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Il futuro prossimo e remoto del nostro mondo

Franco Livorsi: serve una rivoluzione della portata della Riforma del XVI e XVII secolo, ma in un senso psicologico, ecologico e sociale. Una conversione collettiva.

Il futuro prossimo e remoto del nostro mondo
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22 Settembre 2013 - 23.58


ATF

Intervista
a Franco Livorsi* a cura di Paolo Bartolini.

Professor Livorsi, l’egemonia
angloamericana sembra in crisi e difficilmente potrà imporsi ancora
a lungo su tutto il pianeta, tanto più adesso che l’emergere dei
nuovi grandi attori internazionali (Cina, Brasile, Russia, India)
annuncia l’imminenza di un mondo multipolare. Quale futuro
intravede, nel breve e medio termine, per i nuovi equilibri
geopolitici?

Sembra
che si diano due letture fondamentali dello stato del mondo prossimo
venturo. Una è quella espressa nel famoso libro di Michael Hardt a
Antonio Negri “
Impero.
Il nuovo ordine della globalizzazione”

(2001, Rizzoli, Milano, 2002), che ebbe molta eco e che a suo tempo
recensii anch’io sul “Pensiero politico”, la rivista degli
storici delle dottrine politiche; l’altra è quella più antica, ma
anche più “collaudata”, legata ai teorici della
ragion
di stato

e che nel XX secolo può essere approfondita attraverso le opere di
Friedrich Meinecke come “
Cosmopolitismo
e Stato nazionale”
(1908
e Sansoni, Firenze, 1975) e in tanti altri autori, e che nella sua
versione democratica informa di sé i pensatori del federalismo
europeo, in un arco che idealmente va però da
Per la pace perpetua
di
Immanuel Kant

(1795) al pensiero di Altiero Spinelli, poi di Mario Albertini, sino
a Corrado Malandrino, Sergio Pistone, Lucio Levi e altri. Su ciò si
può vedere, dopo il fondamentale testo d’inquadramento dottrinario
di Corrado Malandrino “” (Carocci, Roma, 1998), il bel libro di
Lucio Levi
Crisi dello Stato e governo del mondo
(Giappichelli, Torino 2005).

L’interpretazione di
Hardt e Negri (ma ovviamente è soprattutto di Antonio Negri),
risente dello strutturalismo o “sistemismo” sociale già di tipo
marxista operaista (ora evidentemente “ex operaista”). Per esso
tutte le contraddizioni – salvo quella economico sociale
“irriducibile” un tempo incarnata dai lavoratori salariati (o
operai) e ora dalle grandi masse dei poveri della terra
(“moltitudini”) – sono considerate “intrasistemiche”, ossia
parti dialetticamente composte o componibili di un unico insieme o
sistema, come fossero pesi e contrappesi di un solo organismo, che si
tengano reciprocamente in equilibrio, anche conflittuale, ma sempre
unico-unitario. Perciò quello che sembra a noi il disordine mondiale
del tempo della globalizzazione sottenderebbe in realtà un
ordine
intrasistemico
,
capitalistico, come se una mano invisibile lo regolasse. Perciò alla
domanda se la fine del duopolio sovietico-americano non segnasse
l’inizio di un’ingovernabilità mondiale, Hardt e Negri
rispondevano di no, nel senso che vi sarebbe tutto un complicato
sistema di poteri a rete, formato da taluni stati, le multinazionali,
le stesse agenzie ONU e così via, che costituirebbe
una
sorta di disordine ordinato
,
o di ordine naturalmente disordinato, proprio del capitalismo d’oggi,
che solo la rivoluzione mondiale dei dannati della terra potrebbe
spezzare.

L’interpretazione
degli altri autori cui ho accennato per contro mette sempre in
alternativa, come già Hobbes quattro secoli fa, caos autodistruttivo
“naturale” (
“homo
homini lupus”
)
e autorità statale. Caduto il sistema delle potenze statali, che
anche tramite guerre parziali si riconoscevano reciprocamente –
ordine saltato nel 1914, e tanto più nel 1945 – ritenuto
imprescindibile dal notevole politologo, pur ex nazista, Carl
Schmitt, la terra sarebbe precipitata nell’anomia, con fine del
diritto internazionale (su ciò è da vedere il suo imprescindibile
libro “
Il nomos della terra nella crisi internazionale dello jus publicum europeo”
(1950). In pratica si potrebbe ormai uscire dalla catastrofe,
strisciante o nucleare, solo con lo
Stato
mondiale
,
affermano i federalisti “europei” da Altiero Spinelli a Lucio
Levi. Si tratterebbe di costituire in forma liberaldemocratica
“Stati
di Stati”
,
Stati pluricefali, via via continentali, in vista della
mondializzazione federalistica dello Stato stesso. È più o meno
esplicita l’idea che lo scacco dell’internazionalizzazione
liberal-federalista porterebbe altrimenti, prima o poi, alla terza
guerra mondiale: per arrivare allo stesso risultato per via
imperialistico autoritaria (nel che sarebbe stato il senso – o non
senso perché per curare il mondo malato lo si ammazzava – del
secondo conflitto mondiale).

Personalmente ritengo
più persuasiva la seconda ipotesi, naturalmente
in
senso democratico federalista, continentale e mondiale
.
A differenza dei federalisti vedo però più
difficoltà
“profonde” nel far sorgere “Stati di Stati” dove manchino
grandi miti condivisi e aggreganti, un comune finalismo, una
religione e lingua più o meno comuni
.
In tal senso la mia paura è che la mondializzazione si attui o in
forme neoautoritarie oppure tramite forme di caos crescenti che
suscitino il bisogno – tra i popoli – di tali processi di
unificazione concordata, federativa, ma dopo catastrofi parziali. Per
tale ragione il palese
declino
della potenza mondiale americana
,
a un quarto di secolo dal crollo di quella sovietica, potrebbe avere
risvolti
assai pericolosi
.
In effetti stanno risorgendo o sorgendo grandi potenze che sono in
grado di controbilanciare gli Stati Uniti, e ciò è persino un bene.
E può pure darsi che s’instaurino o durino forme di cooperazione
conflittuale tra le stesse, in tal caso nel senso detto da Hardt e
Negri (l’equilibrio squilibrato, ma reale, del sistema mondiale
globalizzato). Ma spesso i troppi centri di potenza quasi mai
comunicanti, nella storia hanno reso ingovernabili le crisi, portando
catastrofi ciclicamente più spaventose. Queste catastrofi per ora
non sono né previste né prevedibili, ma siccome è molto difficile
che il genere di
policentrismo
tra grandi Stati verso cui andiamo, e in cui in parte già siamo,
possa governare sempre le crisi calde – come le aree di produzione
dell’energia in specie del Medio Oriente, la bomba demografica
afroasiatica e il declino ecologico di tutto il pianeta – non sarei
stupito se un giorno, che credo verrà quando saremo tutti morti (ma
non si sa mai), si scivolasse in un
terzo
conflitto mondiale e nucleare
.
L’unificazione politica mondiale in tal caso arriverebbe, ma
tramite miliardi di morti che solo i pazzi potrebbero mettere nel
conto. La speranza è che la gravità e persino l’aggravarsi dei
fattori di crisi, ma senza catastrofi assolute, spinga i popoli
all’unità democratica federativa. Anche ciò credo sia possibile.
Diciamo che personalmente darei la possibilità, rispetto allo
scenario catastrofico estremo tra dieci o cinquant’anni, al 50%.

In
un suo libro davvero controcorrente (
“
Politica nell’Anima. Etica, Politica, Psicoanalisi”,
Moretti & Vitali, 2007) ha tentato di illuminare la questione
relativa al rapporto tra psiche, religione e politica, rifiutando il
riduzionismo del materialismo storico. Qual è, secondo lei, il
limite principale dei movimenti riformisti e rivoluzionari che hanno
tentato, vanamente, di opporsi allo strapotere del sistema
capitalistico?

Su
questi temi rinvio al libro da Lei citato, “
Politica
nell’anima
”,
ma anche al “seguito”, il mio libro “
Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo”
(Moretti & Vitali, 2010). Di ciò mi sono occupato anche in una
fase recente, in una rivista che io stesso dirigo, per l’editore
Falsopiano di Alessandria, “
Anima & Terra. Psicologia, ecologia, società”,
nel n. 2 del 2012, nel saggio “
La
questione del mancato superamento del capitalismo alla luce del
materialismo storico e della psicologia analitica
”
(pp. 175-21). In questo saggio invece di interrogarmi, come si faceva
in decenni passati, sulla
“rivoluzione
proletaria mancata”
,
ho provato a interrogarmi sul
capitalismo
“riuscito”
.
Perché ha tenuto così a lungo anche in circostanze assai calamitose
per esso e infine ha trionfato a livello planetario? – In apparenza
per la potenza dell’economia o anche delle relazioni
socioeconomiche; alcuni, come il vecchio György Lukács in certe
interviste, aggiungevano l’inefficacia dell’economia di piano,
alternativa ad esso. Questo a me è parso al tempo stesso vero (a
conferma della scorza esterna del materialismo storico, marxista ma
pure dell’economia classica, o “neoclassica”,
liberal-capitalistica), e falso (contro lo stesso). E’ vero,
infatti, che i punti alti del capitalismo hanno tenuto e che il
collettivismo non è riuscito ad essere alternativo ad esso, bensì
emulo in tono minore, al ribasso, in certo modo come surrogato dove
esso non era riuscito non dico ad arrivare, ma a decollare in grande
stile. Ma poi bisogna spiegare perché tanto nel 1914 quanto nel 1939
(in tal caso dopo la crisi del ’29) sia arrivata la guerra
mondiale; e poi perché invece dell’attesa autoriforma del
capitalismo di stato o collettivismo, che molti tra noi attendevano
da tanti decenni e su cui, all’avvento di Gorbaciov, quando ormai
non ci credevano più, erano tornati a sperare, sia tornato il
capitalismo più puro, da Mosca a Pechino. Ciò è accaduto, a mio
parere, perché – contro Marx e il materialismo storico –
il
“feticismo della merce” non è una conseguenza del capitalismo,
ma la sua prima matrice, il segreto della sua forza
.
Il capitalismo è un mito interiore collettivo, è una fede, è la
religione di Mammona, del denaro e del potere il più possibile e a
qualsiasi costo. Ma questo è un dato di mentalità collettiva
“profonda”. In certo modo il detto dei Romani antichi dopo la
subordinazione della Grecia mi pare del 165 a.C. per cui “
Graecia
capta ferum inimicum cepit
”
è valso nella relazione tra socialismo e capitalismo. Il
socialismo,
anche quando ha sconfitto il capitalismo (comunismi) o comunque è
giunto a governarne aree chiave del capitalismo (socialdemocrazie) è
rimasto succube del capitalismo. Ha teso sempre o in pochissimi anni
ad
emularlo
invece che a sostituirlo. I comunismi miravano a costituire
élites
del potere che facessero per conto dello Stato le stesse cose, per
produrre sviluppo quantitativo, del capitalismo (il che finita l’era
tremenda dei plotoni d’esecuzione, che non poteva durare sempre,
risultò pure impossibile); le socialdemocrazie miravano a fare un
capitalismo dal volto umano, uno Stato “del benessere” (
welfare
state
),
riuscendovi ma paradossalmente rafforzando il loro nemico.

Naturalmente si
potrebbe pure pensare che fosse possibile creare volontaristicamente
la mentalità nuova. Questo fu il tratto forte del socialismo
occidentale rivoluzionario e del comunismo di sinistra, dal
“sulfureo” ma creativo anarcosindacalista Georges Sorel, che
odiava tanto il mondo tradizionale liberal-capitalistico da
preferirgli apertamente non solo le camicie rosse ma pure quelle
nere, alle varie famiglie del marxismo “occidentale”, dal Lukács
protomarxista del primo dopoguerra ad
Antonio
Gramsci
.
Quest’ultimo, anche nella fase più matura (
Quaderni del carcere),
concepiva il comunismo come una specie di religione secolarizzata,
una contro-società: o come sistema dei consigli operai (1918-1920)
o, dal ’21 tatticamente, e dal ’25 in poi strategicamente, come
partito comunitario e rivoluzionario di sinistra, partito della
palingenesi della coscienza sociale, “Nuovo Principe” in tal
senso (anche se non solo per questo). Ma anche l’idea di fare una
specie di comunità della rinascenza socialista si scontrò con la
realtà effettuale. L’idea del “partito nuovo”, in cui ancora
Berlinguer credeva così fortemente, confliggeva troppo col
burocratismo della “casa” comunista, e ancor più con l’influsso
socioculturale di tutto il mondo democratico borghese e capitalistico
diffuso.
L’Enrico,
Berlinguer, è stato, in fondo, una figura tragica
,
che voleva mantenere una forma partito ormai obsoleta, comunista,
proprio mentre puntava al compromesso storico con tutti i
“democratici”. In sostanza in casa comunista, sin da Gramsci, si
voleva realizzare, tramite il PCI, il contenitore di una nuova
eticità, che non poteva essere lo Stato come per Hegel o Gentile, ma
appunto il “partito nuovo”, che prefigurava la società fraterna
e senza classi da fare. Il progetto fallì e finì male. La potenza
che fa una nuova etica non può essere data dalle relazioni di potere
di segno economicistico o istituzionale, ma solo da qualcosa che
avviene, o non avviene, nella coscienza più intima dei singoli come
delle masse.

È
noto il suo apprezzamento per il pensiero di Carl Gustav Jung. Quale
contributo può dare la Psicologia Analitica a un ripensamento del
nostro modo di vivere ai tempi della globalizzazione economica?

Ho
detto che il mondo può cambiare solo attraverso una profonda
“
metànoia”,
ossia attraverso una rinascita, interiore collettiva, nelle
élites
politiche
come a livello diffuso. Ogni vera rivoluzione, che sia riuscita, e
che sia durata nei secoli, e che persino se vinta abbia “germinato”
per il futuro, è stata prima culturale e solo dopo economica e
sociale. La
coscienza
viene “prima” e non dopo i processi d’innovazione sociali e
politici.
Non
c’è rivoluzione nelle istituzioni o nei rapporti sociali che non
sia stata prefigurata, a livello almeno di quel vasto gruppo di
persone che influiscono sulla coscienza diffusa dei concittadini
partecipi alla via pubblica

(influenti, però, non per mestiere, da maestrini o professorini, ma
“di fatto”, in mille forme di ascendente sugli altri). Così è
stato col protestantesimo puritano, che anche suo malgrado preparò
la “gloriosa rivoluzione” inglese del 1689. Così per
l’illuminismo, che preparò rivoluzione americana e rivoluzione
francese. Così non è stato per il socialismo, in termini
economico-sociali ma persino culturali, dal momento che è stato più
materialista, più darwinista, più positivista dei suoi stessi
avversari sociali. È stato succube dei modi di pensare dominanti.

Ora in questo campo la
psicologia junghiana ha molto da dire sia in termini storico
interpretativi che storico trasformativi.

In
termini storico interpretativi – che io mi sono studiato di chiarire
sin dal mio libro
Psiche e Storia. Junghismo e mondo contemporaneo
(Vallecchi,
Firenze, 1991), e in seguito (si veda in proposito il mio saggio
“
Archetipi
e storia contemporanea nella psicologia analitica
”,
in “Rivista di psicologia analitica”, n. 33, 2012, pp. 199-224) –
lo junghismo può dare un buon contributo, anche se siamo ai primi
passi. Esso non si limita a enfatizzare il ruolo dominante delle idee
nella storia come l’idealismo, ma mira a
far
emergere quello che emoziona, appassiona, fa sognare le persone
.
Nessuno
si è mai fatto ammazzare per un’astrazione
.
Questa – l’astrazione – se efficace si caricava di una serie di
aspettative forti che il singolo riteneva meritevoli del suo impegno
continuativo e, se necessario, della sua stessa vita. Tra parentesi
il mondo d’oggi è in piena decadenza perché tutte le grandi
narrazioni del passato – si chiamassero liberalismo, radicalismo,
socialismo, comunismo, fascismo, o solidarismo cristiano – sono o
morte o tramortite o “vecchiette” tenute in vita da certi farmaci
mirati, con molte difficoltà. È venuto meno tutto quello che si
accompagnava a tali idee generalizzatrici.
È
venuto meno il “mito vivo” di ogni “ismo”
.

Ora lo junghismo,
in sede storico interpretativa, ci aiuta a cogliere non solo le
grandi idee che accompagnano e soprattutto anticipano la nuova
storia, ma anche i miti vivi, le immagini potentemente suggestive,
l’
eros
e
pàthos,
che le alimentava, ora empatico ed ora purtroppo anche di odio, e
senza di cui le idee, tanto più nella versione necessariamente
massificata, sarebbero state imparaticci per scolaretti. Non occorre
essere junghiani per fare o capire i miti vivi, come non era
necessario essere marxisti per fare storia dal punto di vista del
materialismo storico. Ad esempio a me pare che taluni storici come
George Mosse (per il nazismo), Emilio Gentile (per il fascismo), o il
Mario Isnenghi (storico del mito della grande guerra e poi di
Garibaldi stesso), siano già in tale lunghezza d’onda. Pure il
grosso libro “
Paranoia. La follia che fa la storia”
(Bollati Boringhieri, 2011), del mio amico Luigi Zoja, che enfatizza
il
dinamismo
paranoico nella spiegazione della storia contemporanea
,
sta in tale contesto. Nell’ultimo caso siamo di fronte ad uno dei
maggiori junghiani in Italia.

Ma il dato più
importante è quello che io chiamo storico trasformativo, e infatti è
alla base della mia rivista “Anima e Terra”, ma naturalmente di
ben altro. A me sembra evidente che
la
maggior fabbrica del futuro ha fatto fallimento
.
E a me dispiace moltissimo. Il marxismo, che Gramsci voleva
trasformare da pretesa scienza in una concezione del mondo che fosse
una specie di
rivoluzione
spirituale
,
come la Riforma di Lutero e Calvino ma senza Dio e nel nome dei
proletari, è giunto al capolinea. Anche se avrà magari movimenti di
nostalgia forti per chissà quanti anni, creando pure nuove scuole.
Ma ha perso “la spinta propulsiva” della storia (come nel 1981
aveva detto Berlinguer, ma del solo comunismo sovietico). E’
defunto. Noi ci troviamo nella stessa situazione in cui si era
trovato Marx quando era o sembrava fallito il mondo liberale o
repubblicano della rivoluzione francese, l’attardarsi sul quale a
suo dire – come diceva nel 1849 in “
Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850”
– sarebbe stato fatale ai rivoluzionari ancora nel 1848 francese.
Solo che adesso la concezione del mondo esauritasi non è più quella
repubblicana democratica o liberaldemocratica come al tempo di Marx e
dei successori, ma proprio quella marxista, comunista e socialista,
per quanto gli epigoni possano attardarsi in essa.

Ora a questo punto si
danno due possibilità.

Ci sono i teorici del
post-moderno come Jean-François Lyotard e come Gianni Vattimo (ma
quest’ultimo sembra da alcuni anni attratto da una specie di
ritorno romantico alla rivoluzione o al comunismo, che però forse è
solo “polemico”), i quali dicono:
«abbiamo
smesso di essere bambini, ogni rivoluzione è impossibile, la storia
è finita, diventiamo “adulti”, smettiamo di credere nella Befana
della rivoluzione e cerchiamo di fare il poco di buono che possiamo
fare
».
Ragionano più o meno come Voltaire alla fine del suo splendido
“
Candido”
(1759). Solo che poi arrivò la Rivoluzione francese.

Ma
ci sono anche quelli che come me pensano che
morto
un “ismo” se ne deve per forza fare un altro
,
che
sia la negazione ma anche la ripresa dei problemi irrisolti da quello
fallito
.
E che ciò accada sempre, ci piaccia o non ci piaccia. Qui non posso
soffermarmi tanto su ciò, ma mi sentirei di dimostrare che anche gli
“ismi” del XX secolo giunti più o meno al capolinea che ho
citato, nessuno escluso – liberalismo, fascismo, comunismo e
socialismo, eccetera – erano stati superatori-eredi “d’altro”
sviluppatosi tra Rivoluzione francese e tutto il XIX secolo.
C’è
dunque un fantasma che si aggira per il mondo. Ma quale?

Oltre a rispondere mi
sono chiesto quali dovrebbero essere le sue “attaccature” in base
a tutto quello che è accaduto. Anche il marxismo aveva avuto più
attaccature, e Lenin aveva scritto un bel saggio, mi pare nel 1913,
per dimostrare che esso aveva sintetizzato socialismo “francese”,
economia classica “inglese” e filosofia classica tedesca, ossia
la linea Babeuf-Blanqui ma pure Proudhon, le teorie economiche del
valore lavoro e plusvalore di Smith e soprattutto Ricardo, e
l’idealismo dialettico hegeliano, naturalmente “raddrizzandoli”
o rovesciandoli. Ora io ipotizzo che
il
nuovo “ismo” rivoluzionario dovrà sintetizzare la psicologia
analitica junghiana
,
che ci fa capire bene il nesso miti-storia, ma più ancora l’istanza
di
autorealizzazione
interiore e spirituale
;
una connessa, e non connessa, nuova
religiosità,
e l’
ecologismo.
C’è una dimensione d’infinità, d’eternità e empatia da
riscoprire nella nostra
psiche,
soggettiva e intersoggettiva, e c’è una
natura
come
corpo della psiche, casa dell’essere, grande madre da risanare per
risanare noi stessi
.
E c’è un
solidarismo,
erede del socialismo, da riscoprire nella loro ombra.

Lei
ha scritto che “i problemi irrisolti del socialismo si pongono sul
terreno dell’ecologismo”. Può approfondire questa affermazione?

Il
socialismo mirava ad un’economia non più basata sulla formula che
Karl Marx nel suo
Capitale
(I, 1867) considerava come il DNA del capitalismo stesso: la formula
“
DMD”,
per cui si investe Denaro al solo fine di fare, attraverso la Merce
(in realtà più merce) più Denaro, trasformando il mezzo (il soldo)
in fine. Questo era anche detto “feticismo della merce” perché
faceva della moltiplicazione continua della produzione,
dell’accrescimento dei prodotti, il fine, senza il quale non ci
sarebbe, in termini reali, “più denaro”, ossia profitto. Il
capitalismo concepiva e concepisce perciò tutto come merce, a
partire dall’uomo, che deve vendere l’energia umana sua propria
(forza lavoro) al miglior offerente, cessando con ciò di essere
persona, anche se questo la persona sotto sotto o apertamente lo
contesterà sempre, per farsi un “utilizzabile”. Il socialismo,
per vie in vero risultate o inefficaci o interne al capitalismo,
voleva realizzare una società fraterna, senza classi
(post-capitalistica).

Non voglio ripetere le
ragioni
dello scacco del post-capitalismo
:
l’aver sostituito – come socialismo o comunismo – il potere dei
padroni semplicemente con quello della burocrazia di stato; l’aver
condiviso una visione quantitativa dell’economia, e per ciò l’idea
dello “sviluppo illimitato”; l’aver condiviso il materialismo
economico e persino morale della borghesia; l’aver rinunciato a
superare il capitalismo sperando vanamente di umanizzarlo; l’essersi
spesso fatti complici o della politica di potenza dello stato o
dell’imperialismo economico, o di entrambi; l’essere stati –
come comunisti – tanto spesso liberticidi a livello di Stato.

M’interessa invece
sottolineare che la
visione
ecologista
,
tanto più se connessa ad una nuova visione dell’autorealizzazione
della psiche (di sé) e della sacralità della natura, risponde alle
istanze socialiste richiamate.
Combatte
il feticismo della merce
,
ossia il produrre per il profitto, come vizio interiore capitale, che
genera il capitalismo e non è generato dal capitalismo. Si emancipa
dunque da un servilismo verso la produzione illimitata, facendo di
ciò non già una variabile indipendente, ma dipendente da altre
istanze, quali il non rovinare l’habitat, e per ciò il decelerare
la produzione, effetto già dell’optare per le sole energie
rinnovabili e pulite come acqua e vento. Mira non già a domini di
classe, ma ad un comunitarismo solidale, ad una visione cooperativa e
di piccola produzione. L’idea della buona qualità della vita dà
al fine di emancipazione il carattere di istanza non connessa a un
avvenire remoto, ma all’impegno quotidiano. Certo l’approccio
richiede una sorta di
conversione
collettiva

e per ciò stesso una visione personalistica e spirituale,
tendenzialmente panteistica e solidale, della natura e della società.


Che
caratteristiche dovrebbe avere
un’alternativa sociale all’attuale
civiltà del consumo e dello spreco?

Condivido
con Marx la diffidenza per quella che definiva, contro gli epigoni
del grande socialismo utopistico, “l’osteria dell’avvenire”.
Non possiamo prefigurare tutto. Posso solo abbozzare talune istanze e
idee.

Non possiamo più
lottare contro l’economia di mercato perché ormai sappiamo che
quella dei burocrati di stato funziona pure peggio e ha una vocazione
liberticida. L’idea di avere libere istituzioni in un’economia
statizzata, cui ad esempio io avevo creduto per trent’anni, si è
dimostrata un’illusione. Oggi rivaluterei
il
concetto di democrazia industriale in alternativa a quello di
statizzazione
.
Dovremmo tendere a
una
società
“senza padroni”

(non dello “Stato padrone”)
,
che io concepisco come
una
rete di libere cooperative e anche di libere professioni
,
artigiane e non. In questa prospettiva tutte le forme di possibile
controllo
operaio della produzione, non più di tipo antagonistico,ma critico e
partecipativo, con condivisione degli utili e rappresentanti dei
lavoratori nei consigli di amministrazione
,
andrebbero incoraggiate. Inoltre dovrebbe esserci una

cura
estrema per la buona qualità della vita

e per
ciò – oltre che
il
diritto alla salute per tutti
,
da salvaguardare e ampliare – dovrebbe esservi il diritto a
un
habitat quanto più possibile immune da inquinamento
.
Dovrebbe esserci un’opzione sempre più forte per le
energie
dolci e rinnovabili
.
Anche pagando qualche prezzo, in termini di
decelerazione
dello sviluppo, almeno nei settori meno indispensabili per stare sul
mercato mondiale
.
La scuola secondo me non dovrebbe solo essere attiva, ma
“scuola
del lavoro
”,
sempre professionalizzante. Il pieno possesso della
lingua
nazionale

e pure della
lingua
inglese,
una
cultura
informatica
,
dovrebbero essere dati comuni e perseguiti con ostinazione sin dalla
primissima scolarizzazione. Credo che
dovrebbe
essere
abolito
il valore legale dei titoli di studio
,
mettendo fine alla distribuzione di titoli svalutati, basata
sull’abbassamento del livello degli studi. Dovrebbe essere posta
una cura massima per
la
divisione e bilanciamento tra i tre poteri dello Stato
,
senza di che tutto è putrido. Credo pure che
la
governabilità
dovrebbe essere un valore forte, anche perché la globalizzazione
accresce l’anomia. Personalmente sono pure favorevole alla forma di
governo che c’è in Francia:
doppio
turno di collegio ed elezione del presidente della repubblica, che
nomina primo ministro il capo del partito di maggioranza relativa e
coopera con lui
;
so bene che molti non sono d’accordo, ma di ciò, per complesse
ragioni che qui non posso illustrare, sono assolutamente convinto Il
federalismo
è importantissimo
non
già o non tanto nello Stato
,
su cui ha un senso dubbio e spesso controproducente, quanto
per
unire ciò che è diviso, ossia per fare “Stati di Stati”, a
partire dall’Unione Europea, sul modello degli Stati Uniti
d’America.

Sono
contrario
a qualsiasi guerra non bandita almeno dal Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite e sono favorevole a valutare caso per caso anche
quelle sanzionate dall’ONU.

Sono
contrario
a ogni imperialismo
,
ma credo che gli Stati possano evitare i disastri solo andando via
via a formare
autorità
comuni “super partes”
,
mentre trovo illusoria una visione dell’indipendenza dei grandi
Stati senza alcun coordinamento permanente. Ritengo, infine, che sia
importante riprendere tutta la
battaglia
mazziniana per i “
doveri
dell’uomo
”,
enfatizzando per essa la stessa dimensione religiosa, ma in una
chiave non confessionale e rinnovata in senso interiore e di
sacralizzazione della natura
.
Sono persuaso che la
dimensione
religiosa
,
dopo la disfatta della forma secolarizzata della religione stessa
(comunismi) abbia un grande presente-avvenire, ci piaccia o non ci
piaccia. Questa grande spinta può giocare o nel senso del “futurismo
del passato”, cioè reazionario, come nei fondamentalismi emersi in
tutti e tre i monoteismi, oppure come istanza redentiva rivolta
all’avvenire. In tal caso il

nesso Psiche-Sacro-Natura
mi
sembra il trinomio su cui lavorare. In generale credo che l’Occidente
per rinascere avrebbe bisogno di qualcosa, che vada nella direzione
or ora accennata, della
portata
della Riforma del XVI e XVII secolo
,
ma in un senso appunto
psicologico,
ecologico e sociale
.
Ma queste cose non si possono decidere solo a tavolino. Ciascuno può
però cercare di portare una piccola pietra. Io mi sforzo di farlo.

  • Franco Livorsi

è
professore di Storia delle dottrine politiche. Specializzato anche
in Psicologia, è socio onorario del CIPA (Centro Italiano di
Psicologia Analitica). Tra i suoi numerosi libri ricordiamo: “Il
mito della nuova terra” (2000), “Politica nell’anima”
(2007), “I concetti politici nella storia. Dalle origini al XXI
secolo” (2008), “Sentieri di rivoluzione” (2010),
“L’avventura di Jung” (2012).

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