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La nuova epoca della Complessità

Intervista a Pierluigi Fagan. [Lorenzo Centini]

La nuova epoca della Complessità
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12 Ottobre 2017 - 11.45


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di Lorenzo Centini

 

Pierluigi Fagan è un professionista ed acuto osservatore della realtà, autore del libro Verso un mondo multipolare. Il gioco dei giochi nell’era Trump (Fazi editore, 2017). Esperto di marketing e cultore della complessità, grazie alle sue capacità divulgative e ai suoi brevi ed intensi interventi sui social si è ormai ritagliato un posto tra gli osservatori più acuti del mondo intorno a noi. Per capire meglio il delicato momento che viviamo e per guardare un poco più in la’ dell’orizzonte degli eventi, lo abbiamo intervistato. [L.C.]

 

***

 

Lei signor Fagan parla molto spesso della categoria di Complessità, applicata sovente alle relazioni internazionali ma non solo. La transizione da un mondo unipolare ad uno multipolare è evidente anche agli osservatori profani. Come sintetizzerebbe il concetto di “complessità” rispetto ai cambiamenti in atto nel contesto internazionale?

Complessità, a mio avviso, è il concetto che segna l’epoca nella quale siamo entrati, non solo nel contesto delle relazioni internazionali. Dopo aver nominato i tempi storici con termini provvisori (ad esempio “post-moderno”), operazione tipica delle transizioni, è l’ora di capir meglio in quale fase di mondo siamo entrati, cosa sia subentrato al “moderno” e credo che il “complesso” sia un buon candidato per la definizione. La cultura della complessità è relativamente giovane (comincia a svilupparsi più o meno dal dopoguerra), vasta e coinvolge quasi tutte le discipline. Di base, adotta la forma del “sistema” per inquadrare cose e fenomeni.

Un sistema è fatto di parti in interrelazione e nel suo insieme ha a sua volta interrelazioni esterne, con altri sistemi e con l’ambiente, il contesto, nel quale si trova. In ambito di politica internazionale, questo “contesto”, proprio negli ultimi settanta ann, ha registrato: 1) l’aumento consistente degli Stati (quadruplicati dal 1945); 2) l’aumento consistente della popolazione mondiale (triplicata); 3) l’aumento vertiginoso delle interrelazioni, soprattutto commerciali e poi finanziarie, ma anche culturali, politiche, migratorie e di comunicazione (Internet); 4) l’aumento di fenomeni di feedback, sia provenienti dal difficile adattamento reciproco tra umanità e natura, sia provenienti la stessa dinamica di allargamento del sistema economico che chiamiamo mercato (e con problematiche interferenze tra logica del mercato che va letto per produzione, merci e finanza e logica dello Stato). Quando aumentano le parti (Stati e popolazione ma anche altri soggetti istituzionali ufficiali o meno come le multinazionali, la criminalità organizzata, le ONG, le organizzazioni terroristiche) ed aumentano le interrelazioni (globalizzazioni, migrazioni, interferenze culturali, frizioni religiose e dei modi di vita) e l’insieme è precorso da feedback non lineari (retroazioni ambientali, clima ma non solo, disordine normativo internazionale, disordine nei mercati tipo bolle, speculazioni, sottrazione fiscale, massicce migrazioni), si può ben dire di essere dentro una crescente “complessità” che è appunto, la nostra condizione attuale e futura. Siamo solo all’inizio di un mondo nuovo e che sia nuovo, non è mia invenzione, la differenza che fa il “nuovo” pare esser nei principali fatti quanti-qualitativi che compongono la definizione di “mondo”.

Tuttavia la percezione è che mentre certe nazioni si impegnano nel costruire legami e strutture razionali, come le nuove Vie della seta cinesi, altre diffondano caos e imprevedibilità, o che subiscano eccessivamente questa condizione di esposizione alle decisioni altrui. In che modo la sovranità, evocata spesso, può portare ordine in questa complessità?

La domanda espone due problemi diversi. Da una parte, la descrizione complessa del mondo precedentemente proposta, sta dando vita ad una geopolitica in pieno movimento, nella quale il mondo mostra di essere troppo vasto e composito per venir ordinato da un solo attore. Ormai, oltre a gli USA, abbiamo una rinata potenza militare ed energetica quale quella russa ed una economica e demografica come la Cina. Queste ultime due sono solo però una parte di un lungo elenco di potenze, magari non globali ma locali, ognuna delle quali vuole accrescere la propria autonomia e riservarsi crescenti opportunità di benessere, sicurezza, influenza sull’area dei vicini. Ne viene fuori un gioco a molte dimensioni in cui c’è un mondo – diciamo così-  costruttivo che cerca di costruire il proprio futuro ed uno distruttivo che vuole mantenere inalterate le posizioni di dominio che si è assicurato nel passato recente. Ma anche con una complessa rete di alleanze a geometrie variabili in cui alcuni dei nuovi (si pensi al mondo delle petro-monarchie arabe), si alleano coi vecchi, rimanendo però connessi con gli altri. Ognuno oscillerà tra una parte e l’altra, cercando di tenersi in equilibrio e cercando di portarsi a casa il proprio maggior vantaggio.

La sovranità invece, è un problema tutto interno a gli attori. Non solo la sovranità è insidiata da fattori orizzontali quali le frizioni tra interessi economici e più che altro finanziari ed interessi politici e sociali ma anche dall’estremo aumento delle diseguaglianze che rendono le società sempre più verticali e quindi le élite sempre più autoriferite. Ma al fondo di questo problema se ne scorge anche un altro. Le nostre stesse forme sociali iperspecializzate e le conseguenti culture, non sembrano adatte a vivere in ambiente complesso. La base politica popolare, ma anche molti intellettuali ed intermediari informativi e culturali, gli stessi politici e gli stessi agenti economici, sembrano avere difficoltà con le visioni d’insieme. Andiamo verso un mondo in cui sarà necessario calcolare a lungo effetti e contro-effetti delle nostre azioni e decisioni, prima di metterle in pratica. Questo calcolo è difficile e male accetto, mano a mano che le cose diventeranno più contraddittorie, i più reclameranno soluzioni dagli effetti immediati e definitivi ma tali soluzioni semplicemente non esistono, sebbene alcuni le proporranno per prosperare nel disordine. Aggiungiamo quanto detto prima, ovvero gli effetti di pressione che l’azione delle potenze geopolitiche avranno su sicurezza, prezzi, lavoro, approvvigionamenti, spesa militare, diktat sullo schierarsi “o di qua o di là”, sulle alleanze, sul divieto di cooperazione e sull’imposizione di competizione magari non sempre necessaria ed il quadro diventa molto preoccupante.

Il mondo è sempre più complesso ma rischiamo, soprattutto in Europa, una sorta di fallimento adattivo per via del fatto che i processi sono diretti da pochi ed i più sono lontani da una corretta conoscenza dei giochi, dei giocatori e del campo di gioco.

Fallimento adattativo che per molti coincide essenzialmente col declino della civiltà europea e della sua preminenza sul resto del globo, mentre non molto tempo addietro Xi Jinping ha rilanciato una collaborazione tra i paesi del “Global South” contro le prevaricazioni occidentali. Il declino occidentale è una impressione momentanea o un processo irreversibile?

L’ espansione e conseguente dominio da parte prima degli europei continentali (spagnoli, portoghesi, olandesi, poi francesi) e poi dei britannici e degli americani, ha avuto il suo ciclo iniziato nel XVI secolo e terminato a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Da allora si sono manifestati due fenomeni, il primo è una pronunciata inversione dei pesi demografici, gli occidentali che pesavano un terzo del mondo ai primi del Novecento pesano oggi poco più di un decimo; il secondo è che la distanza in termini di forza (economica, tecnologica, militare e quindi politica) tra l’Occidente ed il resto del mondo, soprattutto l’Asia, si va riducendo progressivamente. Questa sono tendenze irreversibili, indubbiamente. L’Occidente è già ricorso a partire dal dopoguerra, ad una massiccia intensificazione dei consumi e pare impensabile ci sia spazio per un ulteriore aumento della pressione (anche perché mancano i redditi). Di contro, mercati periferici da cui si sono tratti materie, energie, mano d’opera e mercati secondari in cui piazzare gli eccessi produttivi, si vanno occludendo o perché cominciano a crescere per proprio conto o perché cominciano a ruotare intorno ai poli asiatici. In aggiunta, severe retroazioni ambientali, cominciano a porre limiti all’espansione spensierata dei passati decenni e secoli. Tutto ciò non impedirebbe in linea di principio, uno sviluppo virtuoso di cooperazione ma gli standard occidentali richiedono sempre più di quanto una equilibrata relazione tra aree geo-economiche, possa dare. La Cina, sembra poter spesso offrire più equilibrio in queste relazioni e questo, oltre ad una importante liquidità e visione progettuale (si pensi alla Belt and Road Initiative) che l’Occidente non ha più, la rende una alternativa sicuramente più attraente. Partendo da condizioni di sviluppo più basse, il resto del mondo ha molto spazio e tempo per crescere, le condizioni di possibilità per i paesi ipersviluppati -di contro- si fanno sempre più difficili e scarse. Il riequilibrio dei pesi sarà naturale e conseguente.

Questi fenomeni, la cui dinamica non si vede come poter invertire, pongono problemi diversi alle diverse parti dell’entità occidentale. L’Europa dell’Est, l’Europa occidentale, la Gran Bretagna, Gli Stati Uniti d’America e gli oceanici, hanno posizioni diverse, necessità diverse ed opportunità diverse. Il gruppo di Visegrad, la Brexit, la postura sempre più unilaterale ed egoista degli Stati Uniti, il richiamo asiatico per gli oceanici, segnano una tendenza centrifuga in cui ognuno tende a sviluppare proprie strategie di reazione ai nuovi fenomeni del mondo. Lo stesso concetto di “Occidente” tende a perdere unitarietà ed in una dinamica di contrazione delle condizioni di possibilità, se ne dovrà reinventare il significato o meglio, pluralizzarlo. Qui da noi, in Europa occidentale, l’inerzia con la quale (non) reagiamo a questa fenomenologia, la stessa mancanza di consapevolezza di queste forze potenti che dirigono lo sviluppo del futuro, fa pensare ad un sempre maggiore rischio adattivo. Le nostre società non sono felici, sono variamente piene di debiti (non solo pubblici ma aggregati) praticamente inestinguibili, si acuiscono le diseguaglianze, per via del tetto che limita lo sviluppo dei già ipersviluppati e della sostituzione del lavoro umano con macchine ed algoritmi cede progressivamente la funzione sociale del lavoro e conseguente reddito, la blanda democrazia rappresentativa perde ruolo e funzione ed addirittura se ne teorizza il superamento, l’età media che tende a superare i 45 anni (l’Africa è sotto i 20), i potenti flussi migratori, una sorta di depressione intellettuale diffusa, i ripetuti fallimenti delle élite le quali non sembrano capaci di auto correggersi, l’incomprensibile politica estera, sono un elenco grave di negatività. Di contro, il processo unionista rimane ambiguo e contradditorio e non si sa bene neanche più se teoricamente idoneo a far fronte a questi problemi, i nostri Stati-nazioni il cui format -ricordiamolo- risale al XV secolo forse hanno dei limiti intrinseci, appaiono crescenti fratture autonomiste. Tutto sembra chiederci di reinventare il nostro contratto sociale ma di questa consapevolezza non sembra esserci traccia. Insomma, il quadro dà evidenti preoccupazioni e la rimozione di questa preoccupazione che sembra ben fondata, preoccupa anche di più.

Lei si dimostra molto pessimista sul futuro europeo. Le varie “Tribù politiche”, in Italia e non solo, confidano in diversi moduli di unione tra nazioni diversi: dai mediterraneisti agli europeisti con le aggiunte del revival eurasiatico e “latino”. Lei ritiene che il colpo di reni per il futuro strategico europeo ed italiano stia in una di queste geometrie oppure tali problemi vadano trattati come problemi di civiltà?

Partendo dalla civiltà, credo che il mondo che si sta configurando davanti a noi e le sue componenti demografiche, economiche e finanziarie, ambientali, culturali, porteranno l’Occidente a cui apparteniamo (e di cui noi italiani siamo membri fondatori di lunga data, sia con Roma, sia con il cristianesimo romano) a dividersi. L’Occidente anglosassone ha un dato di peculiarità proprio che nel lungo tempo della sua affermazione, prima con l’impero formale britannico, poi con quello informale americano, essendo egemone sul mondo e quindi sullo stesso concetto di Occidente, non è emerso. Davanti alla pressioni del nuovo mondo affollato e multipolare, le strategie, le intenzioni ed anche le pratiche, tenderanno a dividersi. Lo hanno già fatto prima con Brexit, poi con i propositi oggi per altro solo parzialmente rientrati di Trump. Il principale problema americano oggi è asiatico e comunque l’America non sarà più in grado -a prescindere dal Presidente di turno-di ridistribuire i dividendi della sua posizione egemone proprio perché sarà meno egemone, il principale problema di Londra è costruirsi una propria rete per rimanere attore multipolare. Queste agende divergono oggettivamente da quella euro-continentale e tale divergenza verrà ulteriormente alimentata da i diversi modi con cui queste aree cercheranno di far fronte al progressivo restringersi delle loro condizioni di possibilità.

Di contro, se rispetto all’occidente anglosassone, si dà una differenza con quello euro-continentale, anche all’interno di questo si danno differenze, quantomeno tra le sue parti settentrionali, meridionali, orientali. L’unico dato di omogeneità è un interesse a mettere in comune la circolazione commerciale e finanziaria ma non appena si allarga un po’ lo spettro delle questioni, dal possibile varo di una forza militare comune alla gestione dei problema dei migranti, dall’imposizione fiscale (non parliamo poi dell’eventuale ridistribuzione) alla più generale politica estera, le posizioni restano altamente eterogenee. Il punto è che il mondo multipolare prevede come poli, entità in grado di manifestare una intenzionalità politica complessa mentre l’UE è ancora e solo una forma giuridica intorno ad un fatto economico, un ibrido un po’ più di un trattato di libero scambio ma molto meno di un vero soggetto politico. Stante che in prospettiva, lo Stato-nazione di dimensione europea di per sé non consente di avere dei poli di portata mondiale, proprio per ragioni di dimensioni da cui deriva buona parte della potenza, credo sarebbe positivo si cominciasse a ragionare in termini di unioni tra simili. Questa similarità è data dalla geo-storia, l’unica componente che permetta di intravedere una possibile evoluzione degli stati attuali. Stante che si può partire da un ritorno alla sovranità nazionale poiché l’ibridazione nelle ambigue forme dell’attuale Unione è dannosa e soprattutto non sembra poter portare da nessuna parte e stante che non necessariamente ed immediatamente si debba pensare ad una definita forma federale, l’obiettivo finale -per costituire un polo nel gioco multipolare- dovrebbe esser quello, nuovi macro-Stati federali. Se quello è il destino, allora i tratti di omogeneità geo-storica sono l’unica condizione che permette di pensare possibile questa innovazione. Quindi, secondo me, l’obiettivo finale dovrebbe esser quello di costruire una unione latino-mediterranea ma non una unione commerciale o monetaria, ma uno Stato, federale, democratico, pacifico ma molto propenso ad intervenire nei giochi planetari con una propria strategia. Compito di questo nuovo soggetto, sarebbe anche quello di rivedere il senso ed il significato di Occidente che da Atene alla Rivoluzione francese, passando per Roma, ha proprio qui avuto le sue radici più antiche, radici che dovrebbero ora dare nuovi frutti poiché le stagioni cambiano. Questo soggetto, oltre a rimanere certo interrelato magari in una assetto confederale con le altre parti di Europa, ha la sua prospettiva prima verso l’Africa nonché legami forti con il Sud America, mentre la prospettiva seconda è la relazione euro-asiatica.

La suggestione euromediterranea era stata anche, in parte di Nicholas Sarkozy, che tuttavia non aveva saputo (o voluto) portare fino in fondo “L’Unione per ill Mediterraneo”. Attualmente, tuttavia, le spinte in questa are sono vieppiù centrifughe: flussi di immigrazione, incognita catalana, caos libico. Lei crede in un progetto esterno di destabilizzazione “In vitro” o piuttosto a fenomeni endogeni strutturali?

Come ricorda in questo articolo Vegetti, il progetto Sarkozy non andava in direzione della costituzione di un nuovo Stato europeo, somma degli Stati di cultura latino-mediterranea (per essere chiari, stiamo parlando di Stati europei che affacciano sul Mediterraneo, non degli stati arabi o maghrebini, turco o medio orientali) sul modello dell’idea del filosofo francese A. Kojève, ma qualcosa di simile ad un forum di comuni interessi, per lo più economici che è tutt’altra cosa. Giustamente è naufragato ma quello scafo non aveva alcuna possibilità di navigare.

Rispetto alla seconda parte della domanda, credo che ci siano fenomeni endogeni strutturali complessi ed avviati in una dinamica potenzialmente caotica che qualcuno scegli deliberatamente di potenziare o sfruttare, talvolta. Quello che però mi dispiace notare in molti commentatori anche “critici” è il riflesso per il quale non si analizzano i fatti ma le interpretazioni. Spinte caotiche e centrifughe ci sono e ci sono per buoni motivi di cambiamento profondo dei quadri sociali, economici, demografici, politici e quindi geopolitici, questi sono sintomi. Non si vogliono leggere i sintomi, si leggono le diagnosi che alcuni “dottori” danno e anche giustamente le si criticano ma i sintomi e quindi i malesseri rimangono, non sono inventati dai “dottori”. Forse dovremmo occuparsi un po’ meno di critica ed un po’ più di fatti, esattamente quei fatti che chi ha volontà forti di dirigere il mondo verso i suoi interessi, manipola. Forse costoro dirigono il mondo proprio perché si sporcano le mani con le contraddizioni del mondo reale mentre molti di noi preferiscono quello ideale, liscio, razionale, etico, ma esistente solo nelle nostre menti. Forse dovremmo anche noi che abbiamo una diversa visione del mondo, occuparci dei fatti per manipolarli in direzione dei nostri interessi, non è che denunciando la manipolazione i fatti scompaiono. Ho letto opinioni di alcuni che pensano a piani concertati e segreti per spingere alla migrazione dall’Africa all’Europa, beh magari dare un occhio alla demografia delle due sponde, alle due medie di reddito, all’influenza dei nuovi media che proiettano lì un’immagine dell’Europa come il migliore dei mondi possibili, alla vendita di armi che lì creano conflitti endemici, studiare un po’ le complessità post-coloniali, indagare su i disegni del radicalismo islamico powered by Saudi Arabia, aiuterebbe a cercare meno fantasmi ed ad abituarci a fare i conti con la complessità del mondo. Quando c’è una popolazione in crescita esponenziale di 18 anni di età media, priva di prospettive economiche, politiche, sociali, non c’è bisogno di resuscitare Kalergi o Soros per spiegare le migrazioni. Se poi qualcuno gli dà una mano o agisce come lo stesso Sarkozy con Gheddafi o cerca di preparare in favore del’accettazione acritica di questo fenomeno che ha forti e proprie ragioni endogene, allora critichiamolo ma la domanda “cosa facciamo di questo fenomeno, concretamente” rimane sul tavolo. Io sarei per prenderci la responsabilità della risposta.

E’ proprio in vista di questi problemi che sono altrettante sfide che ritengo utile noi si pensi ad un nuovo e massivo soggetto statale in grado di far fronte alla situazione, altrimenti i nudi e caotici fatti, più la manipolazione che ne fanno soggetti che poi non ne pagano le conseguenze (perché non si trovano dirimpetti alle coste del Mediterraneo meridionale), ci porteranno al contagio del caos. A quel punto, le chiacchiere staranno a zero e il piagnucolare sul “è colpa di tizio o di caio” non sposterà lo zero di una virgola.

(11 ottobre 2017)

 

Link articolo: “È l’era della Complessità”. Intervista a Pierluigi Fagan

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