Articolo precedentemente apparso su [url”Critica Impura”]criticaimpura.wordpress.com[/url] e in ebook su “Un Anno di Critica Impuraâ€, di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Web-Press Edizioni Digitali, Milano, Gennaio 2013 – ISBN: 978-88-906285-97.
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La conoscenza di sé, si dà per certo, è un impulso fra i più vivi dello schietto filosophein, fin dallo
gnòthi s’autòn socratico o pseudosocratico. Ex abrupto, problema non facile, corruccio umano che
specialmente dal Seicento all’Ottocento ha preso le variegate forme di un raziocinare in generale
sul raziocinio in particolare, o anche, kantianamente, si è definito come indagine preferenziale sulla
primigenia istanza della possibilità di conoscenza in genere. La posizione criticista di Kant a questo
riguardo identificava, nella sua esigenza di analisi del sapere, l’anelito all’autoconoscenza a partire
dal dato fondamentale della sua “rivoluzione copernicana†applicata all’Io, per cui esso, finalmente
e per la prima volta, com’è sempre stato detto con enunciati solenni e squilli di trombe, si trova al
centro del complesso sistema conoscitivo, come conoscente che non deve più adattarsi all’oggetto
ma, al contrario, è quest’ultimo a doversi adattare agli schemi conoscitivi del soggetto
percipiente.
Per il processarsi indefesso dello schematismo, che lavora per categorie e per giudizi, Kant
definisce chiaramente il presupposto fondamentale dell’atto conoscitivo: nessuna esperienza potrÃ
mai essere elaborata, attraverso le medesime categorie e giudizi, dalla nostra mente, se i dati che
compongono la conoscenza sensibile non si trovano già predisposti, prima in senso logico e quindi,
anche, in senso cronologico, in essa.
Per risolvere il difficile problema di che cosa sia, o in che cosa consista, questo fondamentale
basamento di senso assicurato, questo principio di determinazione cosciente che conforta il
crogiuolo dei nostri sensi percipienti dalla frammentazione schizofrenica della conoscenza del
circostanziale circostante e, conseguentemente, dall’impietosa perdita di senso, Kant ricorre all’â€Io
Pensoâ€, ovvero alla coscienza e consapevolezza dell’atto conoscitivo; l’appercezione
trascendentale è questa coscienza garantita dal marchio di fabbrica del criticismo kantiano, che
rende possibile la conoscenza ed il suo ordine intrinseco. E qui cominciano i primi dubbi.
A parte l’ovvia obiezione di ascendenza aristotelica, per la quale, se Kant mi dà un fondamento di
“io penso†come base della coscienza, quell’â€io penso†a sua volta dovrebbe poggiare, per avere
validità , su un altro pavimento, cotto o crudo che sia, come dire: su un altro “io pensoâ€, aut aliud, e
così via all’infinito, in un regresso poco economico e, sinceramente, scomodo. Ma poi e per giunta, a
ben vedere, sotto il sole di Königsberg non c’è neanche davvero nulla di nuovo.
Già per Renato Delle Carte, come sarebbe più opportuno traslitterare l’illustre geometra dell’
intelletto francese, l’autocoscienza del “cogito, ergo sum†ci rendeva immediatamente certi dell’
esistenza dell’io cosciente, la res cogitans, ed in Cartesio l’anima cosciente era realtà diversa dal
suo contenuto, cioè dai processi che in essa hanno luogo. Inoltre, si potrebbe e dovrebbe notare l’
insignificante particolare del fatto che, all’interno della formula “cogito, ergo sumâ€, la congiunzione
esplicativa ha un valore ben più profondo di quello semplicemente argomentativo – retorico. Essa in
realtà , per il valore semantico, per il senso del periodo insomma, potrebbe anche venire
tranquillamente omessa. Nell’affermazione di una res cogitans che annuisce, che nega, che
condensa percezioni in forma disvelata, che, in un verbo solo, pensa, anche l’attività del sentire è
ricondotta giocoforza al pensiero stesso.
In sostanza, per Des Cartes, la certezza della propria esistenza era riportata alla consapevolezza
dell’atto del pensare, proprio di ciascun soggetto individuale ed indipendente. Naturalmente, era
ancora netta la distinzione tra soggetto e oggetto, tra pensiero e corpo, tra abstrahens e
abstractum, e questa divisione manteneva bellamente in vita tutte le difficoltà , logiche e teoretiche,
su come costruire un ponte che, attraversandole da parte a parte, ne collegasse le essenze e le
esistenze, altrimenti puramente e apoditticamente enunciate. Eulero dimostrò non essere possibile
passeggiare sui sette ponti di Königsberg passando una ed una sola volta per ognuno di essi.
Problema ozioso, quello dei ponti della irridente cittadina russa, eppure evocatore, esemplificatore
e simbolo di una ben peggiore ed impedente paradossalità . Quale sorta di ponte pontificato ed
astratto avrebbe mai potuto indirizzare l’intelletto a sgranchirsi le gambe andando incontro alla sua
incorporea corporeità ? Quale medium nevralgico occorreva per uscire dall’empasse? E poi,
diciamocelo in sordina, quel regressus ad infinitum di aristotelica movenza, lo stesso che
avvelenava l’â€io penso†di Kant, metteva indiscutibilmente in crisi, come si vedrà poco avanti, anche
l’irascibile francese.
Quindi, tanto per esser chiari, in una veloce panoramica dei primi filosofi che hanno fornito un
ordine metodico all’analisi della conoscenza nel pensiero moderno, Kant si trovava a dover
superare la staticità dell’immobile e crogiolatorio dubbio cartesiano, che scadeva ben presto nell’
indefesso scetticismo di Hume, o in un dogmatismo che mutilava il fecondo campo del conoscere
falciandone le messi con enunciati castranti come quello, a mo’ di exemplum, in base al quale
“causa adeguata all’idea di Dio è solo Dio, quindi Dio esisteâ€.
Per Hume, come la palla da biliardo non colpisce il boccino per necessità , neanche è necessario che
esista un io sovrastante ed astrattamente condensato in un uno, se non in forma di amalgama di
sensazioni delle quali non si può dire altro che, tolte impietosamente ad una ad una, alla fine di
quell’io tanto paventato non rimane un bel nulla. Inutile dire che il nulla, in quanto tale, è pur
sempre qualcosa di per sé, perché in tal caso, bisognerebbe argomentare per chi potrebbe mai
rimanere pur tale. Sbucciato il carciofo dell’io, per usare una metafora gaddiana, al centro c’è solo
un’ultima foglia: tolta quella, tolto l’io. E non in senso hegeliano, come auf – gehoben, bensì tolto
come eliminato, et voilà , punto e basta. Del resto, anche con Berkeley, il problema non era stato di
certo superato. Secondo il suo “esse est percipiâ€, noi non potremmo assolutamente dimostrare l’esistenza di una sostanza materiale indipendente dalle nostre percezioni. Egli affermava infatti l’esistenza di un intelletto autocosciente, consapevole di esistere e di percepire, ma, per garantire
l’oggettività della conoscenza, Berkeley faceva risalire le idee a Dio, superiore entitÃ
extracosciente, sovratemporale ed ultraspaziale, che invierebbe queste idee di origine divina a
tutti. Forse per e – mail. Forse tramite piccione viaggiatore. Chi lo sa.
A questo punto, si rende evidente una cosa: il problema principale, al succedersi dei filosofi,
continuava ad essere, come anche per Spinoza, quello lasciato insoluto da Cartesio nei vari
tentativi di risoluzione dell’improbabile nesso tra res cogitans e res extensa, per risolvere il quale il
gallico in fuga aveva tirato in ballo la ghiandolina pineale che risiede, quieta quieta in quanto ipofisi,
alla base del cervelletto. Ma, e l’obiezione è ovvia e risibile: come poteva e come può un grumo di
carne, per sua natura di sostanza materiale, fungere da ponte e medium tra anima e corpo,
facendo lei stessa parte del campo semantico e concreto di una delle due medesime res?
Anche Spinoza confermava bel bello che noi possiamo conoscere soltanto due cose: pensiero ed
estensione. E dico per l’appunto cose, in quanto esse, riguardo al loro statuto ontologico, non
risiedono più neanche in noi, bensì sono attributi di Dio, ambedue modi di essere di quell’unica
sostanza, che concede forma alla materia ed alla forma, alla prassi e alla teoresi, nella più perfetta,
ed estraniante, identità con la sostanza divina in quanto tale. Ma siccome tutto è Dio, si deve
arguire che allora stanno anche in noi. Altro che tutto è Dio, altro che Deus sive natura! Se tutto è
Dio, allora niente è Dio, allora niente è Io. Non si risolve delegando al Titano l’unificazione del becco
del rapace metafisico e della carnea materialità del fegato. Ma c’è di più.
Se Dio è questa totalità unificata, se Dio è l’unica sostanza razionalizzata in attributi che si
modificano, lo è, appunto, in quanto c’è qualcuno dal di fuori che razionalizza questo modificarsi,
che individua con la mente questo incessante divino unificarsi. Il pensiero è un attributo di Dio, ergo
a pensar non sono io, ergo è Dio che pensa se stesso; allora io, che pure penso, sono Dio o vi
partecipo? Se sono Dio, sto da capo a dodici, perché non mi spiego un bel nulla: cambio solo
prospettiva ontologica, ma devo comunque poter essere in grado di argomentarmi come io conosca
alcunché. Sono un Dio individuato, e ciò non mi esenta dal ricercare il modo del mio conoscere. E se
invece partecipo semplicemente della sostanza divina, non sono, daccapo e a maggior ragione,
proprio per questo mio parteciparvi, di per me, un individuo individuato, non foss’altro che da me
stesso?
Comunque, si dirà , sono pur sempre un Io, perché penso tutto questo. L’io sembra quasi
appropriarsi dell’ontologia fenomenologica di un Dio senza dentale sonora. Ma in tutto questo
carnascialesco altalenarsi di consonanti e vocali, il due, numero del perenne conflitto insoluto,
marito e moglie che litigano senza pace, senza posa, senza fluire dinamico tra l’uno e l’altra,
permane a impedimento, persiste a paradosso. Nessuna risoluzione, nemmeno un divorzio
definitivo. Anima e corpo come Sandra e Raimondo. All’infinito.
Occorre notare, per tornare a Kant, che la sua concezione della conoscenza di sé, creata per
superare l’empasse secolare del diviso e del diverso, non è, per la verità , né eccessivamente
originale, in quanto appunto deriva da una rielaborazione in chiave criticistica di tutta la letteratura
precedente sull’argomento, almeno da Cartesio in poi; né tantomeno risolutiva, poiché, volendo
anche partire da essa come presupposto fondamentale a tutta la possibilità di conoscenza in
genere, non risolve affatto, come non lo risolveva Spinoza, il problema della divisione tra soggetto
e cosa in sé. Persiste in Kant, infatti, un seppur brevissimo, in senso logico, istante passivo del
soggetto in cui esso subisce l’influsso dell’oggetto quando questo si fa conoscere. Perciò, si può
tranquillamente porre in discussione anche l’apparentemente certa conoscenza di sé di
ascendenza kantiana.
Il boccoluto vince, ma non convince. E non convince, occorre ribadirlo, per il pensiero filosofico dell’
idealismo tedesco successivo, da Fichte a Schelling, che tesero a superare in varie forme lo scoglio
insopprimibile della cosa in sé, la quale, ad occhi attenti, riduceva ad un palese dualismo
cartesiano, semplicemente mutato di segno, l’intera critica della Ragion Pura; e tentavano di
ovviare all’empasse, gli idealisti, vestendo di un nuovo significato la stessa autoconsapevolezza,
traendola fuori dal suo costume sterile ed irrancidito, infarcendone la grazia e la compostezza di un
Io rinnovato e antistatico, che si scrollava di dosso la polvere e l’ombra di quel dualismo cartesiano,
spinoziano e kantiano, imbalsamato ed irrisolto.
Per Fichte, ad esempio, la cosa in sé non è affatto al di fuori dell’Io. Nel rapporto fra Io conoscente
e oggetto, l’Io si pone di fronte ad esso, percependo ogni oggetto al di fuori di sé e qualificandolo
come non – io. Fichte pone così una distinzione idealistica tra io empirico, ovvero la conoscenza
individuale, ed io assoluto, id est, lo spirito in generale; essi, eureka!, hanno la stessa identica
natura spirituale. Nel processo conoscitivo che porta alla determinazione, da parte dell’io, della
natura come non – io, in un rapporto di opposizione apparentemente ancora una volta ravvolto dal
sudario intristente del dualismo, necessario e fondamentale è il primo passo: l’Io che pone se
stesso ed, in quanto tale, in seconda istanza logica, pone il mondo fuori di sé. Quest’io si delinea
così come attività fondante la conoscenza stessa, ed in sé unità di coscienza ed autocoscienza:
atto puro, come avrebbe detto poi il fascistissimo Gentile, che in Fichte è colorato a tinte forti dalla
tavolozza protoromantica della fiducia riposta nell’attività stessa, come indipendenza dell’
autocoscienza di fronte al mondo del freddo oggettualismo ostentato; streben umano, affatto
sovrumano!; sforzo dell’Io a trovare se stesso come Io che pone fiduciosamente il mondo, un
ripostiglio cosmico non spiritualizzato, spirituale, spiritato d’attivismo quasi tantrico, senza infamia e
senza lode.
La condanna indirizzata dal teutonico verso qualsiasi dogmatismo è evidente: Fichte accusa questa
corrente ricolma di spifferi sinistri di far risalire alla cosa l’origine stessa del pensiero il quale, in
questa maniera, non sarebbe altro che una cosa esso stesso. Il pensiero, per Fichte, è invece per
se stesso, e l’oggetto è, invece, per il pensiero. Successivamente l’io, attraverso un percorso
metodologico antitetico, svilupperà la conoscenza, partendo sempre, pur tuttavia, dal principio
basilare di identità . Anche nella concezione politica fichtiana ha peso questa concezione di identitÃ
ed autocoscienza. I popoli si riconoscono infatti come realtà spirituali; gli io empirici, cioè i singoli
uomini, gli individui presi di per sé insomma, conoscendosi e riconoscendosi, decidono di collaborare
e di dare forma e luogo alla struttura statale, la quale diviene per l’umanità ciò che l’Io Assoluto è
per l’io empirico. Fichte dunque, avvia la contestazione del criticismo, ma per una carrellata
romanticamente soggettivistica, storicistica e naturalistica, avremmo dovuto aspettare all’orizzonte
la comparsa della figura di Schelling come primo attore.
Allo stesso modo in cui Fichte sostiene, novello Atlante, la teoria fenomenologica del soggettivismo
come unica via da tollere sulle forti spalle, così Schelling teorizza il naturalismo come soluzione
finale. Ed è tutto un gioco di punti di vista differenziati, di rimproveri e di ritorsioni, come sempre
accade nell’aia in cui troppi galli beccano il miglio dallo stesso scifo. Schelling rimprovera a Fichte,
com’era prevedibile, la sussistenza della divisione tra soggetto e cosa in sé nell’opposizione
mantenuta tra io e non – io. Per Schelling, tale rapporto deve essere di profonda affinità , immersa
in una realtà assoluta di concetti filosofici fin troppo astratti. Soggetto ed oggetto assumono così la
stessa valenza; viene determinata ulteriormente l’unità di spirito e natura, ma, beninteso,
diversamente da Spinoza il quale, com’è stato detto, aveva categorizzato una realtà in definitiva
statica nella quale tutto è in Dio; e pure diversamente da Hegel, che darà luogo ad un unicum
logico, Assoluto – Infinito – Reale – Idea, in cui la concretezza della sfera razionale e la razionalitÃ
della sfera concreta si chiuderanno in circolo virtuoso dinamico e non mai impedente, dove la
riduzione a dialettica è elevazione a potenza della possibilità della conoscenza stessa dell’umanitÃ
in quanto Spirito.
In Schelling, tanto per tornare a monte, al contrario l’io ha consapevolmente un grado di spiritualitÃ
differente ed in qualche modo più, come dire… sveglio, rispetto allo spirito addormentato e silente
della natura. Nella concezione della filosofia come scienza dell’Assoluto, l’autocoscienza si identifica
con una conciliazione perfetta dell’aspetto realistico e di quello idealistico del pensiero. Nasce così
la concezione dell’idealrealismo che dovrà ricostruire la storia ideale dell’Assoluto. L’uomo, in
questa visione, risulta essere una manifestazione dell’Assoluto stesso, non morale, bensì in quanto
unità di io e non – io, per cui, riconoscendo questa medesima identità , l’uomo non deve far altro
che lasciarsi vivere contemplativamente: egli è l’artista, colui che è supremamente consapevole,
giacché l’arte viene interpretata da Schelling come capacità d’intuizione dell’unità tra spirito e
materia. Non v’è chi conosce se stesso più dell’artista, anzi, meglio ancora: è solo l’artista a
conoscere veramente se stesso. E gli altri, i contadini, i manovali, i metallurgici, le casalinghe di
Voghera, che fine fanno? Rinascono, dissoluti e dissolti nel soggetto, come Aforismi di Minima
Moralia, qualche brutto tempo dopo.
Kant, Fichte e Schelling, per continuare l’andazzo, sono ben lontani dal teorizzare un semplicistico
innatismo virtuale alla maniera di Leibniz, per il quale la mente è già predisposta alla conoscenza
per fatti suoi. Il problema insoluto dei tre, tuttavia, continua ad essere l’esistenza di Dio, che non
viene sufficientemente giustificata da Kant e risulta così essere tirata in ballo in modo esteriore,
confusionario e contraddittorio da Fichte e da Schelling. Questo problemaccio epocale, a ben
vedere, c’entra con l’io, c’entra molto, talmente tanto che finisce per compromettere la validità della
concezione della conoscenza di sé in tutti e tre i casi. Non solo perché si è ricorso troppo spesso
all’idea di Dio come ponte fra anima e corpo, fra io e non – io, fra spirito e materia. Ma anche
perché, come dovrei potere e sapere parlare di Dio, se ammetto anche solo la possibilità di questa
stessa esistenza, in quanto parlarne è, in qualche modo, un conoscerne pur qualche modo od
attributo, alla stessa maniera dovrei poter conoscere me stesso. Conoscere l’io e conoscere Dio
sono processi intellettivi che si fondano sulla medesima struttura fondante. Ma come e perché?
Kant aveva inserito nella conoscenza di sé anche la rigida sfera morale, basata sulla ritrovata
validità di una metafisica non in quanto scienza, ma in quanto regolamentazione della condotta
umana nel suo dipanarsi pratico ed attivo. L’uomo deve infatti rendersi conto di essere
contemporaneamente empirico, cioè condizionato dalla causalità temporale, e libero, intendendo la
libertà , sui generis, come obbedienza al Grande Fratello dell’imperativo categorico. Anche al di qua
della ragion pratica, però, Kant dà l’impressione di ambire ad un perfetto equilibrio di pensiero. Ad
esempio, nella concezione di spazio e tempo come dimensioni fondamentali per l’esistenza e la
conoscenza dei fenomeni, egli tende a rifiutare una tesi estremistica come quella di Locke.
Secondo l’autore del Saggio sull’Intelletto Umano, se Dio è infinito, dove l’idea di infinito si ottiene
estendendo al massimo grado le idee di spazio e di tempo, ne consegue che possiamo con i nostri
soli mezzi pensare l’infinito; di conseguenza, una prova ontologica di Dio non occorre, nel senso
che si esclude la considerazione stessa, il concetto dell’esistenza necessaria o, peggio, dell’idea
innata di Dio. Sensazione e riflessione che cosa c’entrano con l’idea di Dio? Egli è un’idea complessa
ed in quanto tale oscura, a cui non corrisponde nulla nel reale, e di cui non possiamo identificare
conoscitivamente la sostanza. L’uomo non può andare a trovare il luogo di residenza dell’essenza,
può affidarsi solo alla mappatura topografica delle idee chiare, può conoscere con certezza soltanto
i fenomeni. Un bel colpaccio contro la metafisica, calibrato con estrema perizia balistica fra capo e
collo. Maxima theoretica, di nuovo, e minima moralia. La parola d’ordine in Inghilterra è: empiria. Ma
allora, come può l’uomo conoscere se stesso? Possiede forse di sé idee chiare e distinte, e
basterebbero i sensi a farcele in qualche modo avere?
Del resto, Kant si rifiuta anche di scendere a patti con il leibnizianesimo selvaggio in base al quale
Dio può essere dimostrato a priori o a posteriori, in quanto unico essere in cui l’essenza richiede
necessariamente l’esistenza. Gaunilone, in questo senso, ancora ride in faccia ad Anselmo d’Aosta:
non si passa così facilmente dal dominio logico, tout court, a quello ontologico, essendo questi due
campi ben distinti, anche riguardo il campo di applicazione. Per Kant è evidentemente una
sciocchezza affermare, come Leibniz sembra pago di fare, che Dio è possibile a livello logico –
razionale, quindi esiste. Salvo poi intortarsi da solo, il fine criticista, rigettando al centro della pista
da ballo, nella sfera morale stroboscopica da discoteca in cui ci si agita sulle note di ricorrenti oldies
but goldies, quella stessa metafisica derisa nella fisica, derisa dalla fisica. La sua ricerca dell’
equilibrio del pensiero crolla poco spavaldamente di fronte alle critiche successive.
In Kant l’imperfezione consiste nella persistenza del noumeno. Inutile negarlo o tentarne un
postmoderno recupero. Come giustificare, infatti, una perfetta e fenomenica conoscenza di sé, se a
rigor di logica non si può affermare una conoscenza del mondo, certissima perché dichiarata tale,
ovvero dei fenomeni stessi, giacché nulla a rigore vieta al noumeno stesso di essere, esso stesso,
il mondo, o anche solo una porzione di esso? Noi cosa siamo? Anzi, io stesso cosa sono: fenomeno
o noumeno? L’ombra nefanda e nefasta del gran genio di Hume oscurava di nuovo il sole
opacizzato della razionalità , proprio quando Fichte e Schelling facevano la loro comparsa sulla
scena del dramma filosofico moderno e, nei ripensamenti successivi, anche contemporaneo.
Per Fichte e Schelling, il problema, di ascendenza platonica, è la convivenza millenaria dell’uno e del
molteplice. Ed è stato molto comodo per i due, nella fase finale della loro filosofia, affidarsi all’atto
creativo di Dio per giustificare la metexis, il passaggio, il ponteggio comunicativo dell’io monadico e
del reale multiforme fenomenico. Ma insomma, ovunque risieda una soluzione pur sperata, o meglio
una semplice e semplicistica risoluzione di natura religiosa, non si vede dove sia la reale possibilitÃ
di una piena conoscenza di sé, laddove noi stessi, in quanto individui, risultiamo essere figli di una
creazione superiore ed imposta che ci domina dall’alto. Logicissimo si rivela essere, invece, il
ragionamento comune di Cartesio e di Hobbes, in questo convergenti nonostante le opposte e
lontanissime concezioni filosofiche: essi vedevano nella matematica la necessaria base della loro
filosofia.
Opportuno appariva, ora come allora, ricercare una perfetta conoscenza, possibile ed effettiva,
nonché effettuale, in ciò che è la mente stessa a creare, nella pura mathesis astratta ed astraente,
la quale, in quanto fervido parto dell’intelletto umano, senza impurità di sorta dall’esterno, consiste
in quell’armonia di coscienza e conoscenza, eternamente auspicata e mai raggiunta, che l’uomo
tutt’oggi ricerca ancora per se stesso fuori di sé, e che non troverà mai al proprio interno, non solo
se fosse vero che Dio esiste, ma anche, e proprio in quanto, di fatto, Egli sussiste, nella mente che
pure unicamente lo pensa, come terza persona singolare, pensandolo essa fuori, in alio, in alteris,
in Natura non sicut in Deo, sed sicut Deus ipse.
L’esistenza dell’idea di Dio o, diciamo, l’invenzione di essa da parte della mente umana che le rende
ragione nella coscienza, determina in definitiva il senso di angoscia kierkegaardiano e di
oppressione in cui versa l’umanità da millenni; uno stato di prostrazione, psicologico in senso
filosofico, filosofico in senso psicologico, proprio di chi trova ostacoli sul proprio cammino, e poi si
accorge, o si ricorda, di averceli disposti accuratamente egli stesso, per darsi il suo daffare, per
occupare un po’ di tempo. Dio non è né conforto né salvezza, bensì un ostacolo etico,
deliberatamente creato dalla mente del singolo individuo per trascorrere i nostri settant’anni medi
immersi in una qualche occupazione che fornisca un senso alle ore che passano, come accade ai
bambini quando di notte, nel buio dell’insonnia, inventano un mostro preferito con cui
fantasticare.
Si potrebbe obiettare che, se fosse valido il caso in cui è la mente stessa a creare Dio, Egli, in
quanto idea, sarebbe perfettamente conoscibile come i principi matematici, e, di conseguenza,
avremmo anche una perfetta conoscenza di noi stessi; basterebbe a tale scopo, come nel caso di
Dio, porsi. Ebbene, mefistofelicamente, noi poniamo di fatto noi stessi, e perciò ci conosciamo alla
perfezione; ma ci poniamo in quanto imperfetti, così come, e il caso non è fuori di realtà , noi
abbiamo posto coscientemente l’idea di Dio come di un inconoscibile, ed in quanto tale, tutto ciò
che se ne può sapere è, per l’appunto, il fatto stesso che Dio è inconoscibile: e questo, per l’
appunto, ribadisco se non fosse chiaro, è tutto ciò che se ne può sapere; quindi, e proprio per ciò,
ne sappiamo tutto! Ergo, dov’è il problema?
La vita del pensiero, il percorso fuorviante ed astruso della conoscenza di sé è, probabilmente, solo
questo lungo ed inenarrabile processo fatigante, che consiste nel conficcare, filosoficamente e nel
concreto della prassi, una lunga fila di chiodi nel muro dell’intelletto; una parete così specialmente
sottile che, passando attraverso, un chiodo da una parte scaccia l’altro dalla parte opposta, tale
che, nella storia della filosofia, appendere quadri non è mai stato il reale scopo, consistendo questo
stesso, bensì, nel continuare a martellare e a fare buchi, nel sudare dietro al proprio indaffararsi:
nel lavorare allargando il vuoto.
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