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Ricerca delle origini della cultura della complessità: Aristotele

Duemilaquattrocento anni separano il concetto di complessità ed Aristotele. Eppure almeno due importanti coordinate del pensiero complesso si ritrovano già nell’opera dello Stagirita... [Pierluigi Fagan]

Ricerca delle origini della cultura della complessità: Aristotele
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22 Febbraio 2018 - 09.14


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di Pierluigi Fagan

Quando si cercano le radici di un concetto che compare molto tempo dopo dal tempo in cui si cercano le radici, occorre improntare la ricerca a criteri non deterministici. Complessità è un concetto di cui -tra l’altro- non esiste una universale codifica accettata, un concetto che prende corpo soprattutto nella seconda metà del XX secolo mentre le radici, per ogni elemento di conoscenza della tradizione occidentale, non possono che retrocedere a gli antichi Greci. Sono quindi circa duemilaquattrocento anni quelli che intercorrono tra il concetto di complessità ed Aristotele. Eppure, qui si sosterrà che almeno due importanti coordinate del pensiero complesso, si ritrovano nell’opera dello Stagirita, in nessuno degli antichi prima di lui ed in nessuno altro dopo di lui, almeno fino al medioevo e poi al moderno.

Queste due coordinate sono: il concetto di sistema, la forma sistematica della conoscenza. Cominciamo dalla seconda. Aristotele, appartiene a quella esigua schiera di filosofi, detti appunto sistematici. Oltre a lui, Tommaso d’Aquino, Kant e sopratutto Hegel. Il filosofo sistematico tratta qualunque oggetto del pensiero. Le tre grandi famiglie della conoscenza umana sono i discorsi sull’uomo, sul mondo, sulle relazioni tra uomo-uomini e mondo. Il filosofo sistematico li affronta tutti con la medesima curiosità ed impegno, “enciclopedico”, termine coniato nel XVIII secolo, è il termine che illustra questa vocazione comprensiva del conato conoscitivo. E che questo fosse lo spirito conoscitivo di Aristotele, lo sappiamo in tutta evidenza da una serie di fatti. Ad esempio aver dato dell’uomo varie definizioni com’era d’uso tentar di fare all’epoca ma a differenza di altri, aver individuato proprio nel conoscere l’essenza umana[1]. Da questo, il ritenere la vita di studio massima felicità ed aspirazione esistenziale, stante che il sistematico sa già che morirà senza aver concluso il suo ampio sforzo di conoscenza e che comunque, se una vita non basta, essa va comunque certo dedicata interamente all’impresa impossibile. Infine sia la forma e l’estensione degli studi del Greco, sia la forma stessa dei saperi trattati nel suo Liceo e la stessa  forma della sua mitica biblioteca, riflettono questa vocazione all’ampiezza: fisica, biologia, anatomofisiologia, zoologia, meteorologia, astronomia, matematica e geometria sebbene solo come linguaggi e lontano dalla fascinazione un po’ mistico-pitagorica provata dai platonici[2], linguaggio, poetica, retorica, logica, epistemologia, psicologia, ontologia, etica ed una prima forma di antropologia, politica, teologia.

Questo stesso approccio sistematico, è implicito nella cultura della complessità. Una cultura terza rispetto alla divisione rancorosa tra scienze dure e saperi umani, che siano definiti scienze umane o saperi umanistici. Molto si è scritto, soprattutto di negativo, verso questa vocazione onnivora della conoscenza e quasi tutto della struttura dei saperi, dalla scuola alle pubblicazioni alle carriere dei docenti, va in senso contrario. Un po’ naturale apertura a chioma dell’albero delle conoscenze, un po’ speciazione di diversi metodi tra cui la traumatica separazione del sapere scientifico e delle varie scienze umane da quello che era l’indiviso approccio filosofico, un po’ forma mutuata da quella celebrazione della divisione del lavoro che con la sua specializzazione aumenta la produttività di ogni compito[3], l’architettonica del sapere moderno è strettamente divisionalizzata . Tutto questo ha dato alla forma della conoscenza umana occidentale, un carattere sempre più micro, particolare, irrelato,  perdendo inevitabilmente l’aspirazione macro, generale, correlata che soggiace all’impostazione sistematica. Se Hegel vedeva l’intero come unico luogo del vero, non si capisce come la nostra forma delle conoscenze ci si possa avvicinare visto che inquadra solo parti, ultimamente sempre più piccole.  Non è questa forma che si critica ma la sua unicità, il fatto che lo sforzo conoscitivo paga i vantaggi dello sguardo limitato e ravvicinato con la totale assenza di inquadrature generali. Del resto rimane incomprensibile il ragionamento di coloro che contestando alla mente umana la capacità di afferrare gli interi fanno di questa minorità il motivo per istituire il paradigma unico della specializzazione. Per il pensiero il problema è semmai verificare se esistono o meno degli interi e poi attrezzarsi per scalarne la conoscenza.  In più, che fosse il Dio di Tommaso o lo Spirito di Hegel o la Ragione di Kant, i tentativi di sistema di conoscenza sono apparsi mossi da una di volontà di potenza omniesplicativa, un voler chiudere gli interi, se non il Tutto, in un letto di Procuste che li riducesse a formuletta passepartout.

Ma in Aristotele, così come al fondo della stessa cultura della complessità, non c’è alcuna foga riduttiva, il sistema non chiude, rimane vocazione aperta che mai giunge al termine ma non per questo rinuncia al compito. Non c’è una formuletta chiave che permette ad Aristotele di scardinare tutte le serrature e fa convergere tutte le prospettive ad un fuoco. Come ci sottolineano gli autori di questo studio, Aristotele, secondo la definizione di Ingemar During, è un filosofo Problemsystematiker, un sistematizzante i problemi, non di soluzioni. L’espressione del filosofo che continuamente cerca e si stupisce delle cose che osserva, compendia bene questo spirito esploratore del Tutto, che cerca di mettere ordine nel Molteplice eppure prova altrettanto piacere a sapere che questo molteplice da ordinare non finirà mai,  la famosa ricerca che ha fine in se stessa di cui ci ha parlato Aristotele nell’Etica nicomachea[4]. Altresì, è chiaro che tale immenso compito, pur essendo poi condotto sempre da un singolo, certo migliora il suo risultato se condotto da un gruppo di intelletti in sinergia[5], sia essa una scuola sincronica, sia essa la tradizione diacronica. Del resto, sebbene ci fossero trattati essoterici aristotelici in forma di dialoghi, lì dove il pensatore parla a tutti, quelli che non solo ci sono giunti ma su i quali evidentemente l’Autore spese il maggior tempo, sono gli esoterici che intendevano tesaurizzare il sapere a beneficio di tutti coloro che a questo compito si sarebbero dedicati.  Con i “libri di studio”, Aristotele anticipava quella che poi sarà la rivoluzione quattrocentesca della stampa, la condivisione del sapere come opera aperta collettiva, sviluppata nel tempo. Altresì, la nota formula “… le opinioni condivise da tutti o dalla maggioranza o dagli esperti”[6] a cui ricorre spesso, riepiloga questo tesoro di conoscenza ereditato per correggerlo o migliorarlo ma poi lasciarlo a sua volta eredità ad altri poiché il sapere appartiene e serve a gli uomini tutti. Lo spirito del sistematico, del cartografo del Tutto che osserva più le architettoniche per servirsi di un concetto che Kant usa a chiusura della sua prima e più famosa Critica, non porta  alla vanità di chi ha inventato questa o quella colonna, capitello, scalinata, fregio o arco. Ed ecco anche quella premura di chiarire ex-ante al lettore di quale perimetrato aspetto del Tutto si tratterà nello specifico trattato tematico, quali i suoi confini e contesti. Così quella altrettanto buona abitudine, poi ripresa dall’Illuminismo tedesco, di introdurre i concetti con la specifica del loro significato “con xyz intendo …” e non già quelle opache matasse affabulatorie che dopo quattrocento pagine ancora non ci danno chiarezza precisa il cosa l’Autore volesse intendere, quello sconfinamento del filosofo nell’impressionista linguistico, che fa perdere al concetto risoluzione. E’ questo impegno a conoscere che Aristotele giunge a sacralizzare nella figura del “pensiero che pensa se stesso” la cui dichiarazione di amore, Hegel userà a chiusura della sua Enciclopedia delle scienze filosofiche[7]. Un impegno umano patrimonio dell’umanità intera[8].

Nel più specifico, colpisce il fatto che nel Liceo, fossero collezionate ben 158 costituzioni di altrettante poleis o l’aneddoto che vuole Platone colpito dalla mancanza del collega nella Accademia dire a gli altri “Andiamo a casa del lettore” con una punta di veleno ironico nel rimarcare questa dedizione allo studio, piuttosto che il librarsi voluttuosamente nella libera creatività intellettuale o il fatto che ben un terzo degli scritti aristotelici fossero di biologia ed il fatto che in uno di essi notasse “… l’infantile disgusto” che molti provavano “verso lo studio dei viventi più umili”[9]. Probabilmente molti suoi colleghi ridicolizzavano questa sua attenzione ad ogni tipo di sostanza, ma l’orgogliosa rivendicazione di questo come vero e proprio metodo, lo portava a contro giudicare “infantile” l’atteggiamento di chi già aveva diviso a priori il mondo tra “alto e basso”, prima ancora di entrarvi in contatto, di chi si occupava più di giudicare che di comprendere. Non c’è disciplina umana più intrinsecamente dedita allo sguardo complesso della biologia, lo stesso fondatore della moderna Teoria dei sistemi, Ludwig von Bertalanffy era biologo e di questa tradizione, Aristotele fu il fondatore.

Nel suo continuo corpo a corpo con l’impianto del maestro Platone, continua è la critica a due esiti fatali di quel modo di procedere: separazioni e gerarchie. Aristotele, purtroppo, come poi vedremo a proposito dell’ontologia sistemica, non aveva il concetto di relazione così come noi lo intendiamo, non c’era nel pensato del suo tempo. La sua critica di queste continue separazioni, non giungeva ad un indistinto olismo quale poi invece frequenteranno molti neo-platonici, ma a ricostruire la fitta rete di relazioni tra cosa e mente che la conosce, tra materia e forma da una parte e ragion pura (categorie, logica) dall’altra, tra potenza ed atto come traccia del divenire. Togliendo di mezzo il termine medio delle idee che raddoppiava ontologicamente il mondo per permettere all’intelletto di parteciparvi, dissolve anche ogni giudizio di valore che portava Platone a costruire continuamente piramidi in cui l’ideale era il bene e l’incarnazione particolare la degradazione di quel bene assoluto. Non era nella strumentazione concettuale del tempo, ma la battaglia gnoseologica (oggi si dice epistemologica) di Aristotele era in favore della relazione, quindi all’opposto dell’assoluto. Ne discendeva implicitamente anche una pluralizzazione delle cause (ed era questa condizione plurale che portava il filosofo, propriamente il “conoscitore delle cause”, a dover indagare il Tutto nei suoi specifici aspetti) e l’impossibilità di una via di conoscenza privilegiata, una scienza unica com’era la dialettica per Platone, utile strumento logico ma non chiave che apre tutte le porte (come poi lo stesso Hegel pretese della sua versione di dialettica, nella sua Scienza della logica), poiché le porte hanno tutte serrature diverse. Se le cose sono ontologicamente diverse se la loro struttura è diversa e diverso è il comportamento, la loro “natura”, la loro storia e contesto, come pensare di poter usare una solo strumento per indagarle tutte?

Verrebbe da chiamare a giudizio quegli ostinati che pretenderebbero un primato del sapere umano su quello scientifico o viceversa del sapere scientifico preciso e quantificante per cose che precise non possono essere e di cui non ha senso il giudizio di sola quantità. Quella bufera di metafore e analogie confondenti che fanno dell’uomo un atomo o dell’atomo un indiviso o della facoltà auto regolatrici del mercato una forma di provvidenza (mano invisibile) o tante altre assurdità logiche ed epistemologiche nelle quali ancora naufraghiamo di continuo. Inclusa quella forma di riduzionismo epistemologico che pretenderebbe di sostituire la parola e la proposizione con le matematiche, laddove queste sono pertinenti ed utili ai soli fenomeni della natura non intenzionale, per non parlare dell’incredibile longevità dello sconclusionato dibattito su natura e cultura o meglio sulla loro disputa su chi accoglie al suo interno categoriale l’umano.  E per venire all’oggetto privilegiato, l’uomo, ecco che Aristotele rimproverava a Platone quello che l’intera cultura della complessità rimprovererà a Descartes, quell’orribile separazione mente o anima o psiche da una parte e corpo dall’altra[10]. Infine e di nuovo, la eterna battaglia tra idealismo e realismo che portava Aristotele a giudicare il progetto della città ideale di Repubblica, bello senz’altro ma senz’altro anche impossibile, irrealistico, non concreto, non viabile, quindi inutile. Di contro, la fusione degli orizzonti ideali e razionali in quel “desiderio razionale” che deve registrare i rapporti tra idee e realtà, per esser davvero perseguibile e non sfogo nevrotico della mente semplificante insofferente ai condizionamenti della realtà. Quel “desiderio razionale” che molto assomiglia all’utopia concreta e possibile, magari nel tempo lungo, di Ernst Bloch. Infine, quella Via della medietà che risulta invisibile nello spazio tracciato dalle grandi opposizioni polari che da dicotomiche ed in fondo indecidibili, vanno portate a reciprocamente relative, quel solvente che trasforma il pensiero sostituendo alla congiunzione “o”, la “e”. Ne nasce una via moderata alla verità, una endoxologia[11] che media i vari sensi comuni qualificati, una verità magari provvisoria e meno nitida, ma forse più umana oltreché più vera.

Non tutto è chiaro nel sistema aristotelico[12] e non tutto precisamente può corrispondere al nostro modo odierno di pensare, egli pur sempre proveniva da venti anni di Accademia e le condizioni di pensabilità del suo tempo, gli stessi vincoli della sua condizione esistenziale, sociale e politica, lo legavano al senso comune filosofico del suo tempo e soprattutto alla attrazione esercitata  nel pensiero greco dal centro di gravità platonico. Inoltre, la stessa trasmissione delle sue opere, per non parlare delle interpretazioni, non ci danno sicurezza testuale se non appellandosi alla stessa totalità dei suoi scritti al cui studio, pochissimi dedicano la vita. Ma se torniamo alla splendida immagine della Scuola di Atene di  Raffaello, dovendo scegliere da quale parte trova origine quella lunga catena di pensieri che darà poi vita alla cultura della complessità, non c’è dubbio che l’origine si trovi nell’uomo con il vestito azzurro ed il libro in mano.

Se tutto questo universo molteplice ed eterogeneo da indagare con scienze e discipline appropriate, diverse per metodi e scopi, è proprietà della conoscenza umana, cercare l’ordine, il comune, la riduzione utile a pensare nei limiti delle nostre ridotte facoltà umane come lo si soddisfa? Si tratta allora di riportare la molteplicità ad unità, sebbene questa sia di natura limitata ovvero formale ed analogica, quella “relazione ad uno” che porta le categorie a convergere sul presupposto della sostanza. Che cos’è una sostanza? Quali sono le proprietà comuni a ogni ente in quanto è? Le proprietà, le relazioni (sebbene, ripetiamolo, in una accezione diversa e più limitata rispetto a quella che noi oggi diamo al termine) indagate dall’apparato categoriale, i concetti di atto e potenza, il funzionamento dell’apparato logico. Organon  e Fisica quindi e quei libri centrali (VII-VIII-IX) di Metafisica che indagano la filosofia prima, prima non perché in testa ad una gerarchia ma perché è la prima forma di “pensiero che pensa se stesso” che incontriamo, quella che ha l’oggetto inteso come ente in quanto tale, quella che più tardi verrà chiamata ontologia. Gnoseologia o come oggi si chiama epistemologia ed ontologia, queste le parti essenziali del nostro apparato cognitivo che cerca l’unità e la com-prensione di tutto questo roteante universo che è l’essere.  Come ed a cosa pensiamo, quando pensiamo a ciò che pensiamo.

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Dopo aver analizzato la forma generale della conoscenza, veniamo ora alle definizioni dell’oggetto di ogni possibile conoscenza. Molto tempo dopo Aristotele, nel XVII secolo,  questa area dell’indagine filosofica è stata chiamata “ontologia” (discorso su ciò che è), ma per il Greco, era la filosofia prima poiché non c’è indagine (pensiero, discorso) senza oggetto e quindi l’indagine prima è proprio quella sull’oggetto in quanto tale. L’oggetto in quanto tale è detto ente (ciò che è esist-ente), la sostanza è il significato focale di un ente (l’essenza). In senso statico ciò per cui questa cosa è questa cosa, in senso dinamico come un sostrato che può assumere, cambiandola, una forma. Questa forma è detta appunto eidos (forma) o morphè (struttura). E’ questa che identifica la sostanza. Dei tre candidati a ruolo di sostanza, Aristotele scarta la materia e tiene salva l’unione di materia e forma ma poiché per giungere a questa unione è indispensabile avere come componente la forma, in senso logico-cronologico è questo l’elemento essenziale che fa di una cosa, questa cosa. Sarà questa forma a dare alla materia che è solo “in potenza” qualcosa, il suo essere “quel qualcosa, in atto”. Pensare la sostanza è sempre pensare ad un sistema come sua causa formale.

A questo punto, dobbiamo chiarire quale sia il nostro specifico interesse sul concetto di sostanza. Esso è sia teoretico che pratico. Ci interessa guidare l’intenzione della mente a configurarsi a priori la sostanza per indagarla nel ciò di cui è fatta (materia e forma), come funziona in atto, perché e come altrimenti potrebbe funzionare in potenza per poterla manipolare, per poterla prevedere, per poterla com-prendere nei molti modi in cui e di cui si dice.

In senso sia teorico che pratico, la sostanza di qualsiasi cosa, è descrivibile come un sistema. Ogni cosa materiale o immateriale è descrivibile come un sistema. E questa universalità non è insignificante ma densa di possibili, ulteriori sviluppi di una filosofia che è molto promettente per la nostra attuale condizione-nel-mondo. Lo studio delle molteplicità coerenti che sono i sistemi, le loro nature di base, le loro interrelazioni, in quantità e qualità, il come emerge la ragione che le unisce, che risultati ci sono collegando un sistema ad una rete di sistemi in un meta-sistema di ordine superiore, quali influenze sul sistema stesso che ha partecipato alla costruzione successiva, come tutto ciò reagisce con ed a ciò in cui è immerso, il suo contesto,  l’ambiente. Quanto tempo esistono i diversi sistemi dall’ora e mezza della libellula effimera, ai miliardi di anni delle stelle o delle galassie (o degli ammassi di galassie), dalle idee la cui moda imperversa per un mese o meno ai grandi quesiti esistenziali o quel pensiero di dio che pare antico quanto l’uomo stesso. Insomma c’è un ricco programma di ricerca da svolgere. Questo, più o meno, si propone essere ciò che dovrebbe scaturire e che già scaturisce nella e dalla cultura della complessità. Questo sembra anche il traguardo a cui giunge Aristotele sebbene non esplicitamente, laddove afferma “Infatti, di tutte le cose che hanno molte parti, e il cui insieme non è come un ammasso e il cui intero è qualcosa di più delle parti, c’è una causa (dell’unità);”[13]. Sistema è sostanza più ancora che come pura forma come unione di materia e forma nel mondo materiale, di varietà ed interrelazioni in senso più generale e propriamente immateriale, parti ed interrelazioni legati dalla finalità di essere qualcosa di persistente nel tempo.

Il termine sistema non esisteva nell’antichità classica, sebbene pare ne abbia fatto fugace uso il più tardo Sesto Empirico. Nel significato di parti in relazione o interrelazione che formano una unità sensibile al suo ambiente, emerge in filosofia soprattutto tra XVII e XVIII secolo. Ma nel libro Delta, V, di Metafisica, in quella specie di vocabolario filosofico che chiarisce i significati dei concetti di base, ci sono sia “parte”, sia “intero o tutto”, più o meno inquadrati secondo un senso che permane nel moderno, c’è l’Uno ed il Molteplice. C’è anche “relazione” ma in una accezione particolare e più limitata, accomunata al significato di “relativo”. Di “relazioni” Aristotele enumera i significati di: relazioni numeriche, l’azione che intercorre tra attivo e passivo (relazioni di potenza), nel senso di “riferimento”. Di queste, solo la seconda ha similitudini con il significato moderno ma ne è solo uno dei molti modi in cui s’intende relazione o interrelazione, come struttura che connette le parti. Al precedentemente citato passo del Libro VIII di Metafisica, Aristotele aggiunge che “infatti, anche nei corpi causa dell’unità, talora è il contatto, talaltra, è una viscosità o qualche altra affezione di questo tipo”[14] . E’ chiaro che ad Aristotele, nell’ottica della sua indagine sulla sostanza, interessava meglio definire altri aspetti che non la sua natura sistemica e non è un caso che questo concetto emerga più facilmente nel moderno quando tra sistema astronomico (Galilei) e scoperta del sistema circolatorio (Harvey), s’impone la concettualizzazione della cosa fatta di diverse parti tra loro in un qualche forma di coerente e non accidentale rapporto stabile o dinamico e continuato. Si forza dunque la proiezione a ritroso delle intenzioni nel dire che quella di Aristotele è una ontologia sistemica. Però sia la identificazione della sostanza nella forma o struttura, sia la presenza concettuale delle parti, dell’intero e delle relazioni (sebbene non indagate a fondo), la differenza tra ammasso e intero e la non riducibilità di questo alle singole parti (o come più tardi si dirà, “il tutto è più della somma delle singole parti”) sono tutte componenti già presenti. La celebre massima prima citata e che è alla base dell’emergentismo che nega a priori quella reverse engineering che porta al riduzionismo, che è cardine della cultura complessa e che si potrebbe anche aristotelicamente dire quel processo che porta la potenza in atto che a sua volta diventa in potenza per successive forme in atto di crescente complessità, venne forgiata in ambito della psicologia della Gestalt, a sua volta promossa da quel Christian von Ehrenfels che aveva studiato con Franz Brentano le cui lezioni di filosofia erano gravide di ontologia aristotelica, la stessa condivisa da Alexius Meinong, a cui dobbiamo il termine “complessione”.

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Aristotele non sarà il fondatore di una cultura della complessità che emergerà solo duemilatrecento anni dopo, troppo il tempo per ritenerlo seme della pianta. Ma rispetto a due aspetti cardine di questo sistema di pensiero, l’oggetto della conoscenza ed il sistema della conoscenza, l’ontologia e la gnoseologia, ci sono in lui chiari segni di comune genetica. La natura esoterica dei suoi scritti, natura non priva di oscurità e qualche volta contraddizione visto che non è sempre chiara la cronologia degli scritti, né la fedeltà e soprattutto neutralità dei trasmettitori, nonché le peripezie interpretative che dagli arabi a gli scolastici arrivano a Kant ed Hegel, il ritorno con Brentano tenuto poi sottotraccia dalla levata di scudi contro la “metafisica” genericamente intesa (termine mai usato da Aristotele che si sarebbe certo imbizzarrito per una approssimazione concettuale così priva di essenza), fino alla ripresa di interesse per l’ontologia contemporanea[15], ingombrano il cammino a ritroso di chi voglia capire se e quanta genetica in comune c’è e per quali strade s’è persa prima di riemergere solo nel XX secolo e specificamente nella sua seconda parte col concetto ancora nebuloso di “complessità”.

Poiché la cultura della complessità più che un sistema preciso tipo galassia, genera una nebulosa, forse la difficoltà a dargli definizione, concretezza sintetica, fondazione per quanto approssimata, può esser affrontata proprio tornando alle origini onto-gnoseologiche della conoscenza. La cultura della complessità ha al suo interno anche il concetto di -dipendenza dalle condizioni iniziali-. Forse essa stessa dipende per certi versi dalle condizioni iniziali del pensiero occidentale, lì dove l’antico “maestro di color che sanno” (Dante Alighieri), cercava con irrefrenabile curiosità onnivora ed ordine mentale, di fare mappe per meglio comprendere l’Uomo, Il Mondo, la loro relazione.

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[1] Metafisica I, 980a21-b25

[2] “Per i filosofi di oggi la filosofia ha finito per identificarsi con le matematiche” Metafisica I Alpha, 9, 992a32 sgg. . La stessa sindrome sembra oggi divorare gli economisti e molti scienziati sociali, soprattutto di ambito anglosassone.

[3] Che troviamo nella pagine di apertura della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith che, con disinvoltura, passa dalla fabbrica degli spilli alla proposta divisione delle cattedre di studio della filosofia stessa di cui lui era docente (filosofia morale).

[4] EN X, 7, 1177b19-31

[5] EN X, 7, 1177a32 sgg.

[6] Topici, I, 14, 105a35 sgg.

[7] F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Laterza 2009

[8] Metafisica II, 1, 993a30-b11,

[9] Parti degli animali I, 5, 645a15 sgg.

[10] De Anima

[11] Da endoxa: “premesse condivise da tutti, o dalla maggioranza, o da tutti gli esperti, o dalla maggioranza di questi, o almeno dai più famosi” Topici I, 1

[12] Deliziosa la metafora usata da Strabone il quale ci racconta delle peripezie dei manoscritti di Aristotele che sarebbero stati addirittura mangiati dai vermi sicché, chi poi gli ha ricostruiti, ha dovuto inventare qualcosa da mettere nei buchi, oscurandone il senso.

[13] M, H, VIII, 1045 a 3 sgg.

[14] M, H, VIII, 1045 a 10-12

[15] Storia dell’ontologia, a cura di M. Ferraris, Bompiani, 2008.

 

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