‘(a cura) di Marco Dotti
Una lunga conversazione tra Marco Dotti e Alberto Abruzzese, professore emerito di Sociologia, alungo docente all”Università di Roma “La Sapienza” e allo Iulm. Uno sguardo critico a tutto campo
sulla società che cambia, tra civilizzazione e nuove barbarie, e sull”immagine di se stessa che la
civiltà occidentale tenta di ricostruire (o definitivamente distruggere?), per ristabilire la
propria autenticità e le proprie prerogative, di fronte alla complessità del presente globalizzato
che ne minaccia le fondamenta culturali, politiche e religiose.
Ringraziamo Marco Dotti per la sua disponibilità a concederci la pubblicazione del testo.
L”articolo è uscito su [b][url”Vita”]http://www.vita.it/[/url][/b], il 30 settembre scorso. I temi affrontati qui sono all”origine anche
dell”ultimo libro di Alberto Abruzzese, [url”Punto Zero. Il crepuscolo dei barbari”]http://mediaevo.com/punto-zero-%C2%B7-alberto-abruzzese/[/url], (Luca Sossella
editore, 2015). Buona lettura. (pfdi)
[center]***[/center]
[center]Nel nome del barbaro, del padre e del figlio[/size=4][/center]
D – Nel tuo [i]Punto zero[/i], tu lavori su molte faglie critiche, ma una di queste è proprio il nessociviltà -barbarie all”interno di quella che potremmo chiamare semiosfera. Il barbaro è una creazione
della civiltà , non solo in senso semiotico, ma reale, scriveva Lotman. Dopo un lungo esilio, il
barbaro – la sua immagine, la sua ombra – è tornato a affollare il nostro spazio reale e il nostro,
non meno reale, immaginario. Il barbaro come una “massa semiotica” estranea, non solo “straniera”,
alla civiltà sembra irrompere da tutti i confini: scuola, casa, frontiere, Europa, altra Europa,
non Europa, facebook, etc. Tu però parli di un crepuscolo dei barbari, di una fine corsa del
barbaro. Come mai? Potremmo delineare una fisionomia del barbaro in questo punto zero del suo
percorso?
Barbaro è detto il balbuziente, colui che non dispone pienamente o addirittura non dispone del
tutto delle facoltà di linguaggio del civilizzato in quanto individuo pienamente umano e cioè
pienamente in possesso delle qualità che, secondo questo paradigma, renderebbero l’umano differente
dall’animale e da ogni altra cosa vivente sulla terra.
Il “noi†occidentale che pronuncia la propria distanza dal barbaro – e si allarma quando lo veda
riemergere dall’ombra in cui è stato rimosso o relegato o soppresso – è dunque il frutto di una
progressiva distanza tra il soggetto politico del mondo e coloro che lo abitano: il terzo assente
dalle declinazioni sociali della prima e seconda persona. Hai ragione, Lotman è maestro riguardo
alle questioni che ho cercato di affrontare nel mio saggio procedendo un poco in modo random.
Ragionare sul barbaro – come è percepito e come entra in gioco nello spazio e nel tempo delle
civiltà umane – ci aiuta a ripensare la natura dei conflitti, anche se è difficile quanto inseguire
la pallina in una partita di ping pong. Lo scambio tra barbaro e civilizzato è istantaneo. L’uno
rimanda immediatamente all’altro.
Al barbaro è imputata la colpa di non essere un soggetto civilizzato ma in un certo senso questi
proietta nel barbaro la paura che egli ha di tornare ad essere barbaro. Il barbaro è all’insegna
dell’esclusione; è un confinato; viene nominato tale in quanto porta in se stesso la colpa di non
essere civilizzato; le sue azioni sono colpevoli a fronte delle azioni di quanti si ritengono
innocenti (individui che non nuocciono, non fanno danno) e dunque superiori d’elezione e di diritto
nell’agire e nel governare il mondo.
Nel barbaro, i civilizzati vedono il rischio che, per la sopravvivenza della propria doppia
identità di civilizzati e civilizzatori, rappresenta la sua naturale “invadenzaâ€: la sua necessitÃ
vitale di invadere l’altro, persona o territorio che sia. In comune al barbaro e al civilizzato c’è
dunque la paura che qualcosa di se stessi manchi o venga a mancare. Tanto per il barbaro quanto per
il civilizzato le invasioni sono mosse dal desiderio di invadere per non essere invasi.
Nel dirsi civilizzatore il civilizzato si prepara a farsi barbaro. Il barbaro non si nomina tale,
se lo fa è già un civilizzato e un civilizzatore potenziale: se riconosce nella propria persona un
soggetto di barbarie, lo fa trasformando la propria condizione di sopravvivenza in tecnica, in
violenza, e dunque riconoscendosi soggetto in conflitto con l’altro che sente resistergli e
attaccarlo con eguale violenza.
Il barbaro agisce nel nome e insieme contro il nome di chi lo nomina. Scatta, nel dire qualcuno
barbaro o civile (civilizzato e civilizzatore), un impulso a dominare l’altro. Questo impulso umano
ad esercitare potenza sul mondo dipende dal vivere in-divisibile tra civiltà e barbarie. L’una
inestricabile dall’altra.
Ripeto: l’idea di barbaro dipende in tutto dall’idea di civilizzato e questa dall’idea di barbaro:
sono – una in due e due in una – la cultura fondativa del progresso. Del potere in quanto strategia
di sopraffazione del proprio nemico. Paradossalmente, della sua stessa necessità . Al fine di
impedire che venga oltrepassato il punto di equilibrio tra barbarie e civiltà , il civilizzatore –
soggetto di tale equilibrio, o meglio di tale finzione di equilibrio – è disposto ad adottare la
stessa violenza imputata al barbaro, è deciso a dichiararsi soggetto depurato di ogni ambivalenza e
doppiezza, unica e ultima possibile garanzia di sopravvivenza del potere in quanto civilizzazione,
volontà sovrana sul mondo: “al di là del bene e del maleâ€. La vicenda novecentesca del nazismo sta
a dimostrarlo.
Il presente della globalizzazione sembra annunciarlo. Misurati sul dritto e rovescio dei canoni
dello sviluppo “civile†del mondo, a produrre ora le fluttuanti linee di confine tra civiltà e
barbarie sono modelli, canoni, di vita culturale, religiosa, sociale, etica ed economica, per
quanto quest’ultima abbia sempre più una sua particolare e terribile forza invasiva su tutti gli
altri modelli e ne sia sempre più il regista, il burattinaio.
Questo è il nostro finale d’epoca, il “momento critico†di relitti e derelitti del tempo e dello
spazio della civilizzazione che invadono, accerchiano e penetrano al proprio interno e al loro
esterno: sono percepiti come barbari tanto da chi è disposto o crede di essere disposto a
includerli, magari per farli fruttare nel corpo esangue della civiltà occidentale, quanto da chi li
esclude credendosi ultima barriera di difesa dei vecchi regimi della modernità .
È il “momento†di profondi rigurgiti di una civilizzazione che precipita nelle forme di
imbarbarimento di cui si è sempre immaginata – e ha preteso di farsi immaginare – esente. Di
generazioni che hanno voluto e dovuto convincere e convincersi di una natura umana buona e
compassionevole, misericordiosa, a fronte dei soprusi della società , del capitalismo e
dell’economia. E di altre generazioni in cui la civiltà delle nazioni e popoli garantiti dalla
storia dei vincitori è ancora una terra da raggiungere, un futuro da costruire, un destino da
condividere. O di imperi nascenti in nome di altri dei e dunque di altri costumi e valori. Di altra
violenza.
Ogni distinzione tra barbaro e civilizzato sarà sempre meno “chiaraâ€. Questa è l’ombra emersa sul
mondo attuale: la rivelazione della tragedia incarnata nella commedia umana di una tale “ingiustaâ€
– ingiustamente “naturale†– distinzione. In Punto zero ho parlato di “crepuscolo dei barbariâ€
proprio in questo senso: nella con-fusione non più distinguibile del crepuscolo – l’intervallo tra
il prima del sorgere del Sole e il dopo del suo tramonto – il tempo della dialettica trascolora.
Sprofonda. Si perde.
[center]Immaginarsi zombie[/size=4][/center]
D – Walter Benjamin scriveva – e, non a caso, lo scriveva in una delle sue famose, ma forse pocoascoltate Tesi sulla storia – che non esiste documento di civiltà che non sia, al contempo, un
documento di barbarie. A me pare che questa affermazione di Benjamin, disarmante proprio perché di
una lucidità acuminata, non sia stata portata alle sue estreme conseguenze, cosa che invece
Benjamin ci invitava a fare (colgo l’appello in quel suo grido “non lasceranno in pace nemmeno i
mortiâ€). Tu invece ne fai un punto chiave, per ridefinire questo rapporto civiltà -barbarie sulla
base di un terzo spesso escluso dal discorso: il documento. “Non c”è documento…” dice Benjamin. E
proprio sul documento le buone intenzioni di molti vanno a cozzare – penso alle recenti polemiche
di Eco che, se non vogliamo ridurre a una Lina Sotis della semiotica, dobbiamo ritenere si
rivolgesse moralisticamente alla produzione barbara, più che al bon ton di qualche scalmanato su
facebook. Il barbaro interno – il “giovane†o l’uomo perso nel suo “universo liquido†– erode la
società del “documento”, la società letteraria, il circolo insomma… Tu sei tra i pochi che va
oltre questa dimensione nostalgico difensiva, rispetto alla mole di produzione barbara…
È la stessa soggettività della civilizzazione come atto di necessario sterminio di ciò che le
resiste a perpetrare il proprio crimine su se stessa in quanto forza legiferatrice, ordinatrice di
colpe e di pene. Per sopravvivere a se stessa è obbligata a divorare se stessa (a partire a questa
sua natura, sarebbe bene riflettere con minore retorica sul principio di “responsabilità †del
quale, pur con ogni buona intenzione, si tende a fare così grande uso).
Benjamin è maestro in veggenza nel suo stesso conferire uno straordinario fascino alle meraviglie
del progresso, fascino proporzionato alle rovine che esso si lascia alle spalle. “Non lasceranno in
pace nemmeno i mortiâ€. Questa frase è illuminante. Appunto preveggente.
L’immaginario dell’industria culturale di massa è sempre stato dotato di una eccezionale forza
rivelatrice. A parte l’insistenza con cui è andato sviluppando la simulazione di scenari
catastrofici sempre più ravvicinati nel tempo – mondi in cui la differenza tra “case del potere e
della bellezza†e “case della desolazione†si compenetrano in una stessa barbarie di sudditi e
sovrani, di piacere e sofferenza – è caduta non solo ogni linea di confine tra razionalitÃ
strumentale dei moderni e follia, caos, ma è caduto anche ogni confine naturale tra la vita e la
morte.
Lampante la frequenza con cui è trattato il tema dello zombie. Per una ragione in particolare: il
fatto che se ne parli al plurale, dicendo “gli†zombie invece che “lo†zombie. Significa che c’è
nell’immaginario una pulsione a ricostruire come società le rovine stesse della sua vita passata,
estinta: a dare un futuro di “individui†e dunque una dialettica del potere e del conflitto – ai
morti che “ritornano†dalla qualità indistinta e muta della morte, dal mondo senza più linguaggio
ma purtuttavia vivente del “fangoâ€.
[center]Oltre i codici alfabetici[/center][/size=4]
Credo che sia da guardare con massima attenzione ai motivi per cui la fiction operata da linguaggi
non-alfabetici, “analfabetiâ€, sta riuscendo a trattare pubblicamente, di continuo e su vasta scala,
rappresentazioni del mondo così rivelatrici (appunto apocalittiche). Così sociologicamente e
filosoficamente pregnanti. Per quanto sia la scrittura (romanzi e sceneggiature) a fornire di
contenuti le immagini dell’industria di massa, la potenza delle immagini – tanto più
fantasmagoriche quanto più numeriche – va operando in una direzione che le modalità espressive del
sapere scritto e letto non possono più eguagliare.
È nelle forme di produzione, fruizione e riproduzione dell’immaginario che sta accadendo qualcosa
di fondamentale: di cosa sia e stia diventando il mondo, di come si percepisca il nostro presente e
il nostro futuro, si parla saltando e “tagliando†tutte le complesse operazioni che appesantiscono
il discorso scientifico, storico, sociologico, filosofico affidato alla scrittura e alle tradizioni
del libro.
Si tratta in sintesi di piattaforme espressive che trasmettono la propria verità in quanto veritÃ
del desiderio. È il desiderio a consumarne le immagini in modi che si avvicinano alla natura
indecifrabile, subliminale, del sacro, lasciandosi alle spalle i vincoli religiosi e sociali che lo
hanno oscurato.
Di fronte a questa svolta sempre più evidente, i modelli di sapere istituzionali – scambiando il
problema del sapere umanistico con il conflitto tra scienze dure e scienze umane – rivendicano la
necessità che le forme di produzione e consumo del “significato emotivo†del mondo che abitiamo
recuperino le qualità razionali dei linguaggi tradizionali.
Al contrario bisognerebbe convincersi dell’urgenza di procedere in direzione opposta, rovesciata: a
dovere riuscire a semplificare i propri apparati in modo da rispondere direttamente alla
complessità in cui siamo immersi e in cui si è chiamati ad agire, sono proprio le piattaforme
espressive della scrittura e delle conoscenze di cui essa è strumento (non di rado, anche il solo
fine).
La scrittura sapienziale s’è accumulata, aggrovigliata sino ad essere inestricabile, sino a dovere
ricominciare sempre di nuovo dal principio, oppure sino a divulgare questa sua stessa sconfitta –
paradosso di una civilizzazione fondata sulla promessa e certezza di felicità – in una testualitÃ
sempre più semplificata. Inutilmente e dannosamente semplificata persino a fronte dei suoi meri
fini utilitaristi. Infatti, l’opposizione tra cultura alta e divulgazione non può funzionare
nell’immaginario catastrofico contemporaneo in quanto esso è indifferente alle tradizionali
gerarchie tra sapienti e ignoranti.
Semmai, l’intensità emotiva, psicosomatica, dell’immaginario di consumo è una forma di critica, di
decostruzione istintiva e rituale, che tende a scardinare l’individuo dalla corazza del proprio
ruolo sociale ricomponendo la “persona†che tali gerarchie hanno storicamente e socialmente diviso
in padroni e servitori. Dalle rispettive opposizioni tra educazione scientifica e divulgazione si
dovrebbe passare ad una mossa congiunta tra processi dis-educativi e processi de-vulgativi.
[center]La mossa del cavallo[/center][/size=4]
D – Società liquida, affetti liquidi, relazioni accelerate. Il medium è il messaggio, dicevaMcLuhan, ma tu giustamente commenti che oggi il medium è un acceleratore di relazioni. Dobbiamo
averne paura? Mi pare tu la prenda come una strategia, una possibile strategia del soggetto, una
“mossa del cavalloâ€, un rischio estremo ma forse anche un pericolo che salva, per “rinascere a
nuova vita  Ci spieghi questo passaggio?
Dato il brevissimo intervallo di tempo che divide la vita di Benjamin da quella di McLuhan (pur
così diverso par varie buone e cattive ragioni), ho sempre pensato che quest’ultimo sia stato in
certa misura la reincarnazione del primo. Sicuramente per il metodo e per la spregiudicatezza,
l’azzardo, e a volte persino il carattere enigmatico che faceva del loro discorso una sorta di
“approssimazioneâ€: un sapere approssimativo nel senso di avvicinamento al nodo reale della realtà .
Un invito a pensare molto oltre e molto lateralmente alla propria scrittura, pur così assertiva,
fulminante. Per quanto siano altri gli autori che si citano a tale proposito, Benjamin e McLuhan
sono stati eccelsi mediologi della “vita quotidianaâ€, con uno scarto – nel loro rispettivo
orientamento della ricerca – che richiama quello tra Edgar Morin e Michel De Certeau.
Del significato che assume la velocizzazione del mondo ad opera del rapporto tra desiderio e
tecnologia, ha parlato il libro di Alessandro Baricco (I barbari. Saggio sulla mutazione, 2013), al
quale nel mio Punto zero ho dedicato varie pagine perché, pur costituendo uno dei migliori recenti
contributi sull’argomento, è paradigmatico per il suo modo di vedere nel barbaro le qualità del
civilizzatore ma senza definire una adeguata distanza critica dal civilizzato.
La “mossa del cavallo†è il gesto necessario ad ogni mutazione. L’andare lateralmente per andare
dritto. La ferita che tocca infliggere e infliggersi per progredire nella propria “vocazioneâ€.
Leggendo Benjamin e McLuhan ci viene fatto capire che la velocizzazione della vita quotidiana ad
opera della soggettività tecnologica dei moderni mette in gioco il barbaro in quanto discontinuitÃ
del civilizzato: il dispositivo ha funzionato per le avanguardie storiche e queste hanno funzionato
per l’industria culturale di massa. E ora?
D – Bisogna avere paura della velocizzazione?È più facile rispondere rovesciando la domanda: è la paura del soggetto moderno di perdere il
controllo sulla vita quotidiana – su una vita quotidiana che sembra liquefarsi tra le sue mani – a
farlo precipitare verso il proprio destino per mezzo di una eccezionale accelerazione delle sue
stesse forme espressive? A questa domanda credo che si debba rispondere affermativamente. E
includerei nella paura del soggetto moderno le paure delle singole persone che lo abitano: la paura
quotidiana di perdere terreno o di essere invase riguardo alle piccole cose della vita pubblica e
privata, familiare e istituzionale, interiore e esteriore.
Tutte le retoriche con cui letteratura e filosofia hanno affermato l’ideologia della “lentezzaâ€
sono falsa coscienza, e come accade per ogni eccesso di falsa coscienza, non fanno che accelerare
ciò che vorrebbero frenare. Non fanno che andare all’origine della voragine temporale
dell’identità . Sta qui – sul tempo dei mutamenti, sulla implicazione che essi hanno in campo
politico – la questione che attraversa il dibattito presente tra chi vede nell’avvento delle reti
l’imbarbarimento della società oppure la liberazione dai suoi vincoli, la rivoluzione dei suoi
valori: la Civilizzazione “vera†in virtù del suo “giusto mezzoâ€.
Credo che a tale proposito sia necessario convincersi che i giudizi sulla natura positiva o
negativa degli effetti delle reti siano misurati sull’idea – tipicamente moderna, progressista e
civilizzatrice – di rivoluzione (azione politica tanto radicale da permettersi, grazie allo stato
di necessità che la ispira, persino la revoca e sospensione delle sue qualità più umane e
umanitarie): mutamenti dall’oggi al domani, da uno stato di diritto ad un altro.
Da una condizione di vita a un’altra, Idea, questa, peraltro alimentata dai ritmi dello sviluppo
industriale a fronte delle epoche precedenti, oggettivamente assai distante dalla specifica qualitÃ
delle mutazioni antropologiche che caratterizzano l’abitare in rete: mutazioni che, in qualità se
non in durata, richiamano invece i transiti plurimillenari dal regime dei raccoglitori al regime
del culture stanziali. E via procedendo.
[center]La carne del reale[/center][/size=4]
D – La prima parte del libro è dedicata al rapporto col dolore, la carne, il corpo, il “soggetto…Scrivi che “quello dei diritti civili è un campo dove è la sofferenza degli altri a fare da
concimeâ€. Non era il campo della civiltà , dell’alterità finalmente incontrata, quello dei diritti
civili? Lo stesso dicasi per gli universali: se gli universali funzionano sempre meno,
l’universalismo ne fa le veci… In sostanza, una società di simulacri non poteva che trasformare il
diritto in simulacro. In questo senso, nessuno sembra aver colto il passaggio e le differenze tra
alterità e diversità …
L’alterità non muta la sostanza, è la diversità a metterla in discussione. Una distinzione
fondamentale è proprio quella tra il corpo, fisico e sociale, di un individuo e la carne che lo
attraversa dell’interno all’esterno e viceversa: ci sono pagine di Roberto Esposito che mi hanno
aiutato a comprendere meglio il significato di questa distinzione e a ritrovarla già pienamente
realizzata in McLuhan, in cui la carne costituisce anche le rete di relazioni digitali in cui il
corpo è immerso, spingendosi bel oltre la propria pelle.
La frase (più una sentenza e dunque brusca) “quello dei diritti civili è un campo dove è la
sofferenza degli altri a fare da concime†vuole dire che i diritti procedono a prezzo di altri
diritti: nasce proprio dalla scarsa mia convinzione sulle retoriche – apparentemente post-moderne e
anti-moderne – sull’altro, scritto con a piccola o maiuscola che sia.
Ogni gioco sull’alterità che ci resiste o che tentiamo di negare, per quanto sia il frutto di una
nobile e forse “utile†letteratura, a me sembra perfettamente organica al soggetto moderno, al suo
progetto. Le analisi simmeliane e benjaminiane sulla metropoli e sullo “straniero†– il quale
arriva ad abitare la città dall’esterno delle sue mura di cinta, là dove s’apre lo spazio di
foreste, deserti, belve e disordine, diventando proprio grazie alla sua alterità soggetto
propulsore della civiltà urbana – mi sembra bastino a cogliere i travestimenti ideologici che il
soggetto moderno è stato capace di realizzare proprio in virtù, per mezzo, di tutto ciò che gli si
oppone.
D – Ex Oriente lux, ex Occidente luxsus – ha detto, recentemente, Bergoglio, citando Stanislav Lec,che era però un umorista. Tu, che dell’immaginario del consumo ti sei occupato a lungo, scrivi che
“l”Occidente sta ri-generandosi in chiave anti-moderna: anti-umanista, anti-sociale, anti-
sapienzialeâ€. Per un altro verso, però, “il ‘noi’ dei moderni sta cedendo dal proprio interno:
estensione e intensità – le doti di un”identità forte – sono infatti risorse che creano potenza ma
a prezzo di un”usura sempre più elevata che fa implodere la soggettività e le sostanze da loro
beneficateâ€.
Diciamo che non è facile distinguere nelle turbolenze del presente tra processi disgregativi e
processi di ricomposizione della modernità , tra processi rigenerativi e generativi dei suoi valori
e dei suoi mezzi. Paradossalmente, si potrebbe dire che quanto più lo spirito moderno dovesse
uscire dalla stretta in cui si è chiuso, tanto più sarebbe per così dire costretto a potenziare la
propria tragedia invece del suo desiderio di pacificazione: e qui mi riferisco alla svolta presente
e più ancora futura del capitalismo finanziario con la sua determinazione, volontà , di distruggere
ogni istituzione della società moderna. Certo è che la volontà di potenza che si manifesta in
questi processi costituisce anche le ragioni di una sempre più forte usura e stanchezza della
natura umana.
La tecnologia delle reti costituisce l’unico versante radicalmente positivo – meglio dire oggettivo
– di civiltà sempre più stanche di se stesse o di culture emergenti in quanto sempre più rapite in
vortici simili a quelli che l’occidente ha consumato. La rete è al momento il teatro in cui le
persone singole vanno esprimendosi negli spazi intermedi, liminari o nodali, tra chi se ne serve in
termini di vecchi e nuovi poteri. Le reti – i social network, facebook e quant’altro di virtuale e
interattivo – rendono visibile le dimensioni di due opposti movimenti: sciami dal basso verso
l’alto e informazioni dell’alto verso il basso. L’impero che, rispetto ad altri imperi calanti o
nascenti, è più consapevole della propria decadenza, del suo tempo scaduto, a rischio, è quello
della cristianità .
La pregnanza simbolica che hanno assunto Ratzinger e Bergoglio riguardo alla salvezza del genere
umano, dimostra quanto questi movimenti dal basso e dall’alto possano sovrapporsi per contrasto. Il
problema – la cosa che viene avanti – in ogni annuncio di Bergoglio al popolo dei credenti e dei
non credenti (un impero è tale perché si ritiene sovrano anche al suo esterno) risulta sempre più
chiaro: mira alla ricostruzione dal basso del potere di dio mediante la chiesa degli esseri umani.
Mentre invece Ratzinger è il papa che annuncia la rigenerazione di dio mediante la restaurazione
della potenza universale della sua chiesa. Due immagini di uno stesso prisma: quella umana, intrisa
di vita quotidiana e sottoposta al vento del tempo e quella celeste e insieme antidiluviana
dell”Anticristo in quanto potenza che precede la salvezza.
[center]Antropologie nel dolore?[/center][/size=4]
D – La sofferenza. È da qui che dobbiamo ripartire? O l’infelicità come condizione antropologicaineludibile, che dobbiamo imparare a abitare? Ripensi da qui la questione del soggetto, come
soggetto contingente?
Condizione antropologica ineludibile è la necessità per ciascuno di sopravvivere attraverso
l’infelicità di qualcun altro. Dico necessità in quanto ineludibile condizione di bisogno di cui si
nutre ogni essere vivente, ogni organismo. Quella condizione conflittuale, sino all’ultimo sangue,
che la civilizzazione ha creduto di potere contenere sotto il manto di dispositivi di potere in
grado di governarla, controllarla e asservirla. Vorrei evitare qualsiasi confusione con i principi
di carità laica o cristiana che appunto dalla sofferenza altrui – del vicino che non gode dei tuoi
stessi beni – fanno dipendere la propria visione del mondo e le proprie azioni, limitandosi ad una
propria militanza personale e/o ad una propria partecipazione politica. In opposizione
all’altruismo, quanto può apparire scandaloso mettere in primo piano la sofferenza a partire dal
proprio esclusivo interesse? Persino le sacre scritture alludono a questo rovesciamento (“ama il
tuo prossimo come te stessoâ€).
Desidero non soffrire e per fare questo devo ricorrere a dispositivi che limitino la sofferenza
prodotta dal sistema di potere in cui vivo. Spesso, esplicitamente o implicitamente, il pensiero ha
girato attorno a questa sorta di egoismo strumentale nella speranza che potesse essere una
soluzione per la sofferenza collettiva. La fiducia nell’effetto placebo delle retoriche sul e del
“benessere†come scopo della società , ne è un ingrediente. Il problema irrisolto è che il desiderio
non ha confini e fa violenza anche sulla persona, sull’individuo che vuole salvarsi dal dolore di
sé. Questi dimentica e rimuove il fatto di essere violenza proprio in quanto individuo. Quali siano
le sue azioni.
In una società che ha visto fallire i suoi obiettivi primari – giustizia, uguaglianza, qualitÃ
della vita – si impone allora, direi oggettivamente, la realtà di una sconfitta, senza più vie
d’uscita: la sconfitta dei valori ai quali i sistemi “occidentali†si sono storicamente ispirati.
Dunque si tratta di una sconfitta dovuta a ciò che crediamo di essere. Sconfitta – pari al suo
trionfo storico – dell’Umanesimo.
Di un sapere politico di lunghissima durata, capace di assorbire nei propri canoni ogni deviazione
dai suoi principi fondativi facendo capo a una idea di essere umano di per sé “libero†e “elettoâ€
per virtù civile e/o divina. L’idea di un antropocentrismo e di un individualismo assoluto della
carne e dei corpi in cui siamo immersi. Sto usando la prima persona plurale, ma penso che la si
possa usare solo negando ogni sua legittimità . È il “noi†del quale parlo nel mio saggio criticando
la volontà di potenza individuale e insieme collettiva che esprime. La prima persona singolare che
si arma della prima persona plurale e questa che si arma di uno stato o di una religione. Un tema
ampiamente trattato, ma quasi mai risolto, dalla letteratura sulla crisi della democrazia, divisa
com’è tra un “noi†ingiusto nei confronti di altri “noi†ed altri “ioâ€. Tra l’individuo e il “noiâ€
che gli è sovrano.
È proprio l’Umanesimo ad avere deteriorato la qualità delle classi dirigenti istruendole in ciò in
cui non avrebbero dovuto credere e riducendo così ogni loro competenza e reputazione sul mondo
reale che la realtà sociale, la realtà socialmente costruita, nasconde. La cultura umanista è causa
del male che pretende di estirpare.
Con i suoi contenuti non pare davvero possibile risolvere la crisi profonda di chi ha la
responsabilità di affrontare, riparare e lenire una crisi epocale come quella presente. Insisto:
sospetto, inefficace ed anzi dannoso il tentativo oggi prevalente, promosso su scala globale, di
riqualificare le scienze umane con una iniezione di scienze “dure†(è questa l’ideologia, la
filosofia strumentale, burocratica e manageriale, che sta distruggendo le istituzioni della
formazione: dalla scuola all’università ). Da dove ripartire? Da persone in cui siano messe in
discussione le credenze che sono state loro inculcate, le idee che esse hanno appreso su se stesse
e sugli altri. I valori su cui si sono formate.
Ecco un modo non ideologico di prendere coscienza dell’avvento delle reti. L’idea di un soggetto
contingente è il possibile derivato della dimensione poietica che le reti, pur attraversate dalle
grandi dorsali della soggettività moderna, stimolano in ogni dove. Sono lo spazio di fondamentali
trasformazioni del modo di sentire e pensare procedendo attraverso le cose del mondo e della sua
carne per mezzo di pratiche esperienziali assai più che sapienziali. Tanto che i “dotti†– Umberto
Eco, appunto – percepiscono sempre più come insulse le chiacchiere dei nativi del web. In merito a
questa mutazione, vado cercando di adeguarmi.
Sto tentando di farlo, senza ancora riuscire a superare un livello troppo sintetico, povero, e
molto approssimativo: vorrei almeno arrivare a scrivere e dire senza più carichi bibliografici e
eccessivi impianti teorici, anche perché sono convinto che ormai bisognerebbe farne a meno, così da
arrivare alle scelte essenziali che il nostro fine d’epoca impone. Dalla elaborazione dei contenuti
e motivazioni del “che fareâ€, gli ignoranti sono stati sempre inevitabilmente esclusi per essere
tuttavia inclusi solo a misura della forza delle loro passioni.
La persona, dunque. Se per ogni fase di smarrimento delle certezze sui cui basare le proprie azioni
si sente il bisogno di trovare un valore inemendabile da cui ripartire, la domanda è questa: cosa
c’è di certo, di assolutamente indiscutibile, su cui basarsi?
D – Quale è il “fatto†che i delusi dal relativismo post-moderno e della sua “debolezzaâ€pretendono di ricostruire? Quale è la verità che non ha bisogno di dimostrazione?
È qui che si colloca una riflessione sulla sofferenza e la morte. Sul dolore della carne. Il dolore
che appartiene tanto al carnefice quanto alla vittima. Il disagio e la morte che riguardano
qualsiasi identità . Amica o nemica che sia per l’altra.
A me pare che il teatro di una riflessione su questa sola certezza umana non possa che essere la
persona. Intendo per persona (etimologicamente “nessunoâ€) quella entità , senza di per sé doti e
attributi, che assume un carattere, una qualità individuale, la qualità di individuo, solo in virtù
delle “voci†che – riempiendo la virtualità del suo vuoto e da esso attratte – fanno vivere la
natura altrimenti impenetrabile, anonima, della sua “maschera†puramente biologica, della sua
“macchina†animale, del suo sistema neuronale.
La persona si fa individuo situandosi e incarnandosi in una serie di dispositivi antropologici,
ambientali, familiari, formativi, culturali, esperienziali, storici, sociali, territoriali, e via
dicendo, che è impossibile disporre in un ordine sequenziale poiché si tratta delle “concorrenzeâ€
di una continua attività combinatoria, autopoietica, destinata a costruire l’identità della
persona.
A farla parlare e agire. È dall’insieme di lungo periodo di queste “concorrenze†che la
civilizzazione ha progressivamente ricavato dalle persone individui e dagli individui soggetti.
Certo è che la formazione, in questo transito da persona a individuo e da individuo a societÃ
svolge un ruolo specifico, determinante o meno che sia. Sarebbe urgente creare le condizioni di una
inversione di marcia. Come? Partire dall’esperienza comune della sofferenza e del dolore che la
persona “patisce†a ragione delle sue stesse passioni. Della violenza che ha in comune con se
stessa e con i sistemi sociali.
La persona non sfugge ed è anzi alla base della violenza espressa da ogni essere vivente a causa
della sua necessità di sopravvivenza. La persona produce dunque violenza nelle sue relazioni con
l’altro che gli abita accanto, e in tal modo altera e corrompe l’agire stesso degli apparati
sociali modificando i loro fini anche quando questi – pur inscritti nella falsa coscienza e nello
spirito coercitivo dell’occidente – si propongano scelte orientate a valori e pratiche tese a
moderare la conflittualità , ridurre gli squilibri, migliorare la vita quotidiana.
La violenza dei singoli – ad esempio il cieco familismo e clientelismo, la esasperazione dei
conflitti di genere dentro e fuori della famiglia, la competizione per motivi di carriera, di
potere personale, di interesse, l’egoismo e culto della propria persona – non può che far deviare
il corpo sociale anche quando virtuoso, che si tratti di istituzioni, stati, partiti, movimenti, in
quanto vi produce una serie di turbative a catena. I risultati di un partito o di una azione
amministrativa o di un governo o di una università ne saranno irreparabilmente trasformati in
peggio del peggio.
È impossibile non accorgersi che la “morte†della politica di cui tanto si parla, la sua debolezza
e inefficacia quali siano i fini che essa si propone, dipendono in larghissima misura dalle sue
divisioni interne in interessi personali. Forma di potere, la politica, minata dai rapporti di
potere che se la contendono.
Il grande dibattito sulla necessità di compensare la crisi di reputazione e responsabilità dei
nostri ceti dirigenti privilegia l’idea di rafforzare e riqualificare i contenuti della formazione
scientifica e professionale, partendo dal concetto di persona di cui s’è detto in termini di
primato umanista – credendo quindi che il problema si risolva, si possa risolvere, riqualificando
gli stessi contenuti della soggettività storicamente e socialmente data, sviluppando gli stessi
saperi e metodi di una medesima cultura di appartenenza.
Protraendo lo stesso soggetto dell’umanesimo anche quando aggiornato, armato di nuove teorie e
tecniche (che, diciamocelo sinceramente, sono pericolosissime se messe in mano ai moderni, ai
civilizzatori). Nessuna consapevolezza o dichiarazione del fatto che, se le nostre classi dirigenti
sono così clamorosamente fallite – tanto più a fronte della complessità del presente, del carattere
sostanzialmente inedito della crisi in atto e a venire – il motivo, come ho detto, non può che
essere il fallimento dei modelli tradizionali di formazione basati sull’umanesimo. Sul suo
carattere esclusivo e insieme universalista.
Prima di arrivare a formare professionisti capaci, bisognerà allora formarne la loro vocazione:
essa viene prima e non dopo. Dunque bisogna formare persone prima di formare ruoli sociali. E
questo difficile salto di qualità non può che essere praticato attraverso una radicale critica
dell’umanesimo e di tutte le sue “illusioni†di felicità a venire: ripensare gli effetti della
modernità alla luce della sofferenza e morte che ha prodotto e continua a produrre.
Nessun “principio speranzaâ€. Prendere le distanze dalle azioni che la società ci obbliga a compiere
e, se inevitabile per il soggetto che incarniamo dentro e fuori di noi, compierle almeno senza più
illusioni. Tentando così di contribuire alla riduzione del loro danno attraverso il raffreddamento
della fiducia e partecipazione che impongono.
(30 settembre 2015) [url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.it/[/url]‘