel cielo e che fu il primo ad arrivare sul luogo del disastro, fu convinto a ritrattare le interviste che aveva rilasciate al Corriere della Sera e alla Rai.
- Il Genenerale Giovanni Allavena, capo del Sifar. Screenshot da “La vera storia della loggia massonica P2”. Youtube
Intorno al relitto – scrive Calia sulla base delle testimonianze – c’era un brulicare di uomini delle forze dell’ordine, di personale dell’Eni e di agenti in borghese del Sifar, il servizio segreto militare dell’epoca, a capo del quale il presidente del Consiglio in carica, Amintore Fanfani, aveva nominato due settimane prima il generale Giovanni Allavena, il cui nome figurerà molti anni dopo nelle liste della loggia massonica segreta P2.
Ordini dall’alto
Testimoni ripescati da Calia a distanza di oltre trentacinque anni hanno dichiarato che l’ordine proveniente dalle alte sfere militari e politiche era di dimostrare che l’aereo fosse venuto giù per il maltempo o per una manovra errata del pilota, anche se su Linate la visibilità era buona, quella sera scendeva solo una leggera pioggia, come dimostrano le prove raccolte dal magistrato.
- Amintore Fanfani con Enrico Mattei. Sceenshot. Orizzonti tv
Parti dell’aereo, tra cui il carrello anteriore tranciato di netto con la gomma integra, furono ritrovati a molte centinaia di metri dal relitto, come conferma il vastissimo repertorio fotografico rinvenuto da Calia, mai consultato dalla commissione di inchiesta né dai magistrati che indagarono all’epoca. Se l’aereo si fosse fracassato nell’impatto violento con il suolo, i rottami sarebbero dovuti rimanere intorno al relitto e i corpi all’interno della cabina, mentre la macabra presenza di arti e brandelli di carne penzolanti dagli alberi e della mano di Mattei trovata tranciata provavano l’esatto contrario. Era inoltre evidente che se l’aereo fosse esploso e si fosse incendiato a terra – come sosteneva la commissione di inchiesta presieduta dal generale dell’Aeronautica Ercole Savi – le foglie dei pioppi a pochi metri di distanza avrebbero dovuto presentare almeno qualche segno di bruciatura. Invece gli alberi erano integri, come ha accertato Calia.
E i resti umani trattenuti dai rami, sparpagliati in un raggio molto ampio, non potevano che essere “piovuti” dall’alto: dimostrazione ulteriore che il piccolo jet fu danneggiato in volo nel momento in cui il pilota, già in fase di atterraggio, aveva azionato la leva di comando delle ruote, che fu infatti rinvenuta in posizione “carrello giù”.
Il racconto di Calia è sorprendente per la quantità di prove e di testimonianze che il magistrato riesce a recuperare a distanza di così tanti anni e nonostante tutte le reticenze, le resistenze, i silenzi che ancora oggi avvolgono la vicenda di Enrico Mattei.
Enorme e sistematica attività di depistaggio
L’aspetto più interessante e sconcertante è l’enorme e sistematica attività di depistaggio e occultamento delle prove fatta emergere da Calia con la sua tenace azione giudiziaria frutto di centinaia di interrogatori avvenuti nel più assoluto riserbo e della consultazione di documenti che fanno luce sul delitto.
Un delitto maturato nelle alte sfere dello Stato, i cui mandanti non andavano ricercati all’esterno, tra le “sette sorelle” del petrolio con cui il presidente dell’Eni era ormai in procinto di scendere a compromesso, ma all’interno: nei potentati della Dc e negli apparati dello Stato più esposti nella lotta internazionale contro il comunismo, i quali vedevano in Mattei – nella sua straordinaria capacità di manovrare il parlamento e i partiti e di condizionare la politica estera – un nemico da abbattere.
- Il regista Francesco Rosi, con Claudia Cardinale, presenta il suo film ‘Il Caso Mattei’ al Festival del Cinema di Cannes Film Festival, 13 Maggio 1972. Keystone/Hulton Archive/Getty Images
Nell’immaginario collettivo la sciagura di Bascapé era stata fissata come un incidente e tale doveva restare.
E tutti coloro che si discostarono dalla narrazione ufficiale dei fatti furono in qualche modo neutralizzati. Alcuni ci rimisero la vita, forse s’erano avvicinati troppo alla verità. Altri si lasciarono comprare con consulenze, prebende, libri e articoli ricattatori pubblicati, poi ritirati o solo minacciati.
Una scia di sangue
Il cadavere di Mattei lascia sul campo una scia di sangue impressionante. La più inquietante è la morte di Marino Loretti, il motorista dei due Morane Saulnier con cui viaggiava Mattei, molto amico del comandante Bertuzzi. Loretti fu accusato di aver dimenticato un cacciavite nel motore di uno dei due jet durante un’attività di manutenzione (vicenda su cui si è molto ironizzato, passata alla storia come ”attentato del cacciavite”). In realtà il cacciavite era stato lasciato apposta da qualcun altro affinché la responsabilità potesse ricadere su Loretti: il quale fu rimosso dall’incarico e trasferito in Africa. Un tecnico di grande esperienza, uomo di estrema fiducia di Bertuzzi, veniva così allontanato dai Morane Saulnier prima dell’ottobre 1962, mentre il presidente dell’Eni riceveva pesanti minacce di morte e l’efficienza e la vigilanza sui suoi aerei divenivano ancora più importanti per la sua sicurezza. Loretti finì per dimettersi dall’Eni e per andare a lavorare per una piccola compagnia aerea. Morì nel 1969 pilotando un piccolo aereo tra Ciampino e Roma Urbe. I due motori si piantarono in fase di decollo e l’aereo precipitò.
- Gian Maria Volonté ne Il caso Mattei (1972)
Qui comincia un’altra storia: Calia acquisisce agli atti le carte della commissione d’inchiesta che aveva accertato come causa dell’incidente di Loretti la mancanza di carburante e scopre, attraverso documenti e testimonianze, che l’aereo aveva cherosene più che sufficiente e che i motori s’erano piantati perché qualcuno durante la notte, a Ciampino, aveva versato parecchi litri d’acqua nel serbatoio. Loretti fa in sostanza la stessa fine di Mattei.
E muore pochi mesi dopo aver inviato una lettera a Italo Mattei, fratello del fondatore dell’Eni, dove scrive di essere stato allontanato in modo intenzionale dall’incarico di motorista e di poter suggerire con le informazioni di cui è in possesso una nuova pista investigativa sulla morte di Enrico Mattei.
Perché la commissione d’inchiesta tacque sull’acqua nel serbatoio dell’aereo nonostante l’esame di un campione di carburante effettuato dai laboratori dell’aeronautica militare ne avesse rilevato la presenza?
Perché collaborarono alle indagini un ingegnere e un capitano dei servizi segreti?
Uno dei due, Romualdo Molinari, si trovava peraltro in Sicilia nell’ottobre 1962 come pilota di un gruppo di volo del comando dell’aeronautica militare antiSom di Fontanarossa nei cui hangar era stato ricoverato, nella notte tra il 26 e il 27, l’aereo di Mattei. Tante. Troppe coincidenze.
Il rapimento di De Mauro
- Mauro De Mauro. Wikipedia
La scia di sangue avanza con la morte di Mauro De Mauro, il cronista del quotidiano di Palermo “L’Ora”, il cui rapimento trascinerà con sé altre morti. La sera del 16 settembre 1970, De Mauro si allontana sulla sua Bmw con alcuni uomini di Cosa nostra che lo aspettavano sotto casa e sparisce nel nulla. Il suo corpo non sarà mai ritrovato. Era stato incaricato dal regista Francesco Rosi di ricostruire, per la produzione del film su Mattei, gli ultimi due giorni di vita del presidente dell’Eni, trascorsi in Sicilia.
De Mauro ripercorre il tragitto di Mattei. Va a Gagliano Castelferrato, in provincia di Enna e poi a Riesi, il paese del mafioso Di Cristina, di cui era stato testimone di nozze Graziano Verzotto, il segretario regionale della Dc che curava le relazioni esterne dell’Eni in Sicilia. Va a Gela. E incontra a Palermo i potenti dell’epoca, tra cui Verzotto e l’avvocato Vito Guarrasi, una delle figure più ambigue della storia siciliana e nazionale, che nel 1943 aveva partecipato alla missione italiana presso il comando alleato ad Algeri. Ad amici e parenti De Mauro confida di avere in tasca uno scoop che farà tremare l’Italia.
Come scrisse Leonardo Sciascia, forse aveva detto la cosa giusta alla persona sbagliata o forse la cosa sbagliata alla persona giusta.
- Il rinvenimento dell’auto di Mauro De Mauro. Wikipedia
Sta di fatto che le indagini della polizia, indirizzate fin dal primo momento sulla pista Mattei, furono presto abbandonate a favore di quelle dei carabinieri, i quali sostenevano che De Mauro fosse stato rapito per i suoi articoli sui traffici di stupefacenti della mafia. L’allora colonnello Carlo Aberto Dalla Chiesta, comandante della legione dei carabinieri di Palermo, ebbe uno scontro verbale con la moglie di De Mauro, che imputava invece il rapimento del marito al lavoro sulla ricostruzione degli ultimi giorni di Mattei in Sicilia che lo aveva assorbito nei mesi precedenti.
Come De Mauro era scomparso nel nulla, così si dissolsero le indagini sul suo conto.
- L’avvocato Vito Guarrasi. Carlo Carino/Imagoeconomica
Annacquare le indagini
Calia studia le carte e nel 1988 chiama a deporre tra gli altri il sostituto procuratore di Palermo Ugo Saito incaricato delle indagini. Saito dichiara che l’ordine di annacquare le ricerche era partito dal capo dei servizi segreti, Vito Miceli, durante una riunione cui aveva partecipato il vicequestore Boris Giuliano (a sua volta ucciso dalla mafia), e che l’ultimo anello della catena delittuosa su cui indagava la Procura di Palermo era Amintore Fanfani.
Saito aggiunge che era in procinto di trasmettere gli atti delle indagini su De Mauro alla Procura di Pavia, chiedendo l’arresto di Fanfani per l’omicidio di Enrico Mattei.
E tira in ballo anche un altro nome: “Ho anche memoria del fatto che dagli atti potevano emergere ipotesi di responsabilità a carico di alcuni personaggi di rilevo della vita italiana. Fanfani, Cefis…”. Peraltro, stando alla ricostruzione di Junia De Mauro, figlia del giornalista, sembra che anche Mauro De Mauro attribuisse a Cefis “precise responsabilità sulla morte di Mattei”.
- 1968 – Eugenio Cefis Vice Presidente dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi). Keystone Pictures USA/ZUMAPRESS.com
Il braccio destro
Eugenio Cefis era stato l’ombra di Mattei all’Eni. Allievo della scuola militare di Modena e poi agente del Sim, il controspionaggio militare fascista, Cefis è in Valdossola durante la resistenza come vicecomandante della divisione Valtoce e come organizzatore delle brigate “Di Dio”. Durante la guerra partigiana conosce Mattei, che è a capo delle formazioni cattoliche, il quale dopo la liberazione lo vorrà al suo fianco all’Agip.
Quando nel 1953 nasce l’Eni, Cefis diventa il numero due del gruppo. E’ l’uomo delle operazioni riservate di Mattei. La sua interfaccia in Sicilia è l’avvocato Guarrasi, il suo acerrimo nemico il senatore Verzotto. Fulvio Bellini, autore di un famoso libro su Mattei, diceva che Cefis traesse il proprio potere non sono dal fatto di tenere in pugno un certo numero di deputati e senatori, ma anche dalla capacità di gestire somme di denaro rilevanti al di fuori dei fini istituzionali dell’Eni. Aveva il culto della segretezza ed erano suoi amici alcuni esponenti di punta dei servizi, da cui riceveva informazioni di prima mano e per i quali rappresentava a sua volta un punto di riferimento, come se avesse ricevuto una qualche investitura superiore. Un appunto dei servizi ritrovato da Calia, il cui grado di attendibilità è tutto da dimostrare, lo indica come fondatore della P2. Di certo conosceva parecchi esponenti della loggia e il maestro venerabile Licio Gelli, con il quale restò in contatto fino al momento in cui questi non fu arrestato in Svizzera.
L’originale del documento dei servizi in cui si indica Eugenio Cefis come fondatore della loggia P2 (evidenziato da Business Insider Italia) .
- Chiarelettere
- Chiarelettere
- Chiarelettere
La sua carriera sembrava dovesse cessare nel gennaio 1962, quando Cefis lasciò l’Eni per ragioni mai chiarite. Ufficialmente si dimise per motivi personali. Italo Mattei sostenne invece che il fratello lo avesse allontanato perché ne aveva scoperto i maneggi e lo considerava un doppiogiochista asservito agli americani.
La sua uscita di scena dura però appena nove mesi. Subito dopo la morte di Mattei, Fanfani lo nomina infatti capo dell’Eni, dove resterà – prima come vicepresidente esecutivo e poi come presidente – fino al momento del suo sbarco in Montedison. L’Eni aveva scalato con i soldi dello Stato la più grande impresa chimica privata, che Cefis guidò con piglio risoluto fino al 1977, finché non decise di uscire per sempre dalla scena pubblica, andando a vivere in Svizzera ma continuando a curare i propri affari di famiglia sparsi tra l’Italia e il Canada.
- Enrico Mattei a un raduno di partigiani. Wikipedia
L’accusa di PPP
Cosa sapeva Cefis della morte di Mattei? Cosa aveva capito? Mario Reali, che è stato a lungo rappresentante dell’Eni a Mosca nel periodo sovietico e che aveva rapporti con il primo ministro Aleksej Kossighin e con altre personalità dell’Urss, sostiene che Cefis conoscesse la verità sulla morte di Mattei. Sabrina Pisu cita fra le altre cose un appunto riservato trasmesso il 9 dicembre 1970 dal questore di Milano al ministero dell’Interno e alla divisione Affari riservati, dove si afferma che la responsabilità di Cefis nella morte di Mattei fosse molto più diretta di quanto si credesse allora e che nell’Eni più d’uno ne era convinto.
Calia da magistrato non si pronuncia. Per lui parla l’inchiesta, anche se conclude il libro con una citazione di “Petrolio”, il romanzo di Pier Paolo Pasolini pubblicato postumo, di cui uno dei personaggi è Carlo Troya, alias Eugenio Cefis. La citazione è emblematica: “In questo preciso momento storico Troya sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore”.
L’ombra del caso Mattei con la sua sequenza di delitti si allunga fino alla spiaggia dell’idroscalo di Ostia, dove nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 lo scrittore “corsaro” è assassinato in modo efferato. E ancora una volta il nome di Cefis è accostato, in tempi non sospetti, alla morte del fondatore del gruppo del “cane a sei zampe”: non da un magistrato, ma dal più grande intellettuale di quegli anni, il quale nelle sue opere andava denunciando la natura violenta, brutale e omologante del potere.