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La critica e il suo destino

Intervista al filosofo Enrico Donaggio: una critica al capitalismo in uno sguardo e una prassi irriducibili a scuole e appartenenze rigidamente identitarie.

La critica e il suo destino
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12 Febbraio 2017 - 22.58


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Intervista al filosofo Enrico Donaggio a cura di
Paolo Bartolini
.

Prof. Donaggio, lei si interessa da anni di critica
al capitalismo partendo da uno sguardo e da una prassi irriducibili a scuole e
appartenenze rigidamente identitarie.

Ha infatti sostenuto di non essere mai stato, nei
fatti, comunista, socialista, anarchico ecc. Al contempo dimostra una
conoscenza approfondita degli orizzonti critici e utopici che hanno segnato la
modernità. Il suo non appartenere a una “parrocchia” ben precisa non è forse
un’indicazione di metodo sul modo di pensare le alternative possibili al
discorso omologante del capitale?


Temo che anche la
figura dell’individuo non allineato e privo di appartenenze tribali, partitiche
o parrocchiali sia stata da tempo fagocitata e omogenizzata da quello che Lei
definisce il “discorso omologante del capitale”, che la vende o spaccia come un
outsider o un loser di fascino variabile: per un decimo eccentrico o genialoide,
per il resto sfigato, pazzoide, disadattato o impotente. Nel mio caso si tratta
quasi esclusivamente di una necessità fisiologica, autobiografica, dalla quale
ho cercato di ricavare, oltre a un sacco di danni per me per gli altri, anche
un poco di buono e persino un mestiere. Alla base c’è la difficoltà invincibile
ad accettare il prezzo di noia, ipocrisia e rinuncia all’intelligenza che ha
quasi sempre comportato l’aderire a una setta o a un gruppo: a sinistra come
altrove. Ben consapevole, per altro, di quanta potenza, entusiasmo e capacità
di incidere sulle cose si perdano in una posa del genere; e a quanta vanità,
narcisismo e illusioni compensatorie sulla propria posizione nel mondo essa
condanni. Oltre a questo, quasi tutti gli incontri politicamente,
esistenzialmente e culturalmente importanti della mia vita sono stati con
figure di questo tipo: critical minds.
Gente, viva o morta, che pensava con la propria testa, che esprimeva
chiaramente le proprie idee – i propri sì e i propri no – e pagava un prezzo
per questo. Ma tutto sempre sullo sfondo di un riferimento, forse di
un’appartenenza mancata, a qualcosa di più comune, collettivo, grande. Sono
quelli che nelle pagine di Direi di no chiamo i “compagni per caso”.
Cani sciolti, più che altro per mancanza di alternative, che si sanno e
vorrebbero parte di una collettività più estesa del loro singolo percorso
biografico, ma che non trovano nel mercato politico e culturale contemporaneo
luoghi, gruppi o collettivi che li soddisfino. Degli sbandati insomma, nel bene
o nel male, che sognano di mettersi insieme.


Non crede che i partiti tradizionali della sinistra
abbiano inflitto un colpo durissimo, con la loro adesione al modello
neoliberale, alla speranza di migliori libertà per milioni di persone? La mia impressione
è che una parte notevole dei rivoluzionari degli anni ’60 e ’70 invece di
seminare per raccogliere “il sogno di una cosa” ci abbiano lasciato in eredità
nient’altro che l’incubo delle cose. Come non fermarsi a un bilancio
catastrofico della storia delle sinistre nel nostro Paese? C’è qualcosa da
salvare?


I tradizionali
partiti di sinistra hanno barattato la loro sopravvivenza con il tradimento
integrale e conclamato di un patrimonio enorme di speranza e memoria, visioni e
sconfitte, che dovevano invece elaborare e conservare. Questo vale per quelli
grandi, di potere, come per la frantumaglia di resistenza simbolica. I primi
hanno aderito con cinismo ed entusiasmo infinitamente maggiore dei partiti di
destra al mantra e alle pratiche neoliberali che dopo essere state testate in
Sudamerica e in altre province del capitale, vengono ora applicate con gli
effetti che si possono ben vedere in Europa da oltre un decennio (l’atto di
ingresso nella crisi europea, quello che “prepara” le menti e i corpi, è il G8
di Genova del 2001). Si tratta dunque di un caso di tradimento, di infamia. I
partiti minuscoli della sinistra radicale, con il loro narcisismo delle infime
differenze, hanno invece ibernato in modo sterile una nostalgia comunista, o
l’hanno estetizzata con discorsi identitari ornamentali, ricavando da questo una
rendita di posizione che garantisce loro quel numero infimo ma per loro
sufficiente di elettori e stipendi che basta a vivere: di rendita, appunto. Nel
primo caso di rosso nemmeno l’ombra. Nel secondo, di rosso soltanto l’ombra.

Tutto quel che dà
speranza, su questo fronte, almeno in Italia (in altri paesi la situazione è
decisamente diversa) avviene fuori dalla politica. Nella società o in campi
della vita e del potere più ristretti, dove accadono ogni giorno cose
incredibili e bellissime. Tutte le energie di cui c’è bisogno per riaccendere discorsi
e pratiche di questo genere sono disponibili. Nessuna persona mediamente
intelligente e informata dei fatti – almeno a sinistra – è però disponibile a
investire questi desideri e queste speranze, nell’ambito in cui, fino al secolo
scorso, pareva obbligato, sensato e nobile investirle: la politica, appunto.


Nel suo bellissimo “Direi di no. Desideri di migliori libertà”
(Feltrinelli, 2016) parla di “luoghi di umanità” da cui ripartire per
vivificare la critica al sistema e, ancor di più, per sperimentare alternative
concrete, qui ed ora, al dominio delle merci e alla logica dell’accumulazione
economica. Può parlarci di queste pratiche liberatorie e inquadrarle
all’interno di un possibile cambio di paradigma nelle lotte per la giustizia
sociale e ambientale?


Un luogo comune di umanità – così io lo chiamo nel libro – è uno spazio
d’esperienza collettiva in cui si possa tentare di pensare e agire altrimenti.
Dove dire e fare di no dimostrino ancora un qualche senso ed effetto, poco
importa se limitato. Dove ci si possa sentire meno soli e sbandati, impotenti e
disarmati, quando si viene colpiti da certi desideri di migliori libertà. Per
il sostegno che si può ricevere da compagni, incontrati anche per caso. E da un
sapere, antico o recente, fatto di pratiche e racconti. Risorse umane che
consentono di prendere corpo e parola, cioè posizione, contro l’ordine del
discorso e della realtà dominante. Per giocarsela alla pari, almeno sul piano
della rappresentazione del mondo, non certo su quello dei rapporti di forza,
con chi ripete, come un martello pneumatico puntato al cuore e alla testa, che
le cose non possono andare altrimenti. E che se non ti sta bene, in fondo è un
problema tuo.

Un luogo comune di umanità è insomma una situazione in cui una minoranza di
persone abbastanza normali può compiere cose relativamente eccezionali, in
rapporto al periodo in cui si trova a vivere. Esperimenti di reciproca
emancipazione e riconoscimento, tentativi di liberazione dal basso e fra pari.
Ho
in mente esperienze precise che sono, ad esempio,
per come le ho viste e conosciute dai protagonisti, quelle dei lavoratori che
si riprendono le loro fabbriche (ci sono dei film su queste vicende, come Dell’arte
della guerra
e Comme des lions).
Sono storie meravigliose: di esseri umani normalissimi, ma completamente
diversi. Orgogliosi, contenti, pieni di vita. Gente che è riuscita, attraverso
il lavoro, a riprendersi in mano la propria vita. Che stava per essere spazzata
via da una multinazionale, da un sindacato corrotto, dalla rassegnazione.

Ma ci sono anche
pescatori che si organizzano, squadre di calcio femminile che decidono di farsi
un campionato. O, se si cercano esempi mitici nel passato, la rivoluzione di
Basaglia, che inizia non a caso con un “Mi non firmo”, la prima risposta data
dopo l’arrivo a Gorizia a chi gli chiedeva di sancire con un gesto della penna
che tutto sarebbe andato avanti come prima. L’unica cosa che tutte queste
esperienze, così diverse, hanno in comune è che non sono solitarie, che
sperimentano un modo di fare, di lavorare diverso, che cercano in qualche modo
di essere delle piccole enclave di umanità diversa. Sono in qualche modo votate
al fallimento, non si condannano a vita eterna, sanno quello che vogliono, ma sono
pronte a perderlo in qualunque momento se andare avanti comportasse uno
snaturamento. E danno alla gente che le mette in atto una gioia di vivere, una
forza, un piacere. Queste persone sono vitali, giovani, sorridenti, s”incazzano
anche se hanno settant”anni. Hanno ripreso in mano il proprio destino, in una
piccola – non bisogna esagerare – regione della propria esistenza


Che ruolo ricopre il tema del tempo nel suo
pensiero filosofico e nell’ottica di una trasformazione complessiva della
società?


Accordare i tempi
della vita e della politica, della società e della storia è il problema immenso
che il pensiero e la pratica di sinistra ha tentato di risolvere per almeno due
secoli. La soluzione, perdente o quanto meno sconfitta, la conosciamo: sperare
tutto in un futuro radioso e garantito. Il sole dell’avvenire: oggi no, domani
neppure, ma dopodomani certamente. Una concezione del tempo religiosa e
sacrificale che è stata prima cannibalizzata, poi risputata fuori in forma di
presentismo assoluto dal capitalismo. Su questo terreno la sconfitta è totale.

Davanti a questo
scenario letteralmente disperato – il presentismo assoluto non conosce
speranza, essendo questa la fede nel fatto che il tempo che verrà sarà diverso
e migliore di quello presente – a me affascinano molto tutte quelle visioni che
considerano la vita e la storia come un’avventura a trazione posteriore, non
anteriore. Senza per questo ricadere nel fatalismo di certa pessima
psicoanalisi (il passato come destino). Penso, solo per fare il nome più noto e
logoro, a una delle idee ossessive e capitali di Walter Benjamin: tutta la
speranza di cui abbiamo bisogno la ottieni da un lavoro rivoluzionario sulla
memoria. Non pensava certo a riti imbalsamati e spenti come il Giorno della
memoria o ad altre cerimonie liturgiche in onore della vittima come
protagonista unica ed assoluta della storia del mondo. Ma a quanta passione,
energia e ansia di riscatto e giustizia sta stoccata nelle lotte, nelle vittorie
e nelle sconfitte del passato. Con un’immagine bellissima Benjamin parlava di
un “appuntamento misterioso tra le generazioni”, come se chi ci ha preceduto ci
consegnasse un testimone di forza e speranza.


Lei insegna all’Università e si relaziona ogni
giorno con moltissimi giovani. Al tempo dei social networks e dell’ibridazione
pervasiva promossa dalle tecnologie informatiche, quali aspetti la colpiscono
maggiormente delle nuove generazioni?


Per dirla con
tutta la crudezza e l’amore che la domanda richiede: l’essere in balìa del
primo che gliela racconta. Come se nessuno – malgrado le tonnellate di amore
buono e cattivo di cui li asfaltano tutti i loro tutori: famiglia, amici,
social media – li avesse mai presi sul serio, rivolgendo loro un discorso e una
relazione adulta. Una fame feroce di senso, di narrazioni, di chiavi
interpretative, di prospettive sul reale, nascosta sotto il velo di una
superficialità e una distrazione apparentemente immense. Considero una delle
massime fortune della mia vita insegnare a giovani di norma più intelligenti e
appassionati di me. Considero un crimine contro l’umanità ciò che la mia
generazione – ma ancor più quella che l’ha preceduta – ha fatto e fa, con
l’infantile complicità delle vittime, ai giovani italiani da un paio di decenni
a questa parte.

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Enrico Donaggio insegna Filosofia della storia
all’Università di Torino; Figures du pouvoir e Écrire et penser all’Université
Aix-Marseille. Ha pubblicato: Una sobria inquietudine. Karl
Löwith e la filosofia
(Feltrinelli,
2004; tradotto in francese e spagnolo), Che male c’è. Indifferenza e
atrocità tra Auschwitz e i nostri giorni
(L’ancora del Mediterraneo, 2005), A giusta distanza. Immaginare e
ricordare la Shoah
(L’ancora
del Mediterraneo, 2010), Direi di no. Desideri di migliori libertà (Feltrinelli, 2016). Ha curato: La Scuola di Francoforte. La
storia e i testi
(Einaudi, 2005), Karl Marx. Capitalismo,
istruzioni per l’uso
(Feltrinelli,
2007), Cӏ ben altro. Criticare il
capitalismo oggi
(Mimesis, 2014) e Il discorso della servitù
volontaria
di Étienne
de la Boétie (Feltrinelli, 2014).



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