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La sinistra europea avanza ma non si dice

La sinistra europea avanza ma non si dice
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10 Giugno 2010 - 23.10


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euroleftdi Alessandro Cisilin, da Galatea European Magazine – Maggio 2010.

Ci sono tanti modi per raccontare l”esito di un processo collettivo complesso qual è una tornata elettorale europea. Quel che piace di più a larga parte della stampa precarizzata dei nostri giorni, specie in Italia, è limitarsi alle facce di qualche leader, sciorinarne i voti conseguiti per alchimie estetiche, e infine pronosticarne le conseguenti poltrone. Si incrociano un paio di lanci di agenzia sulle cifre e sulle dichiarazioni dei volti noti e il pezzo è fatto.

L”analisi non c”è più, se non infilando a titolo esplicativo una terza agenzia presa da altri eventi internazionali del giorno, ipotizzando, nella fattispecie, presunte ripercussioni della crisi greca e delle operazioni finanziarie di Bruxelles, Francoforte e Washington per salvare l”euro.

 

Questo si è scritto sulle recenti elezioni “nella più antica – dicono loro – democrazia del mondo“, ovvero il Regno Unito, nonché nel più popoloso land del più grande paese europeo, ovvero lo Stato tedesco del Nordreno-Westfalia.

 

Neanche una parola sul fatto politico probabilmente più rilevante di ambedue le tornate, soprattutto se analizzate insieme, ovvero l”avanzata della sinistra rosso-verde.

 

Elezioni raccontate come si trattano tipicamente gli “esteri”, ovvero spiegando le relazioni internazionali con la sola arma narrativa dei confronti diplomatici. Tanti sondaggi e show televisivi, poca politica, società inesistenti, solo intricate epopee familiari tra potenti uomini e donne in stile soap opera.

 

Eppure, in ambedue i processi elettorali, un fenomeno politico è emerso in modo piuttosto lampante: gente sempre più povera che ha smesso di fidarsi delle sirene liberiste suonate senza contrappeso negli ultimi trent”anni, e dice basta alla logica dei tagli al welfare, ovvero all”essenza storica della politica economica europea.

 

Nel caso britannico tale lettura è naturalmente complessa, giacché a vincere, dopo tredici anni di governi laburisti, sono stati i conservatori. Ma il dato più significativo e sorprendente delle urne oltremanica è stato proprio il trionfo mancato.

 

Che i Tories di Cameron non raggiungessero la maggioranza assoluta era difficilmente prevedibile fino a poche settimane fa. I segnali c”erano tutti, aldilà dell”indubbio difetto di carisma e abbondanza di gaffe del premier uscente Brown, nonché della crescente impopolarità del predecessore Blair, rientrato in scena nelle ultime battute di campagna elettorale.

 

C”era l”indicazione dell”esito catastrofico di tutte le prove elettorali laburiste negli ultimi anni, a livello locale ed europeo. C”era il naturale esaurirsi di un “ciclo politico”, coi britannici – ben di più dei concittadini europei, e soprattutto degli italiani – a rivendicare l”antico utilitarismo benthamiano di chi ama pragmaticamente cambiare idea e voto.

 

C”era una congiuntura economica difficilissima, con una crisi finanziaria che ha colpito le certezze della City e le tasche di un intero popolo ben più che nell”Europa continentale. C”era la delusione per i modesti risultati del lungo monopolio governativo dei Labour nei confronti dei ceti più deboli. C”era la preoccupazione collettiva per la gestione del bilancio statale, con la Commissione europea a stimare recentemente il sorpasso del deficit britannico su quello greco entro quest”anno.

 

E infine c”era, a mortificare le prospettive laburiste di rimonta e di visibile distinzione dal centrodestra, un”imbarazzante somiglianza tra le promesse elettorali dei tre partiti maggiori in tema di politiche fiscali e sociali, con la significativa aggravante dell”assenza di riferimenti al “problema della disuguaglianza” nel programma socialdemocratico.

 

Il disastro sembrava dunque del tutto ineludibile, e invece non c”è stato. Al contrario, i laburisti hanno recuperato terreno rispetto alle ultime tornate, riprendendosi il secondo posto non solo nell”assegnazione dei seggi (fatto ritenuto possibile dai sondaggisti della vigilia, data l”articolazione dei seggi uninominali), ma anche nel computo complessivo dei voti.

 

E alla tenuta laburista va aggiunto, a sinistra, il boom dei verdi, per la prima volta eletti a Westminster. L”ultradestra del British National Party è stata invece rigettata nel dimenticatoio, a due anni dal trionfo alle europee, e gli stessi liberal-democratici del rampante Clegg, pronosticati a uno storico sorpasso, sono stati ricacciati al tradizionale ruolo di terza forza largamente minoritaria.

 

Di più, se a livello nazionale il Labour ha limitato i danni, a livello locale, nelle amministrative tenutesi qualche giorno più tardi, è stato praticamente un trionfo. Il centrosinistra ha vinto ovunque già governava e ha inoltre strappato ben sedici consigli locali all”estrema destra, ai conservatori e, soprattutto, di nuovo, ai liberaldemocratici, ottenendo, con circa quattrocento nuovi consiglieri locali, il miglior risultato negli ultimi trent”anni.

 

I conservatori non ce l”hanno dunque fatta, e i Lib-Dem sono risultati i grandi sconfitti. E la ragione di quest”esito modesto è la stessa del costante declino dei Labour nell”ultimo decennio, ossia gli scarsi risultati in materia di lotta alla povertà.

 

I laburisti hanno esibito cifre ufficiali di una diminuzione dell”indigenza, con mezzo milione di bambini poveri in meno nella prima decade di loro governo. A livello macro il decremento è però risicato e, perdipiù, neutralizzato dalla nuova ascesa della povertà registrata dal 2007, sicché il Regno Unito si mantiene dolorosamente ai vertici europei in materia.

 

In altre parole, i laburisti hanno concesso qualche fondo in più ai programmi assistenziali e scolastici per i ceti più deboli, ma si è trattato di un”elemosina, e non di un cambio strutturale in tema di welfare. I britannici hanno però memoria del tracollo sociale nella fase precedente, ossia nel quindicennio thatcheriano, quando la stessa povertà si impennò da un settimo della popolazione infantile a un terzo.

 

Inoltre, negli ultimi anni, la stessa classe media dell”opulenta City è cambiata, e chi fece fortuna nel liberismo degli anni ottanta e novanta ora deve fare spesso i conti con le difficoltà economiche e con l”invecchiamento.

 

Mentre le certezze finanziarie svaniscono, l”ospedale pubblico di quartiere che non c”è più torna a essere importante e, a chiuderlo – lì la gente appunto ricorda – furono i Tories.

 

E in tale quadro, il presunto “superamento a sinistra” dei Lib-Dem, con la loro enfasi salvifica sul mercato libero da monopolisti (Stato compreso) che tutelerebbe i deboli meglio dei Labour, è rimasto un mito poco creduto, e a ragione, vista la successiva alleanza di governo coi conservatori.

 

Ma se di quanto accaduto a Londra in qualche modo si è scritto, il tonfo del centrodestra in Germania è andato subito nel dimenticatoio, salvo sommari resoconti dell”indomani infarciti di formule cervellotiche quali: “La Merkel paga l”assegno staccato alla Grecia“. Come se chi vota a sinistra fosse contrario alla solidarietà internazionale, a dispetto della tradizione antinazionalista del proletariato europeo.

 

E infatti tale chiave di lettura è una sciocchezza, tanto più che la regione industriale di Duesseldorf è a fortissima incidenza di immigrati greci.

 

E” vero che lo stanziamento tedesco di ventidue miliardi di euro ha sollevato forti obiezioni a sinistra, ma la loro motivazione non stava in un presunto egocentrismo teutonico dell”operaio del Nordreno Westfalia, bensì nelle medesime ragioni di chi scende in piazza ad Atene. I copiosi salvataggi – sotto forma di prestiti, peraltro – si fanno solo a tutela delle rendite di borse e banche, mentre a pagare si obbliga l”ennesima volta il lavoro e il welfare.

 

Obiezioni politiche, non nazionali, d”altronde le stesse che hanno chiamato in causa la politica interna del centrodestra tedesco, garantendo la tenuta elettorale dei socialdemocratici e il boom di consensi dei verdi e della Linke, il raggruppamento radicale che ha superato per la prima volta nel Land il quorum del 5 per cento.

 

In un contesto federale e statale di crescente povertà, i democristiani e i liberali avevano un programma economico che avrebbe aggravato le disuguaglianze sociali anziché ridurle, e con la sconfitta a Duesseldorf hanno perso la maggioranza anche nella Camera degli Stati. La sberla è stata pesante e l”esito immediato.

 

All”indomani del voto la maggioranza federale decapitata ha comunicato la rinuncia a un”imposta sanitaria uguale per tutti (senza distinzioni di reddito) e una riforma delle aliquote fiscali che avrebbe regalato una quindicina di miliardi ai redditi medio-alti, con l”accompagnamento di nuovi tagli al welfare.

 

A Düsseldorf come a Londra, e probabilmente ovunque in Europa, sta accadendo banalmente questo: a dispetto dei vincoli di bilancio e della delicata congiuntura finanziaria continentale le persone non vogliono più sentir parlare di tagli al modello sociale europeo o di altre iniquità fiscali.

 

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