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di Piero Bevilacqua* – Eddyburg
Intervenire sulle alluvioni che ogni anno provocano disastri ambientali e morti in qualche angolo della Penisola fa sentire come i sacerdoti che celebrano uno stanco e inutile rito, cultori di una religione ormai spenta. L”Italia impone ai suoi osservatori l”“eterno ritorno dell”eguale”. Eppure corre sempre l”obbligo di ripetere, di tenere vive le armi della critica, di ricordare.
La lotta è fatta anche di ripetizioni e di repliche. E in questo caso sono più che mai necessarie. Com”è noto, quello che è accaduto in questi giorni nel Grossetano e nell”Umbria meridionale è infatti il nuovo capitolo di uno spettacolo a puntate che si ripete ormai puntuale in ogni autunno e inverno. E occorre anche aggiungere che questa volta l”esito sarebbe potuto essere ben più tragico, se la pioggia avesse continuato a cadere per un altro giorno.
Pochi sanno, infatti, che la diga di Corbara che sbarra il Tevere – poco distante dallo scalo di Orvieto, dove è tracimato il fiume Paglia – era minacciosamente colma, mentre i caseggiati di Ciconia e dintorni erano già allagati.Â
Ebbene, questa drammatica novità storica impone oggi un nuovo atteggiamento della pubblica opinione nei confronti delle classi dirigenti italiane e del ceto politico nazionale. Sappiamo da studi decennali che all”Italia è toccato in sorte un paradossale destino. Il paese fisicamente più fragile d”Europa (insieme all”Olanda) è stato governato da classi dirigenti privi di ogni cultura territoriale, sguarniti anche delle più elementari forme di consapevolezza, di memoria storica dei caratteri dei vari habitat locali e dei loro delicati equilibri.
Tale carattere originale della nostra cultura, il suo sradicamento metafisico dalle condizioni materiali della vita, oggi rappresenta una minaccia per la collettività nazionale. A questa incultura originaria, infatti, si aggiunge oggi la religione della crescita che alimenta nuovi e disordinati appetiti speculativi nei confronti del nostro territorio. Ancora oggi il suolo nazionale non appare come un habitat da proteggere, per tutelare i beni, la ricchezza storica del paese dagli eventi atmosferici, ma come la materia prima per “continuare a crescere”, come recita la superstizione contemporanea.
È altamente esemplare che un paese, il quale ha i problemi drammatici che osserviamo puntualmente ad ogni inverno, si ostini a progettare il Tav in Val di Susa. I nostri governanti sono pronti a sperperare svariati miliardi per un” opera inutile e non trovano tempo, energia, risorse per mettere in campo un progetto assai meno costoso e generatore di nuove economie finalizzato a proteggere il nostro territorio in pericolo.
Ebbene, credo che sia tempo di rendere evidente il carattere drammatico che ormai occorre dare alla nostra opposizione. Abbiamo mostrato in altre occasioni che il nostro territorio può essere messo in salvo solo attraverso una vasta opera di ripopolamento e valorizzazione delle aree interne. Ma oggi occorre agire anche con misure di urgenza. È necessario chiarire che tutte le nuove costruzioni, tutte le manipolazioni dell”habitat che si progettano e si realizzano in Italia sono contro l”interesse collettivo, minacciano il bene comune della sicurezza nazionale.
Ogni metro quadrato di nuovo asfalto o cemento sottrae spazio alle acque, accresce la vulnerabilità dei nostri abitati e delle nostre vite. Non possiamo più tollerarlo. Io credo che ormai bisogna incominciare a considerare sotto il profilo penale gli interventi che consumano suolo. Questo bene non è infinito, esso è la spugna che assorbe l”acqua, è dunque un bene di tutti che ci protegge , chi lo cementifica rende più pericolosi i nostri abitati, rende più insicura la nostra incolumità , le nostre case, i nostri beni, i nostri animali. È perciò necessaria una iniziativa legislativa che dia nuovi strumenti all ”interesse collettivo oggi così gravemente minacciato.
Occorre rendere possibile, alle associazioni impegnate nella difesa del territorio e del paesaggio, di costituirsi parte civile nei vari luoghi dove si progetta il consumo di verde, da configurare, com”è ormai drammaticamente necessario, quale fattispecie criminale. Privati, amministratori locali, imprenditori non possono più utilizzare come bene privato ciò che con tutta evidenza appare un bene comune intangibile e irrinunciabile.
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Tratto da: http://www.eddyburg.it/2012/11/l-italia-della-tav-e-delle-alluvioni.html.
* Piero Bevilacqua fa parte del Consiglio Scientifico di Alternativa. È professore ordinario di storia contemporanea all”Università La Sapienza di Roma. Ha fondato nel 1986 l”Istituto meridionale di Storia e di Scienze sociali (Imes), ancora da lui presieduto, nonché la rivista Meridiana, che dirige.
Ha scritto il saggio Breve storia dell”Italia meridionale dall”Ottocento ad oggi (Donzelli, Roma 1993), i volumi su Venezia e le acque: una metafora planetaria (Donzelli, Roma 1995) e su Demetra e Clio. Uomini e ambiente nella storia (Donzelli, Roma 2001), La mucca è savia. Ragioni storiche della crisi alimentare europea (Donzelli, Roma 2002), La terra è finita. Breve storia dell”ambiente (Laterza, Roma-Bari 2006). Di recente è stato l”autore di Miseria dello sviluppo, 2009 (Laterza) e di Il grande saccheggio. L”età del capitalismo distruttivo, 2011 (Laterza).
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