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Svuotare il capitalismo, non capovolgerlo

Un’alternativa al capitalismo globale non potrà nascere e prendere campo senza un profondo cambiamento collettivo sul terreno dei valori, delle emozioni e dell’apertura al sacro.

Svuotare il capitalismo, non capovolgerlo
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27 Aprile 2015 - 20.45


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di
Paolo Bartolini


Interrogarsi sul capitalismo, oggi e sempre di più, significa
cercare la via di una critica radicale che sappia sfuggire a segrete e
inconfessabili complicità tra dominanti e dominati. Da anni, volendo andare in
questa direzione, coltivo l’interesse per il mondo della spiritualità e per quello delle psicologie del profondo. Questa attenzione mi deriva dalla
consapevolezza che un’alternativa al capitalismo globale non potrà nascere e
prendere campo senza un profondo cambiamento
collettivo
che attecchisca sul terreno dei valori, delle emozioni e
dell’apertura al sacro.

Un
testo del 2014 di Bruno Latour, presto
edito anche in Italia e per ora leggibile
in inglese sul sito del filosofo
, offre alcuni spunti
veramente preziosi per ripensare il nostro essere umani al tempo del conflitto
fra Capitale e Gaia. Nel suo “On some of the affects of capitalism” l’autore
francese si sofferma su almeno due grandi aspetti del capitalismo, fra loro
intrecciati.

Il
primo riguarda la tendenza degli interessi capitalistici a elevarsi a sistema, il secondo si riferisce agli affetti generati nelle persone da
questa specifica organizzazione dei rapporti produttivi e sociali. Vediamo, in
estrema sintesi, di chiarire la natura della duplice questione. Da un lato l’espansione
inarrestabile dei mercati e della relativa logica del profitto, supportata
dall’azione congiunta delle discipline economiche, ha portato il processo di
modernizzazione a un livello di quasi assoluta trascendenza. Per questo,
secondo Latour, Frederick Jameson ha potuto affermare che: “Oggigiorno sembra più facile immaginare la
fine del mondo che quella del capitalismo!
”.

Il
paradosso che abbiamo di fronte agli occhi è quello di una cultura economicista
che diventa intoccabile, immodificabile, eterna, mentre il mondo “naturale” si
scopre precario, messo a rischio e tutt’altro che immortale (basti pensare alle
recenti ecatombe di specie animali e vegetali dovute all’uomo, nonché ai
cambiamenti climatici e ai numerosi segnali di fragilità dei nostri
ecosistemi).

Purtroppo
il capitalismo si crede infinito (presunzione che poggia, innanzitutto, sul
ciclo perpetuo e autorigenerantesi di “Denaro-Merce-Denaro”
e sulla religione quotidiana inscritta nel feticismo della merce descritto da
Karl Marx) e riesce a imporre la sua trascendenza posticcia agli umani che
abitano le lande desolate dell’ipermodernità.

Il
risultato è quello di una realtà appercepita come sistema totale, capace di
ingannare e imbrigliare persino i suoi oppositori più estremi. Quest’ultimi,
soprattutto nel secolo scorso, hanno scontato la pretesa folle di voler
capovolgere il sistema in quanto tale; eppure la pretesa di sovvertire nella
sua interezza un’organizzazione che si propone per definizione come totale e
a-storica (nonostante l’idolatria del progresso che la caratterizza) non poteva
che naufragare.

Dice
bene Latour, parlando degli esiti rovinosi delle rivoluzioni novecentesche,
che: “In cerca della rivoluzione totale, solo l’aggettivo “totale” è rimasto, nel senso
di un totale abbandono sperimentato da parte dei perdenti e un ancora più
totale totalitarismo da parte dei vincitori
”.

Il
risultato, tuttavia, non stupisce il filosofo, che avverte: “Rovesciare il capitalismo non sembra essere
una buona soluzione. Sembra che il capitalismo gioisca del fatto di essere capovolto
fin tanto che viene attaccato come un sistema totale che deve essere sovvertito
”.
Il solito cane, insomma, che morde la propria coda quando invece dovrebbe
addentare i polpacci del suo padrone-carceriere.

Questa
trascendenza/assolutezza del capitalismo,
a cui ormai crederebbe una vasta parte dell’umanità (non tutta, per fortuna), si
àncora nella vita delle persone generando affetti ben precisi: un prodigioso
entusiasmo alla sola idea di arraffare le numerose opportunità offerte dal
mercato; un senso di radicale sconfitta e di inaiutabilità da parte di
chi si trova privo di denaro, di diritti e di rappresentanza politica; una
completa disinibizione rispetto alle conseguenze di lungo termine che possono
prodursi come effetto della ricerca di profitto in ogni ambito dell’esistenza;
un compiaciuto e perverso senso di superiorità in coloro che, pur avendo
fallito clamorosamente nel capovolgimento del sistema, continuano a non
imparare dall’esperienza e si chiudono nella fortezza vuota delle loro idee astratte;
una fascinazione per le presunte leggi ferree dell’economia (equiparate
volutamente, dal clan degli economisti neoliberisti, a indiscutibili “leggi di
natura”); una totale indifferenza per il terreno su cui poggiano le radici del
capitalismo stesso (dunque indifferenza per i limiti bio-fisici del pianeta e
per i delicati equilibri degli ecosistemi).

Per
ravvivare la critica al capitalismo, senza cedere alla falsa soluzione di un
capovolgimento totale e impossibile del sistema, ci pare utile l’intento di
raccogliere forze materiali e simboliche
provenienti dai gruppi umani che incarnano quotidianamente un diverso rapporto tra trascendenza e
immanenza
.

Il
capitalismo, ormai giunto alla sua fase di massima insostenibilità sociale e
ambientale, in fondo opera in qualità di religione
secolare
, esercita il suo potere
numinoso
(di terrore e fascinazione, come abbiamo appena visto) sugli
esseri umani, impone ai cuori e alle menti la certezza della sua
insuperabilità.

Ma,
come ricorda ancora il filosofo francese, “una
forma di vita che non può pensare la propria fine – tanto nello spazio quanto
nel tempo – non merita più rispetto di un uomo che non si consideri mortale
”.
Non rispettare più il capitalismo (nel senso di non riconoscergli un’autorità
oggettiva e indiscutibile), non lasciare che la sua cattiva infinità si
sostituisca a una feconda alternanza tra sacro e profano, sono i primi gesti da
adottare per attenuare gli affetti che esso suscita in noi e nelle nuove
generazioni.

Le
grandi religioni e i cammini sapienziali dell’umanità, una volta purificati
dall’ipoteca “sacerdotale” che spesso li ottunde, mettono in moto sentimenti e utopie che testimoniano di
una trascendenza invocata fino al punto di incarnarsi nell’immanenza del vivere
e nei limiti di un destino mortale. Di questi immensi serbatoi di simboli, fede
e immaginazione creativa noi abbiamo ancora un profondo bisogno. La loro
qualità, la loro autenticità, la loro verità, d’ora in avanti, si misureranno
essenzialmente sul metro della pace,
della giustizia e dell’alternativa reale a un capitalismo che, pur essendo interamente storico e
umano, si vuole infinito e immodificabile. 

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