‘di Sandro Vero
1. Paul Ricoeur afferma, con un certo grado di stupore che emana dalla sua scrittura, che il tempo non è umano, veramente umano, se non è tempo di narrazione. Se non si apre alla dimensione del raccontare.
La struttura portante della narrazione neo-liberista, totalmente immersa nel brodo concettuale del post-modernismo e della “fragilità †del pensiero che ne deriva, è esattamente questa: tutte le grandi narrazioni che hanno preteso di cambiare il mondo sono miseramente fallite! L’unica vera, realistica narrazione possibile sembra essere quella narrazione che si pone rispetto alle altre non già in un contegno di riprovazione o di supponente superiorità , bensì in una sorta di atteggiamento cannibalico: in realtà il capitalismo nella sua versione ultimativa ha bisogno delle narrazioni che esclude, che stigmatizza come lasciti anacronistici del secolo breve. Ne ha bisogno per nutrirsene, per assimilarle, per trasformarle in miti, di volta in volta apponendovi il segno positivo oppure quello negativo, ma sempre utilizzandole per la creazione di valore, di profitto (la t-shirt con l’immagine del volto di Che Guevara ne è un esempio fin troppo evidente).
Ciò che l’annunciata morte delle narrazioni ci procura, sopra tutto, è la sottrazione della possibilità di credere in un’alternativa. Ovvero, di credere che sia possibile una narrazione altra rispetto a quella della centralità del libero mercato o dell’individuo imprenditore di sé. In altre parole: ci toglie la possibilità di raccontarci in modi e tempi diversi.
Se ciò accade, nel modo che sappiamo essere sostanziale allo sviluppo di una rete produttiva di sensi che convergono in un punto prestabilito (piuttosto che offrire una occasione divergente, creativa di dare un nome alle cose), allora ciò che ci viene quotidianamente tolto è la capacità di rinnovare l’umanizzazione del nostro tempo.
L’operazione è una sorta di “inversione†di quella distentio animi centrata da Ricoeur nel suo studio sulla concezione del tempo in Agostino: dai tre presenti (quello del passato, quello del presente, quello del futuro) si trasmigra in una dimensione esperienziale in cui non c’è più alcuna distinzione, essendo chiamati a vivere in una continua tensione negatoria in cui il tempo è sottratto al lavoro umanizzante del fare e relegato nel dominio del consumo. Esso stesso oggetto di consumo.
Un esempio illuminante: cosa è il corpo, il nostro corpo, se non la reificazione della nostra esperienza del tempo? Lo viviamo (esattamente come, attraverso esso, viviamo il tempo), lo pensiamo (come proviamo a pensare il tempo, per poi soccombere alle sue aporie), ma ci è impossibile renderci conto concretamente del suo “passareâ€, ovvero del suo “trasformarsiâ€, fino a che non adoperiamo un qualche artificio esterno che ci ridia, ci restituisca la prova del suo “transito†(come, per esempio, quelle sequenze fotografiche in cui un soggetto si fa ritrarre ogni anno nella stessa posa e nello stesso spazio).
Il corpo del fitness, nella sua declinazione estrema, incantatoria, delirante, è appunto un corpo astratto, immobilizzato in una specie di still-image intorno alla quale si produce tanto desiderio narcisistico quanto si riduce il suo normale ciclo libidico. Uno dei miti al servizio del capitale: un corpo eternamente imbrigliato in un non-tempo!
Un mito che non ha più la funzione che Cassirer descriveva mediante l’immagine del primitivo dinnanzi alla natura, al cosmo, alla sua irriducibilità alla dimensione dell’essere umano. Lo stupore che richiedeva un racconto, l’angoscia che necessitava una messa in forma. Il mito capitalistico, nella sua produzione infinita e circolare, ha solo la funzione di svuotare il contenitore perché sia costantemente riempibile con materiale di consumo, cui può essere trasformata ogni cosa, e con la soddisfazione perentoria ma assolutamente transitoria che viene dal controllo del tempo. Un tempo controllato è un tempo che non si può più narrare.
2. La critica allo spaesamento alienante (e strumentale) procurato da una strategia certosina di de-privazione del tempo come esperienza (e la corrispondente trasformazione del tempo in segni astratti che ne sanciscono la controllabilità ) non porta necessariamente a percorrere strade come la mistica heideggeriana del nuovo inizio, o altro inizio, con il quale l’Autore dei Quaderni Neri concettualizzava la necessità , imposta dall’affermazione prepotente e dilagante — nel cuore dell’Occidente — del primato della tecnica, di un ritorno a una condizione in cui l’Essere si mostri attraverso la mediazione dell’azione umana (primato dell’Etica) e non sia più celato, desertificato dal dominio dell’Ente (primato del calcolo, e della sua declinazione scientifica nella matematizzazione del reale) o negato dall’equivoco della Metafisica del Soggetto.
Tali luoghi impervi del discorso filosofico, più spesso di quanto non sembri funzionali a una traduzione nobilitante dei più retrivi preconcetti anti-scientifici, sono quanto di più lontano rispetto a una prospettiva che semplicemente, laicamente, persegue il fine di esercitare una critica delle forme in cui si dà il discorso inesausto del potere nel mondo. Un mondo che non è desertificato dalla prepotenza della tecnica (la quale ultima, come ogni altra cosa che appartiene alla storia, può servire i padroni più diversi!), ma abitato da una narrazione che pretende di farsi unica e dunque di assimilarsi alla natura del mondo stesso.
Peraltro, la narrazione heideggeriana è preziosamente incastrata dentro molti preconcetti: quello contro la scienza, quello contro la tecnica, quello contro il “calcoloâ€, scienza tecnica e calcolo presunti responsabili dell’occultamento di una dimensione (mistica) del mondo, quella dell’Essere, che probabilmente nel linguaggio esoterico di Heidegger prende il posto dello Spirito. La sua narrazione riducendosi, dunque, a una riproposizione in chiave filosofica del discorso teologico.
È appena il caso di sottolineare come una disamina attenta delle annotazioni contenute nei Quaderni Neri proponga una considerazione conclusiva della natura “anti-semita†del pensiero di Heidegger, facendo del giudaismo il preconcetto che ingloba tutti gli altri, nella misura in cui l’Ebreo, per il filosofo tedesco, è perfettamente coincidente con la globalizzazione del mondo nel segno, appunto, del calcolo straniante e della tecnica alienante.
BIBLIOGRAFIA MINIMAE. Cassirer, Linguaggio e Mito, trad. di V.E. Alfieri, Il Saggiatore, Milano 1968.
G. Ferraro, Teorie della Narrazione, Carocci, Roma 2015.
M. Heidegger, Quaderni Neri 1938-39, trad. A. Iadicicco, Bompiani, Milano 2016.
J.J. Liszka, The Semiotic of Mith, Indiana Un. Press, Bloomington 1989.
P. Ricoeur, Tempo e Racconto, trad. di G. Grampa. Jaca Book, Milano 2016.
(27 dicembre 2016)[url”Link articolo”]http://www.kasparhauser.net/Ateliers/antropologia/vero-narrazione.html[/url] © Sandro Vero © Kasparhauser.
Infografica: Vittore Carpaccio, Sant”Agostino nello studio (1502).
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