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Guerra di mondi – offerte di pace

Un saggio di Bruno Latour, (Paris, 2000) sul rapporto tra Occidente e Alterità. Recentemente tradotto e inserito nel volume “Mondi multipli. Oltre la Grande partizione” (Kaiak, Napoli 2014).

Guerra di mondi – offerte di pace
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8 Aprile 2015 - 16.23


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di Bruno Latour*

[right]La visione del mondo propria di coloro che “si credevano moderni” non riesce più a conservare la sua egemonia. Per motivi interni allo sviluppo del pensiero occidentale, ma soprattutto per l”effetto congiunto delle crisi ecologiche e della presenza alle porte di miliardi di persone estranee al mito occidentale, l”idea di una Natura oggettiva garantita dalla Scienza e di una molteplicità di culture tollerate come testimonianze folcloristiche prive di ontologia, crolla lasciando spazio alla necessaria e progressiva composizione di un mondo comune. Questa composizione, lo ricorda Latour nel presente saggio, passa attraverso il riconoscimento di un conflitto reale ed esige, da parte dell”Occidente, un”offerta di pace troppo a lungo rimandata. Non esiste altro modo per negoziare con gli Altri. (Paolo Bartolini)[/right]

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LATOUR Bruno, 2000. [i]Guerra di mondi / offerte di pace[/i]. In: Consigliere S. (a cura di), 2014. [i]Mondi multipli. Vol. 1. Oltre la Grande partizione[/i]. Kaiak, Napoli 2014, pp. 165-182.

Una volta la situazione era più semplice: nonostante tutti i loro disaccordi, i loro conflitti, le loro diversità nei costumi e nelle lingue, gli umani condividevano, pur senza averlo voluto, un mondo comune: quello della natura, di cui l’antropologia fisica forniva una buona approssimazione. L’antropologia sociale o culturale si distaccava dunque da un fondo unitario che rendeva appunto possibile la comparazione tra culture, un po’ come il muro bianco di un museo permette di far risaltare le differenze tra le maschere provenienti da ogni dove che vi sono appese. C’erano forse dei Bantu e dei Baulé, dei Finnici o dei Lapponi, ma tutti avevano in comune lo stesso fondo di geni, di neuroni, di muscoli, di scheletri, di ecosistemi e di evoluzione che permetteva di collocarli nella stessa umanità.

Quando si superava il mondo dell’uomo per abbordare quello della natura fisica, del cosmo, ciò che era in comune aumentava ancora. È vero che c’erano disaccordi possibili tra specialisti, tra discipline, ma alla fin fine il mondo, la natura esterna, possedeva di primo acchito il carattere dell’unità. C’erano, certo, delle culture, con le loro molteplici particolarità arbitrarie; ma almeno c’era una sola natura, con le sue leggi necessarie. Di conseguenza i conflitti tra umani, per quanto lontano potessero andare, restavano limitati alle rappresentazioni, alle idee, alle immagini che le diverse culture potevano farsi di una natura biofisica unica [1]. Se c’erano disaccordi, delle differenze d’opinione, dei conflitti violenti, tutto avveniva all’interno dei cervelli umani, nel loro cinema cerebrale, senza mai impegnare il mondo, la sua realtà materiale, la sua cosmologia, la sua ontologia che per costruzione – no! per natura, per l’appunto – restava intangibile.

Detto altrimenti le differenze, in questa benedetta epoca della modernità, non erano mai davvero serie, non scavavano molto in profondità dacché non toccavano mai il mondo stesso. In linea di principio l’intesa era sempre possibile, se non facile. Si poteva sempre sperare che le differenze d’opinione e addirittura i conflitti diminuissero o si attenuassero se soltanto si fosse potuto ricorrere un po’ più alla natura unificata e un po’ meno alle rappresentazioni divergenti, soggettive e contraddittorie che se ne facevano gli umani. Se per educazione, per ragionamento, si fosse giunti a far entrare la realtà fisica e naturale nei dibattiti, le passioni si sarebbero calmate; dalla diversità appassionata si sarebbe passati all’unità rassicurante e razionale. Anche se l’umanità divergeva nelle religioni, nei diritti, nei costumi, nelle arti, essa poteva sempre ricorrere all’oasi di unità e pace offerta dalla scienza, dalla tecnica, dall’economia. Forse le passioni ci dividono, ma la ragione almeno ci riunisce – perché la ragione è la natura messa in parole. È vero che ci sono diversi modi di educare i bambini, ma non c’è che una sola embriogenesi. Di conseguenza, se ci troviamo a litigare, basterà aumentare la parte di obiettività scientifica, di efficacia tecnica e di resa economica, e ben presto smetteremo di litigare – o per lo meno, potremo ripartire le cose con chiarezza, separando il discorso sui valori dall’esposizione che poggia sui fatti.

Neanche ci si rende conto di quanto fosse comoda questa soluzione al problema della composizione di un mondo comune – nome, questo, che si può dare alla politica (Latour 1999a). Perché in definitiva il lavoro era già fatto, l’unità già costituita e armata da capo a piedi; il mondo era già unificato: restava solo da convincere gli ultimi recalcitranti. E se non si riusciva, beh, allora si poteva sempre sistemare la parte residua tra i valori da rispettare, la diversità culturale, la tradizione e via dicendo, e in breve raggruppare i recalcitranti in un museo o in una riserva. Li si trasformava allora in forme più o meno collettive di soggettività, dalle quali non avrebbero mai potuto ritornare per reclamare l’obiettività e occupare un posto nel mondo. Erano banditi per sempre, come le donne e i bambini delle dinastie rovesciate, che venivano rinchiusi a vita nei conventi. In quell’epoca, che non è poi così lontana, non potevano esistere delle guerre di mondi. C’erano, certo, delle guerre, e anche innumerevoli, ma almeno c’era un solo mondo e questo permetteva di parlare senza esitazioni di un pianeta, di una umanità, di diritti dell’uomo, dell’umano in quanto tale.

Naturalmente c’era il sospetto che questo mondo al singolare – quello della Scienza, della Tecnica, del Mercato, della Democrazia, dell’Umanità, dei Diritti dell’uomo e insomma dell’umano – avesse il difetto di essere un tantino etnocentrico, per non dire imperialista. L’unificazione si faceva in maniera un po’ viziata, come se si fosse delegato (ma nessuno aveva delegato niente) il compito di unificare il mondo a una soltanto delle culture del mondo, quella che portava il nome vago di Occidente. Malgrado la sua bizzarria, la cosa tuttavia non sembrava scioccante, perché l’Occidente, in fondo, non era una cultura “tra” le altre, dacché possedeva un accesso privilegiato alla natura e alla sua unificazione già compiuta. Certo, c’erano dei tratti culturali che permettevano di considerare gli Europei, gli Americani, gli Australiani e, più tardi, i Giapponesi come culture specifiche, ma l’accesso alla natura eliminava rapidamente queste differenze di superficie: si poteva discutere o rifiutare l’“occidentalizzazione”, ma la “modernizzazione” era, indiscutibilmente, patrimonio comune dell’umanità. Cedere a essa non significava sottomettersi a un imperialismo qualsiasi, imitare volontariamente uno schema culturale: significava, semmai, avvicinarsi a questa sorgente fondamentale e indiscutibile di unificazione. Significava connettersi direttamente all’origine oggettiva del mondo comune e in tal modo avvicinarsi all’unità. Diffondendo o adottando scienze, tecniche e mercati, né chi agiva in nome dello sviluppo né chi veniva “sviluppato” sentivano di cedere a un popolo qualchessia: cedevano alla modernizzazione, che non ha né padre né madre, ma segna semplicemente, attraverso lo squarcio aperto nel muro variegato delle rappresentazioni dipinte dalle culture, l’entrata più o meno roboante della natura indiscutibile e unificante.

E tanto priva di senso quanto desacralizzata! E proprio qui, in effetti, sta il paradosso di questo strano periodo che è stato chiamato “modernità” e che, retrospettivamente, appare sempre meno come motore della storia e sempre più come l’interpretazione parziale di uno dei suoi episodi. Se la natura ha il vantaggio di offrire d’acchito l’unificazione, ha anche il grave inconveniente di essere radicalmente priva di senso. La brutalità dei fatti obiettivi non ha né odore, né sapore, né alcun significato propriamente umano. I moderni lo riconoscono molto lealmente, con una specie di gioia maligna. Le grandi scoperte scientifiche, si diceva rabbrividendo, non fanno che strapparci dal nostro piccolo villaggio per gettarci in un cosmo ghiacciato di cui noi non occupiamo più il centro e i cui spazi infiniti ci terrorizzano. Ma, in definitiva, non c’era scelta: la modernizzazione esigeva che si facesse il lutto per la perdita di tutte queste pretese colorate, di tutti questi cosmi variegati, di tutte queste forme di vita dai rituali così ricchi. «Asciughiamoci le lacrime, diventiamo adulti, l’umanità esce dall’infanzia dei miti ed entra nella dura realtà della scienza, della tecnica e del mercato. È triste ma è così: o restate nelle vostre culture differenti, e allora i conflitti continueranno; oppure accettate l’unità condividendo lo stesso mondo comune, ma naturalmente (in tutti i sensi dell’avverbio) questo mondo sarà privo di senso. Prendere o lasciare.» D’altra parte, ci si può domandare se una delle cause in qualche modo metafisiche degli spaventosi conflitti generati da questo stesso Occidente, che pretendeva tuttavia di pacificare tutti i conflitti facendo appello a un solo mondo comune, non sia da ricercare in questo impossibile doppio legame con il quale i modernizzatori si sono loro stessi legati – tirandosi dietro i modernizzati.

L’avanzata del fronte della modernizzazione aveva tuttavia il vantaggio di definire con sufficiente precisione la differenza tra “loro” e “noi”. In effetti, contrariamente a ciò che dicono gli anticolonialisti, il termine “etnocentrismo” non può, per definizione, applicarsi all’Occidente. È vero infatti che esso occupa il centro, ma non è una etnia, una nazione, una cultura. L’etnocentrismo è, come si sa, insieme al buon senso, la cosa più condivisa del mondo. Tutti i popoli, tutte le nazioni, costruendo i loro rapporti di commercio, di dominio, di evitamento si sono messi ciascuno al centro e hanno messo gli altri alla periferia; ma, nel corso dei lunghi contatti storici, c’era tra loro questa eguaglianza di fondo: erano tutti, quanto meno, dei popoli (Lévi-Strauss 1952). Ora, questo non è mai stato il caso dei moderni: gli altri erano dei popoli, delle culture, ma “noi”, gli Occidentali, i moderni, noi appunto non lo eravamo. Solo l’Occidente poteva occupare, per la prima volta nella storia, la posizione del centro indiscutibile, senza però che questo centro provenisse da una qualsivoglia etnia [2]. Era proprio questo che permetteva la differenza tra “loro” – prigionieri degli stretti confini delle loro culture e in fondo incapaci di accedere ai principi unificanti della natura – e “noi”, che possedevamo certo dei tratti culturali più o meno accentuati, ma la cui risorsa nascosta era di aver raggiunto, grazie al lavoro di scalzatura della Scienza e della Tecnica, lo zoccolo duro dell’universalità, la roccia madre della natura. “Naturocentrica”, “raziocentrica”, forse – ma mai formazione politica fu meno etnocentrica dell’Occidente modernizzatore. Tanto più che, con una magnanimità davvero ammirevole, permetteva a chiunque, qualunque fosse l’etnia d’origine, di diventare universale come noi e appartenere a questa patria senza antenati, a questa etnia senza rituali, a questo paese senza frontiere: quello della ragione che accede alla natura unificante tramite l’obiettività scientifica e la discussione ragionata.

Alla fine, però, la questione del senso dell’esistenza restava insoluta. Al contrario, più l’appartenenza a questa patria senza patria si estendeva, meno significato offriva: strano paradosso, questo, che prima obbligava a ricercare il genericamente umano per tutto il pianeta e poi, quando infine lo si trovava, a disperarsi davanti allo spettacolo di una semplice natura animale, biofisica, neuronale. La soluzione trovata per attenuare, se non proprio risolvere, questa contraddizione tra una natura unificante ma assurda e delle culture ripiene di senso ma senza più alcun titolo per regnare sulla realtà obiettiva, fu appunto quella di sacralizzare la nozione di “cultura”: ci siamo messi a coccolare, conservare, rispettare e addirittura inventare delle culture (Sahlins 2000). Ma la nozione di cultura, non dimentichiamolo, è per essenza relazionale: le etnie non esistono nel mondo allo stesso titolo dei cavoli o delle rape. La nozione di cultura non è che uno dei modi possibili secondo i quali si entra in relazione con gli altri. Ora, il multiculturalismo non è che l’altra faccia di ciò che si potrebbe chiamare mononaturalismo (Viveiros de Castro 1998).

L’impressione di grande apertura di spirito che dà il multiculturalismo non deve dissimulare il prezzo che i popoli hanno dovuto pagare per poter continuare a esistere sotto forma di culture: «Voi possedete forse il senso, ma non avete più la realtà, se non sotto la forma simbolica, soggettiva, collettiva delle rappresentazioni. Avete il diritto di possedere una cultura, ma allo stesso modo lo hanno tutti gli altri e tutte le culture si equivalgono». In questa mescolanza di rispetto e di completa indifferenza si riconoscono i tratti del relativismo culturale. Poco importano, d’altronde, questi giochi di cultura dacché la natura, da qualche parte, continua a unificare la realtà grazie a leggi indiscutibili e necessarie – benché prive dello charme e del senso di queste deliziose produzioni culturali che il capriccio e l’arbitrio umano hanno generato dappertutto.

Riassumiamo la situazione al momento in cui la modernizzazione era al suo apogeo: un mondo naturale comune già unificato, checché ne pensassero gli umani imprigionati nelle loro rappresentazioni simboliche; un Occidente che è il solo a non essere etnocentrico, che considera con un occhio al contempo ammirato, disgustato e interessato la molteplicità dei modi di sfuggire a questo mondo comune; delle culture tutte paragonabili tra loro e tutte ugualmente poco impegnate nella costruzione di una realtà naturale comune; e, soprattutto, una proposta di pace che non presuppone alcun conflitto: le guerre non riguardano mai i mondi, ma soltanto le rappresentazioni simboliche del mondo; l’unità è già fatta: basta che la dose di natura universale aumenti dappertutto e l’accordo si farà per semplice conseguenza; infine, dato che questa natura universale non ha un senso umano, è indispensabile conservare le culture per abbellire, arricchire, decorare con valori e passioni il duro mondo dei fatti e della ragione – a condizione, beninteso, che nessuna di queste culture mantenga delle pretese ontologiche. Ecco, in tratti rapidissimi, il mondo oramai scomparso che proponeva l’accordo del mononaturalismo col multiculturalismo. «A noi il mondo, a voi i mondi, e cioè delle “visioni del mondo”; e se fate troppo baccano, verrà il mondo a pacificare le vostre dispute». Curiosa offerta di pace, questa, che non aveva mai riconosciuto la guerra.

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Quando si volge uno sguardo retrospettivo sull’episodio della modernizzazione – appena qualche secolo di violenti sussulti – si è colpiti da quanto essa sia stata pacifica nonostante queste guerre scatenate su scala sempre più gigantesca. Non è un paradosso: l’Occidente era fondamentalmente pacifico poiché i disaccordi non potevano mai andare troppo lontano. Riguardavano le qualità seconde, le rappresentazioni, mai la sostanza, il tessuto del mondo, le qualità prime. A un Galileo, a un Newton, a un Pasteur, a un Curie, a un Oppenheimer la politica e le religioni apparivano sempre come violenti focolai che un po’ di scienza obiettiva avrebbe sempre potuto soffocare. Per quanto terrificanti fossero i conflitti, pensavano costoro, la pace sarà sempre a portata di mano, appena dietro la prigione delle nostre passioni e delle nostre rappresentazioni. E già non ci rendiamo più conto di quanto questo sentimento di pace interiore potesse essere rassicurante, gratificante, equilibrante: questa certezza assoluta che c’erano delle guerre, ma non guerre di scienza, che c’erano delle guerre nel mondo ma non delle guerre di mondi – se non nella fantascienza.

Per tutti i nostri grandi antenati non esisteva alcuna fonte di conflitto che non potesse essere prosciugata; e se proprio non la si poteva prosciugare, bastava interiorizzarla, rimandarla nel foro interiore. È quel che l’Occidente ha saputo fare così magistralmente con le “paci di religione”: sì, la religione divide; però no, essa non implica il mondo, ma soltanto l’interiorità (Christin 1997). Soluzione perfetta: è l’invenzione di una società di tolleranza. La coabitazione non implica alcuna rinegoziazione del mondo comune già costituito, ma soltanto l’accettazione delle bizzarrie delle opinioni e degli affetti – a condizione, però, che restino all’interno delle frontiere strette dei paesaggi interiori.

Ora, la rinegoziazione del mondo comune è cominciata; siamo adesso in presenza di guerre di mondi; non esiste più alcuna sorgente di pace; le culture non vogliono più essere solamente delle culture; ci sono guerre di scienze [3]; il mononaturalismo ha fatto largo a un mostro che solo dieci anni fa era inimmaginabile: il multinaturalismo, che aggiunge la sua danza indiavolata a quella del multiculturalismo – il quale, per sua parte, è andato in pezzi insieme alla tolleranza ipocrita che presupponeva. Nessuno più vuole essere semplicemente tollerato. Nessuno più sopporta di essere soltanto una cultura “tra le altre”. Ora è di nuovo questione della realtà.

Il sintomo di questo cambiamento d’epoca si ritrova nella congiunzione di due termini, ripetuti ad nauseam: “globalizzazione” e “frammentazione”. Si sbaglierebbe, tuttavia, a non prenderli sul serio, dal momento che l’uno segnala la crisi dell’unità e l’altro la crisi della molteplicità. Contrariamente all’impressione erronea che potrebbero dare gli attuali discorsi sulla globalizzazione, la nostra epoca è molto meno globale di quanto non fosse nel 1790, 1848, 1918, 1945, 1968 o 1989, per prendere dei punti di riferimento semplici, che ancora echeggiano vivamente nella memoria dei francesi.

A quei tempi sì, si poteva parlare di umanità, di umano, di umanità mondiale, di pianeta terra, di progresso, di cittadini del mondo, dacché si aveva l’impressione di aver innestato la storia sulla sola sorgente razionale, sapiente, obiettiva, di unità e di pace, il cui modello era dato dalle scienze della natura. La vittoria era dietro l’angolo. Stavamo per uscire dal tunnel. La modernizzazione avrebbe trionfato. “Noi” avremmo tutti condiviso lo stesso mondo. Curiosamente, mai “il” mondo al singolare era parso più globale, totale e in via di compiutezza come prima del periodo in cui la parola globalizzazione ha cominciato a entrarci nelle orecchie.

Anche qui, paradosso? No, perché se adesso si parla di globalizzazione, se ne parla come di un pericolo fatale, di una necessità schiacciante, di una tragedia, di una obbligazione ardente, di una sfida da accettare. Quali che siano le versioni, positive o negative, si parla del globale o del mondiale come di una mobilitazione guerresca, come di un fronte, come di una battaglia che può essere perduta: il globale, il mondiale sono divenuti dei problemi gravi da risolvere e non più, come prima, come al tempo della modernizzazione, la soluzione evidente a tutti i conflitti. Perfino i francesi, spesso adepti dell’universalità repubblicana, si mobilitano “contro la mondializzazione” e si mettono a rivendicare ad alta voce, cosa impensabile dieci anni fa, l’“eccezione culturale”! Per la prima volta la totalità diventa visibilmente, pubblicamente, mediaticamente, la posta di una guerra senza pietà e non più l’invisibile unità alla quale tutti di nascosto ricorrevano. Oggi si rizzano barricate contro la globalizzazione e i pericoli della mondializzazione: ma chi mai, un tempo, sarebbe stato così folle da rizzarne contro l’universalità o contro la natura?

Le cose non vanno meglio dall’altra parte, quella della molteplicità. Mentre la globalizzazione rende problematica l’unificazione, ecco che la frammentazione rende altrettanto problematica, e perfino pericolosa, la tolleranza. Abbiamo notato che c’è qualcosa di strano nel lagnarsi a un tempo, sotto il nome di postmodernità, sia della frammentazione che impedirebbe ogni unità e ogni senso comune, che della globalizzazione che unificherebbe troppo velocemente e senza negoziazione? Perché semmai bisognerebbe rallegrarsi: se la globalizzazione è un pericolo, allora viva la frammentazione che ne spezza l’egemonia; e se invece è la frammentazione detta postmoderna a essere così terrificante, non dovremmo accogliere a braccia aperte una globalizzazione che porta infine unità e senso comune? Lagnandosi così ingiustamente contro entrambe, si segnala però con precisione la trasformazione profonda che ci ha fatti uscire dalla modernità e dalla soluzione tanto comoda che essa offriva al problema dell’unità e della molteplicità.

La frammentazione rompe il mononaturalismo; la globalizzazione distrugge il multiculturalismo. Da entrambi i lati, che si tratti di costruire il multiplo o di costruire l’uno, si vedono infine delle forze in gioco, degli avversari, dei fronti, delle contraddizioni violente. La sorprendente rapidità delle trasformazioni si misura in base a questo tratto: “globalizzato” non suona più per nulla come “naturale”, e “frammentato” non suona più per niente come “culturalmente rispettabile”. L’abbiamo davvero fatta finita con la tolleranza [4], con il rispetto ipocrita dell’antropologia comparata, con le dichiarazioni lenitive sull’umanità, i diritti umani e il fatto che siamo tutti simili, abitanti dello stesso mondo. Adesso c’è una guerra di mondi. La pace, l’ipocrita pace della modernità, è bell’e finita.

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Per dire le cose in modo meno marziale: si è passati nel giro di qualche anno da una situazione di guerra totale condotta da pacifisti assoluti, a una situazione di guerra aperta che offre vere prospettive di pace.

I moderni, in effetti, non facevano mai davvero la guerra, perché non riconoscevano l’esistenza di conflitti possibili, se non in quanto attenevano a rappresentazioni superficiali che non potevano riguardare il mondo razionalmente conosciuto. Cosa davvero stupefacente: i moderni hanno messo il pianeta a ferro e fuoco senza mai entrare in conflitto, senza nessuna dichiarazione di guerra! Al contrario, non hanno fatto altro che espandere, con le armi, la pace profonda, l’indiscutibile civilizzazione, il progresso sans phrase. Mai hanno avuto avversari, nemici nel senso proprio del termine, ma soltanto dei cattivi allievi. Le loro guerre, le loro conquiste, perfino i loro massacri erano pedagogici! Rileggiamo Jules Verne: ci si batte dappertutto e in continuazione, ma per il bene delle persone. Se, come dice Carl Schmitt, c’è un nemico col quale si è obbligati a fare la guerra solo quando non c’è mediatore comune a cui rivolgersi per un arbitrato (Schmitt 1927, 1963), allora sì, si può dire che la storia moderna non ha conosciuto guerre e che i civilizzatori non hanno mai avuto nemici: si sono sempre rimessi a un arbitro indiscutibile, a un mediatore di gran lunga superiore a ogni forma di conflitto possibile: la natura e le sue leggi, la Scienza e il suo mondo unificato. Quando si è i delegati di un mediatore che sovrasta la situazione di conflitto, non si fa più la guerra: si fanno solo operazioni di polizia.

I moderni hanno dunque incivilito/“poliziato” [5] il mondo, e potrebbero affermare con fierezza di non aver mai fatto la guerra. E perciò, certo, non possono neanche capire le esigenze della pace, le necessità della diplomazia, i rischi dei negoziati. «Quali negoziati? Quale diplomazia? Quali trattative di pace? Ma se non c’è guerra! Rimettiamo un po’ d’ordine, ecco tutto; esprimiamo nella realtà l’ordinamento che già vi si trova, e che le rappresentazioni collettive avevano un po’ perturbato.» I moderni hanno portato a tutti gli altri popoli solo delle guerre wilsoniane [6].

È chiaro che simili guerre larvate, che non riconoscono mai al nemico la sua stessa qualità di nemico, che si considerano soltanto come semplici operazioni di polizia condotte sotto l’arbitrato di un mediatore indiscutibile, diventano tanto inespiabili quanto indefinite. Come potrebbero finire, dal momento che non sono mai cominciate? Come aprire delle trattative di pace se non c’è mai stata dichiarazione di guerra? Come mettersi in contatto con l’altro lato di un fosso invalicabile, se non c’è alcun fosso ma un mondo comune già pronto, di cui solo alcuni spiriti irrazionali si ostinano a non riconoscere le leggi necessarie? Con chi negoziare, se non ci sono due parti del conflitto – e d’altronde in realtà non c’è neanche conflitto, nessun conflitto reale, nessun conflitto sulla realtà, solo un malinteso sulle rappresentazioni simboliche, sulle “visioni del mondo”, che possono facilmente coesistere a patto che non pretendano più di aver presa sulla realtà. Nella marcia della civiltà, i Bianchi non hanno mai incontrato altro che lo spettro dell’irrazionale e dell’arcaico. Non si sono mai trovati faccia a faccia con un nemico – come potrebbero pensare alla pace?

Nondimeno, è proprio di pace che ora si tratta. E contrariamente a quanto avvenuto nella storia modernizzatrice, per fare la pace bisogna prima riconoscere che c’è guerra, accettare di aver avuto dei nemici, prendere sul serio la diversità dei mondi, rifiutare la semplice tolleranza, riaprire i due cantieri del globale e del locale [7]. Tuttavia, perché quest’operazione abbia inizio, bisogna subire il più doloroso dei lutti: il mondo comune dev’essere composto progressivamente, non è già costituito. Non si trova dietro di noi e già bell’e fatto, come la natura; ma davanti a noi, come un compito immenso che dovremo realizzare poco a poco. Non è al di sopra di noi, come un mediatore che arbitri i conflitti, ma è la posta stessa di questi conflitti che potrebbe diventare, in caso di negoziazione, oggetto di un compromesso. Il mondo comune is up for grabs [8].

Per gli Occidentali c’è qualcosa di disperante, bisogna riconoscerlo, in questa brutale trasformazione: vivevano in pace e ora eccoli in guerra. Non avevano nemici, amavano tutti, si sentivano cittadini del pianeta, pronti ad accettare tutti gli altri, erano d’accordo sul tollerare le più stravaganti diversità; e bruscamente, nel giro di qualche anno, ecco che devono di nuovo battersi, come gli altri (i quali hanno smesso di essere altri all’antica o alla moderna!), per definire cosa possa voler dire il globale, quale senso dare alla molteplicità. Avevano una soluzione infallibile, disponevano dell’unità della natura e della diversità delle culture ed ecco che, patatrac, è tutto da rifare. Negoziare la sovranità di Gerusalemme potrebbe sembrare il più difficile rompicapo diplomatico – ma negoziare lo statuto e la sovranità della natura?

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Tuttavia, ciò che fa seguito alla modernizzazione ha il vantaggio della chiarezza: la guerra dei mondi c’è, e né l’unità, né la molteplicità si possono ottenere senza composizione progressiva, senza negoziazioni delicate, effettuate da diplomatici, sotto la continua pressione delle forze in conflitto. Nessuno può comporre l’unità del mondo al posto degli altri, facendo come si faceva prima (ai tempi della modernità e poi del postmodernità), e cioè offrendo generosamente un posto agli altri, ma a condizione che lascino fuori dalla porta tutto ciò che hanno a cuore: i loro dei, le loro anime, i loro oggetti, il loro tempo, i loro spazi – in breve, la loro ontologia. La metafisica non arriva più dopo la fisica, ma prima, ci si deve lanciare nella protofisica – orrore senza nome per i modernizzatori e sola speranza per coloro che lottano a un tempo contro la globalizzazione e contro la frammentazione. Rispetto al lieve brivido che poteva procurare il “relativismo culturale”, questo bailamme, questo bazar, questo pandemonio non può che suscitare repulsione e spavento [10]. Ed è proprio per evitarlo che avevamo inventato la modernità. Era per non dover ingoiare tanti mondi, tante ontologie contraddittorie, tante metafisiche conflittuali, che avevamo avuto la saggezza di porle tutte come culture differenti (indifferenti) sullo sfondo di una natura indiscutibile (ma priva di senso).

Nondimeno, proprio questa completa metamorfosi è ora richiesta ai (fin’ora) modernizzatori: che guardino di nuovo negli occhi questo volto di Gorgone dal quale avevano voluto nascondersi. Proprio così: per strano che possa sembrare a prima vista, i moderni, gli Occidentali, i Bianchi (poco importa il nomignolo che si vuole loro affibbiare) devono fare come se stessero di nuovo annodando i primi contatti; come se – per una inaudita seconda possibilità regalata loro dalla storia, o che loro stessi si danno – si trovassero di nuovo nel XVII, nel XVIII, nel XIX, nel XX secolo e questo permettesse loro, nel XXI, di presentarsi bene; proprio loro che, nei secoli precedenti, si erano presentati così male . Accettino infine di avere dei nemici e possano dunque fare offerte di pace. Non è la stessa cosa, non è la stessa missione, non ha la stessa tensione sbarcare presso gli altri popoli mettendo tutto a ferro e fuoco per pacificarli in nome di una pace fondamentale già costituita; o battersi – forse con la stessa violenza, lo stesso fuoco e lo stesso sangue – per decidere sul fronte di battaglia qual è il mondo comune che bisogna progressivamente comporre.

Non si tratta di sostituire dei conquistadores intolleranti con degli esperti di dialogo interculturale. Chi ha parlato di dialogo? Chi chiede tolleranza? No; si tratta di sostituire i conquistatori con dei nemici capaci di riconoscere che hanno di fronte dei nemici; che l’esito della battaglia è incerto; e che, di conseguenza, bisognerà forse negoziare, e duramente. I moderni sapevano da fonte certa che la battaglia era già vinta in partenza, perché non c’era battaglia ma solo l’irrimediabile ascesa del progresso – anche se il ritorno inesplicabile (e come avrebbero potuto spiegarselo?) dell’arcaismo e la montata incomprensibile (e come avrebbero potuto comprenderla?) dell’irrazionale spesso li facevano disperare.

Si passa dal moderno a quel che viene dopo con questo semplice, piccolo atto: sulla composizione del mondo comune c’è battaglia, e l’esito è incerto. Questo è tutto. Basta per cambiare di mondo. Tutti coloro che erigono barricate contro la globalizzazione, coloro che lottano contro la frammentazione e lo sgretolamento, sanno cosa vuol dire una guerra che si rischia di perdere.

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Malgrado l’orrore che può a tutta prima suscitare, sia presso gli uni che presso gli altri, quanti vantaggi per gli antichi moderni in questo cambiamento di congiuntura! Avendo una nuova occasione per presentarsi bene, per battersi, rischiando nuovamente di perdere, possono anche vincere! E questa volta, per davvero. Niente indica, in effetti, che gli Occidentali si troveranno sguarniti nella composizione del mondo comune a venire. Passare dall’arroganza modernizzatrice e civilizzatrice alla derelizione, al sentimento sconvolto della colpevolezza per i crimini commessi, non li porterebbe a nulla e neppure li farebbe perdonare.

Ancora una volta, non si tratta né di dialogo, né di tolleranza, né di colpevolezza, né di perdono, ma di guerra, di negoziati, di diplomazia e di composizioni. Flagellarsi, portando sulle spalle «lo schiacciante fardello dell’uomo bianco», è sempre definire per sé soli e a nome di tutti, senza che gli altri abbiano delegato nulla, il compito impossibile di definire il mondo comune. Così come non era richiesto ai moderni di prendersi per pacificatori universali, non è loro richiesto oggi di prendersi per colpevoli universali. Si esige da loro una sola cosa: che smettano di assumere l’universale come loro territorio proprio e che accettino di negoziare dopo che la battaglia ha avuto luogo. Che siano infine degni dell’iniziativa prodigiosa (poco importano, ora, le ragioni), che essi stessi hanno preso, di entrare in contatto – attraverso la violenza, il commercio, la conquista, l’evangelizzazione, la conoscenza e l’amministrazione – con tutti gli altri.

Tutti i popoli si trovano ora impegnati in quest’altra guerra mondiale, fondamentale, metafisica, sulla composizione del mondo; e proprio adesso che il lavoro sta per cominciare, non è più il momento di cospargersi il capo di cenere e di restare a grattarsi i brufoli. In piedi, moderni! Tocca a voi difendere il vostro posto al sole. Certo, non beneficiate più della strategia che vi assicurava di vincere la posta a ogni lancio, ma neanche c’è ragione che perdiate la posta a ogni lancio. Dopo tutto, la ragione non è così debole da non poter vincere. Semplicemente, ha passato un po’ troppo tempo senza battersi, in assenza di nemici riconosciuti come tali… ha messo su pancia, si è abituata alle delizie del naturalismo e delle sue comodità – alle sue lussurie, diciamo pure.

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La formulazione di offerte di pace da parte degli ex-moderni potrebbe fondarsi sulla distinzione fra jus naturalismo e costruttivismo. Sebbene il termine “legge naturale” sia usato soprattutto nella teoria del diritto, conviene a meraviglia per definire l’insieme della soluzione moderna, posto che si estenda la nozione di regola fino a includervi le leggi fisiche: esiste una natura le cui leggi necessarie permettono di giudicare la diversità delle arbitrarietà culturali. Ma il giusnaturalismo non è la sola tradizione dei moderni: ne hanno anche un’altra, che è praticamente il rovescio di questa e che si può chiamare costruttivista. La differenza tra le due tradizioni, in ciò che attiene alla ripresa dei negoziati su nuove basi, sta in questo: contrariamente alle credenze finora accettate dai modernizzatori, la natura non è generalizzabile, mentre il costruttivismo potrebbe essere condiviso. Per definizione, non ci si può intendere sopra una natura fatta per impedire l’accordo progressivo sulla composizione del mondo comune. Per contro, che gli dèi, le persone, gli oggetti, i mondi siano “costruiti” e, cioè, che possano fallire (la nozione di costruzione non dice nient’altro) – ecco forse un modo per riaprire i negoziati di pace.

Senz’altro il termine “costruzione” sembra a prima vista poco allettante, perché soffre nella modernità di un difetto maggiore: lo si associa a costruzione sociale e al vocabolario critico. Se si dice che la natura “è costruita”, che Dio dev’essere “prodotto”, che la persona dev’essere “fabbricata”, subito si suppone che si voglia attaccare, minare, denigrare, criticare la loro supposta solidità: «Quindi,» – ecco la protesta indignata – «né la natura, né le divinità, né le persone esisterebbero “veramente”? Sarebbero delle “pure” fabbricazioni, dei “semplici” costrutti sociali?». Ma si può supporre che gli ex-moderni saranno i soli a fare questa obiezione: per gli altri (gli ex-antichi “altri”), costruzione fa rima con produzione, veridizione, qualificazione (Latour 1996).

Mentre il giusnaturalismo oppone a sé un opposto (ciò che è artificiale, umano, soggettivo, positivo, fabbricato) il costruttivismo, se si accetta di intenderlo in questo senso negoziale, non avrebbe opposti. Mentre il concetto di natura implica degli antonimi, la nozione di costruzione potrebbe servire come lingua franca per cominciare a capirsi: «Almeno siamo sicuri di una cosa – così si potrebbe dire dai due lati del tavolo (se di tavolo si tratta) – ed è che i vostri dèi così come i nostri, i vostri mondi così come i nostri, le vostre scienze così come le nostre, i vostri soggetti così come i nostri, sono costruiti». La questione successiva diviene la sola interessante: «Come li fabbricate voi?», e soprattutto, «Come verificate che siano ben costruiti?». La buona costruzione: ecco su cosa si potrebbe cominciare a trattare (Nathan e Lewertowski 1998).

È a questa svolta delle trattative che i (finora) moderni potrebbero fare appello alle risorse loro proprie, dimenticate o dissimulate dalla modernità e dalle sue pretese. Per definizione, in effetti, i moderni si sentono a disagio sotto il mantello d’accatto della modernizzazione. Se questa non può render conto degli altri perché li obbliga a un’alterità troppo forte, come potrebbe rendere conto degli Occidentali? I Bianchi non sono mai stati moderni, neanche loro. Se è ingiusto dipingere i civilizzati come degli irrazionali o degli arcaici in cammino verso un solo mondo, è ancora più ingiusto dipingere i civilizzatori come razionali e moderni. Si tratterebbe, per l’esattezza, di una forma rovesciata di esotismo (Said 1979).

Bisogna quindi intendere “modernità” nel senso della parola “orientalismo”: un equivalente, per lo sguardo che si poggia sugli Europei o gli Americani, di quello che essi stessi poggiano sulle altre culture a colpi di palmeti tropicali, harem orientali e selvaggi dai corpi impiastrati. Detto altrimenti, finché prendiamo i moderni per quello che essi dicono di essere, pratichiamo nei loro confronti lo stesso esotismo da paccottiglia che troviamo odioso quando, nelle brochure turistiche, è applicato ad altri popoli. Nessun negoziato di pace è possibile senza l’abbandono, da entrambi i lati, dell’esotismo e della sua perversa compiacenza per le false differenze; né d’altronde è possibile diplomazia senza sospendere la definizione di ciò che è, o non è, una differenza – perché se il diplomatico riesce a volte nella sua impresa, è proprio perché modifica, in corso di negoziazione, la definizione dei soggetti della contesa.

A questo titolo, gli ex-moderni sono forse migliori di quanto essi stessi pensino; e possono fornire più risposte alle questioni di buona costruzione di quando se ne andavano in giro in veste di civilizzatori universali. Perché non cercare di farli tornare al tavolo delle trattative – questa volta educatamente, però, e offrendo agli altri la loro faccia costruttivista? Che si tratti di scienza, di religione, di psicologia o di politica, gli ex-moderni hanno sempre un asso nella manica. Se finora sono sembrati così maldestri nelle offerte di pace, è perché non pensavano affatto che vi fosse guerra e la modernizzazione pareva loro un’evidenza non suscettibile di compromesso. In seguito, quando hanno cominciato a dubitarne e sono diventati postmoderni, la loro goffaggine è aumentata ancora, perché hanno sostituito l’arroganza col senso di colpa, continuando peraltro a negoziare tanto poco quanto prima. Adesso conviene aiutarli, portarli con tatto al tavolo dei negoziati, facendo in modo che riconoscano che c’è proprio una guerra dei mondi, e separando con delicatezza ciò per cui sono pronti a morire (l’universale) da ciò a cui tengono veramente (la costruzione dell’universale). Come sempre, le parti in lotta non sanno esattamente perché si combattono. È compito del diplomatico aiutarle – e certamente la sua offerta di mediazione, così come la mia, può fallire.

* NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA. Bruno Latour (1947), filosofo e antropologo, è una delle voci più influenti per l’area che questo libro esplora. A lungo docente all’École des Mines, è ora professore presso l’Institut d”études politiques (IEP) di Parigi. Dopo Laboratory life (Latour e Woolgar 1979), uno dei testi fondativi della sociologia della scienza, ha prodotto una serie di opere che indagano la storia e l’antropologia della scienza, e le conseguenze degli studi scientifici su diversi temi che, tradizionalmente, erano trattati dalle scienze sociali (Latour 1989, 1996a, 2002, 2010), nonché il fondamentale e citatissimo Non siamo mai stati moderni (Latour 1991; per un tema antropologico fondamentale si veda anche Latour 2000). Sul suo sito ([url”www.bruno-latour.fr”]www.bruno-latour.fr[/url]) sono disponibili articoli, interviste e una biografia dettagliata. L’articolo che qui pubblichiamo è stato scritto negli anni della collaborazione con Isabelle Stengers (Stengers 1994, 2002, 2006) e col Centre Devereux di Parigi (Nathan e Stengers 1995). Questo è il riferimento originale: Latour B., 2000. Guerre des mondes–offres de paix. In «Ethnopsy. Les mondes contemporains de la guérison», numéro spécial, Colloque de Cerisy, Guerre et paix des cultures : 61-80. La traduzione è di Stefania Consigliere.

Note

[1] Su queste questioni del rapporto natura/cultura, v. Latour 1991, Descola e Palsson 1996.

[2] È il senso della disputa appassionante sul capitano Cook riportata in Sahlins (1995).

[3] Espressione recente utilizzata in occasione del defunto “affare Sokal”; si veda Jurdant 1998.

[4] Provocatoria espressione di Isabelle Stengers (Stengers 1997).

[5] Gioco di parole estremamente efficace, ma intraducibile in italiano. Il verbo francese policer significa “civilizzare, incivilire”, ma suona anche come “far da poliziotto”. “Portare la civiltà” agli altri ha quindi significato “essere i poliziotti” degli altri.

[6] Dal nome di Woodrow Wilson, presidente degli USA dal 1912 al 1919. Contro il tradizionale non-interventismo della politica estera degli Stati Uniti, l’idealismo wilsoniano prevede che la pace mondiale sarà raggiunta tramite interventi mirati a sostenere gli stati nazionali e a espandere su tutto il pianeta la democrazia e il capitalismo.

[7] L’aspetto interessante della tesi di S. P. Huntington (1996) è di accettare la nozione di conflitto. Il suo errore è, evidentemente, il culturalismo, che prende come evidenza indiscutibile e che gli impedisce di riconoscere le vere linee di fronte, che non tagliano in alcun modo i bizzarri aggregati che egli designa.

[8] In inglese nel testo. Significa “pronto per essere preso, libero per chi si fa avanti”.

[9] Come si è visto bene in occasione della «guerra delle scienze»; v. Latour 1999.

[10] Su questa nozione di “presentazione” v. Stengers 1996.

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