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'L''Italia nel pallone'

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28 Giugno 2010 - 21.36


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forzaazzurriranciadi Alessandro Cisilin – da «Galatea European Magazine», luglio 2010.

In un paese da sessanta milioni di allenatori della nazionale la pseudo-antropologia delle gesta calcistiche è un esercizio intellettuale sterilmente abusato. Stavolta però ci sta, anche perché l”analisi è drammaticamente semplice ed eloquente.

La figuraccia sportiva degli azzurri in Sudafrica ̬ il nitido specchio della miseria politica e sociologica italiana dei nostri giorni. Fosse intervenuto un briciolo di buona sorte Рil pallone di Di Natale che varcava la linea, un difensore slovacco che salvava Quagliarella dal fuorigioco, Pepe che non arrivava sbilenco a due metri dalla porta in zona Cesarini Рil concetto sarebbe uscito smussato.

 

La Nazionale avrebbe passato il turno per poi perdere onorevolmente con un sofferto gol da parte dell”Olanda o di qualche altra potenza del calcio. Invece no, fuori subito, ultimi degli ultimi nel girone più facile.

Il risultato è casuale, la prestazione no“, sentenziò una celebre di Zeman, ma per una volta gli esiti e i meriti hanno definito in modo identico i contorni della catastrofe. E a proposito di massime degli allenatori del passato, il volto compassato di Lippi, sia prima e che dopo l”eliminazione, rilancia, per stridente contrasto, l”esilarante replica di Nereo Rocco a un giornalista alla vigilia di un Padova-Juventus. “Vinca il migliore“, esortò il reporter. E il capostipite triestino del calcio all”italiana, che allenava i robusti ma modesti veneti, rispose col famoso “Speremo de no“. Un”altra personalità, un”altra Italia.

L”allegria, l”autoironia, la forza che sprigiona dalla coscienza dei propri limiti. Lippi è un uomo dell”odierno centrosinistra, un Pd dichiarato. Moderato, che rispetta i valori repubblicani della resistenza ma non lesina sponsorizzazioni canore alla riconquista nazionalpopolare degli eredi Savoia. Soprattutto, non esita di trattare da cretini i lavoratori dell”informazione, colpevoli di costringerlo al compito per il quale è stato lautamente pagato: parlare di calcio, ai giocatori ma anche ai reporter, perfino quando sono in ballo le più sterili polemiche e le meno sostenibili chiacchiere tecnico-tattiche, perché pur sempre – obblighi contrattuali con il servizio radiotelevisivo pubblico a parte – della più grande passione popolare del paese si tratta. E si rispetta, lasciando a casa eventuali istinti arroganti.

Siamo i campioni del mondo“, aveva ripetuto più volte tra un indolente ghigno e l”altro, per liquidare le critiche e al contempo per caricare la squadra. E da progressista perorava esplicitamente un”Italia diversa, dove si coopera con disciplina anziché correre sempre per i fatti propri.

Pensiero nobile e sacrosanto, non fosse che il gruppo plasmato dal mister sembrava ordinato su gerarchie nepotistiche più che su di una meritocratica fratellanza. “Sei giovane?” “Hai talento?” “Hai personalità?” “Allora non meriti la nazionale“, commentò Massimo Gramellini su La Stampa all”indomani delle convocazioni azzurre per questi mondiali, incarnando il pensiero degli altri sessanta milioni di allenatori italiani.

C”è chi sperava in Cassano, chi in Balotelli, chi ancora in Giuseppe Rossi. Si dibatteva sui nomi, ma era unanime il lamento della mancanza di un “fantasista“, all”altezza quantomeno delle raffinate capacità balistiche di migliaia di ragazzini che tuttora si sfidano sulle strade di centinaia di periferie italiane.

La mitologia metropolitana ipotizza dietro alle esclusioni eccellenti intemperanze ed episodi coloriti, quali una rissa tra il talento di Bari Vecchia e il figlio del commissario tecnico, coinvolto in calciopoli.

Realtà o mito, il concetto è il medesimo. Pochi giovani, e quei pochi solo se soldatini capaci di attendere gli scatti di anzianità senza alzate di capo o premature rivendicazioni di merito. Un po” come avviene nelle carriere pubbliche e private dell”economia italiana, nonché nelle logiche dei suoi partiti. Lasciami lavorare, giovanotto. O “bamboccione”, direbbe qualche ex ministro.

Rocco inventò il calcio dell”umiltà difensiva, ma non rinunciava a coccolare l”abatino Rivera, fino a renderlo probabilmente il più forte calciatore italiano di tutti i tempi. Lippi ha scelto la strada opposta. Ha lasciato a casa gli imberbi talenti, e ha riempito la testa i goffi attempati sul precetto che, oltre a essere i campioni, erano quantomeno superiori agli slovacchi. Un”altezzosa falsità, ai fatti, vista l”altrettanto irriverente superiorità di tocco dei pur modesti centrocampisti avversari e il loro passo doppio, carburato dai quattordici anni in meno del capitano Hamsik rispetto all”omologo azzurro Cannavaro, del resto già spedito in pensione dal suo stesso club.

E perfino a posteriori, l”allenatore italiano ha smentito l”evidenza oggettiva dei problemi tecnici dei giocatori da lui scelti tirando in ballo nodi “psicologici” come la paura, e imitando così il suo presidente del Consiglio quando parla dell”insussistenza reale della crisi. Lippi si è comunque preso “tutte le responsabilità“, ma lo ha fatto, ancora una volta, all”italiana. “Ho sbagliato a fidarmi di questi giocatori“, ha spiegato in sostanza, secondo la tradizione dei mea culpa delle colpe scaricate sui subordinati.

Più o meno lo stesso concetto di chi accusa gli operai di mandare allo sfascio l”industria nazionale per la colpa di rivendicare il diritto costituzionale alla malattia o al voto. Non si può incolpare Pepe di non essere Cassano; non si può incolpare un lavoratore di essere un essere umano.

E in effetti in Italia non si ama il moto di assumersi le proprie responsabilità. “Nessuno da voi vuole governare“, teorizzava dalla sua residenza indiana l”antropologo olandese Jan Browuer mentre vedeva avvicendarsi decine di presidenti del Consiglio democristiani e affini. Era la prima repubblica, ma nella seconda, in fondo, non è mutato granché, quando almeno a governare è stato il centrosinistra. Si preferisce coltivare l”orticello, essere i feudatari di un proprio feudo, fare scissioni anziché unioni (per poi ricomporle per garantire ai valvassini qualche poltrona), ergersi a “king-maker” di leader di facciata per poi bruciarli non appena appare utile (a sé), andare a patti con gli invasori e i despoti pur garantire la persistenza dei propri introiti.

Si preferisce, in altre parole, cedere la palla, magari buttarla via con qualche lancio lunghissimo, sperando che risulti casualmente un bel passaggio. Nessuno a tenerla, quella palla che scotta, nessuno a tentare un dribbling, una riflessione autonoma, un tiro fatto per provarci davvero e non per dimostrare di averci provato.

Nessuno, e non per “paura“, e neppure stavolta per limiti tecnici, ma solo per l”atavica desuetudine a osare, a esporsi davvero a qualche pubblica responsabilità rispetto non a qualche interesse privato, ma a qualche collettività.

Ma se la sorta di centrosinistra calcistico di Lippi è stato fallimentare con modalità evocative dei ripetuti flop dei suoi affini politici, il centrodestra è uscito dal Sudafrica con le ossa ancor più frantumate. La maggioranza parlamentare non ha sostenuto l”Italia, anzi, una porzione consistente tifava contro. La Lega d”altronde ce l”ha nel suo programma, di frantumare il paese, ancora nella logica medievale di prospettare qualche introito di breve periodo in più ai sudditi del feudo. Così com”è antico il patriottismo della destra italiana, brandito come fosse una bandiera propria, salvo poi umiliarla se si tratta di incassare i dividendi del boss di turno.

E in tutto questo il presidente Napolitano ha mantenuto il letterario silenzio del maggiordomo britannico che lucida i cristalli mentre i commensali organizzano la shoah. Un silenzio che può violarsi se si tratta di biasimare il calcione di un giocatore, Totti, che reagisce a un presunto sopruso. Assoluto, invece, se si tratta di censurare il sopruso stesso, perfino se questo è indirizzato contro l”unità nazionale, la cui tutela rappresenterebbe uno dei suoi rari compiti istituzionali.

Silenzio, forse anche perché era distratto dalla consegna – non certo prescrittagli dalla Costituzione – del ministero del legittimo impedimento a Brancher, che per settimane ha dovuto confrontarsi proprio con la Lega sul nome da dare al dicastero istituito per salvarlo dai processi. Naturalmente è solo un gioco, e le beffe sulle riunioni ministeriali indette dalla presidenza francese per dibattere sull”eliminazione dell”altra finalista dei precedenti mondiali lo ribadiscono a giusto titolo. Ma anche i giochi, specie se seguiti dalle masse, hanno una loro morale.

E naturalmente gli Azzurri sono solo onesti calciatori, così come Lippi è solo un allenatore, per giunta con eccellenti precedenti nelle competizioni europee e globali.

Nondimeno, loro malgrado, hanno rappresentato perfettamente il loro paese. Con le sue miserie e le sue vigliaccherie. Soprattutto, un paese che, se mai c”è stato, di certo ora non è più.

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