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Reddito di cittadinanza: e poi?

Prospettive e limiti a margine della proposta di legge del M5s sul reddito di cittadinanza. [Giuliana Cupi]

Reddito di cittadinanza: e poi?
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17 Novembre 2013 - 15.53


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di Giuliana Cupi

Dopo aver a lungo desiderato di farlo, mi ritrovo oggi a scrivere un commento alla proposta di legge sul reddito di cittadinanza che il Movimento 5 Stelle presenterà una volta concluso il periodo di “esposizione” della stessa sul suo sito. Naturalmente questa iniziativa, ormai caldeggiata da moltissime parti, mi riempie di soddisfazione politica: diversamente, ahimé, da tutti gli altri aspetti della cosa.

Cominciamo infatti con il dire che quello di cui si parla nella proposta, a dispetto del nome, non è un reddito di cittadinanza, ma semmai un reddito minimo garantito: ciò che si prospetta, infatti, non è una prestazione universale erogata in base al fatto di essere cittadini (italiani, in questo caso), ma semmai una integrazione al reddito che permette a chi ne percepisce uno inferiore o non ne percepisce affatto di arrivare a 600 euro il mese – se si tratta di una persona singola – o alla soglia di povertà relativa, nel caso di un nucleo familiare che conti due o più persone.

I limiti di un tale assetto sono evidenti: il singolo non ha, neppure in presenza di quella che potrebbe essere un”evoluzione nel suo destino sociale ed economico, alcuna possibilità di scelta individuale. Rimane vincolato alle sorti del nucleo cui appartiene, con le conseguenze anche drammatiche del caso: si pensi alla situazione di un giovane (se a 30 anni e oltre ci si può ancora definire così…), di un disoccupato, di un/a separato/a che per sopravvivere è costretto a una convivenza sempre più innaturale con la famiglia di origine, che, se non sprofonda nell”indigenza, è molto probabile superi la suddetta soglia di povertà relativa. A questo punto di vie di uscita istituzionali per individui in queste condizioni non ce ne sono più: la condanna a una situazione di miseria, se non economica, sicuramente umana, pare definitiva.

Altro punto critico il fatto che si continui a utilizzare come indicatore economico uno strumento palesemente iniquo qual è l”ISEE, che non tiene in alcun conto le spese che il singolo o la famiglia devono affrontare nella vita quotidiana, a partire da quelle per la casa.

Il progetto di legge in questione, inoltre, considera a carico solo i figli fino al 25° anno di età o i figli disabili, ma non fa menzione di coniugi disoccupati o di anziani ormai non autosufficienti, ma non abbastanza da percepire l”indennità di accompagnamento e titolari di una pensione irrisoria, che però fa reddito e quindi può contribuire a superare la fatidica soglia della povertà oltre la quale non si ha diritto a nulla. Eppure contingenze del genere non sono certo rare e sempre meno lo saranno man mano che regimi pensionistici vessatori entreranno a pieno regime.

Naturalmente, oltre a essere in condizioni esistenziali estremamente critiche, il beneficiario del reddito di cittadinanza deve ottemperare a determinati obblighi. Innanzitutto quello di mettersi a disposizione del Comune di residenza per progetti di volontariato per un minimo di 4 ore settimanali: a parte che si ravvisa in questa norma un ritorno alla corvée medievale, si apprende quasi con sgomento che tali progetti devono essere compatibili, “nel caso di disabili e anziani, con le loro capacità”. Se ne deduce che disabili e anziani non solo non sono ritenuti meritevoli di essere sollevati dall”incombenza, ma che, nell”idea del compilatore della proposta, non abbiano nemmeno più diritto a pensioni di invalidità e/o di anzianità, ma ci auguriamo che questa non sia che un”interpretazione errata del testo.

Oltre a ciò, il percettore del reddito (se questo viene erogato a una famiglia, si suppone che l”obbligo ricada in capo al capofamiglia) deve naturalmente dare immediata disponibilità al lavoro presso il Centro per l”Impiego cui fa riferimento per competenza territoriale. Subito alcune incoerenze che non è possibile non sottolineare: perché il volontariato coatto di cui sopra non è considerato lavoro a tutti gli effetti, dato che non è altro, e perché chi lo svolge non viene regolarmente assunto per farlo? Com”è possibile che una legge sul reddito di cittadinanza ratifichi a pieno titolo il furto di lavoro e conseguentemente di reddito che potrebbe a pieno titolo derivarne?

Inoltre, i Centri per l”Impiego sono attualmente di competenza delle Province, cioè di quegli Enti tendenzialmente morituri il cui destino è però ben lungi dall”essere chiarito e della cui estinzione il M5S è uno dei più fervidi sostenitori: se le cose andranno così, a che livello saranno gestite le pratiche? Comunale, regionale, come? Non è dato saperlo.

Tra l”altro la legge sancisce la nascita dell’[i]Osservatorio nazionale del mercato del lavoro e delle politiche di welfare[/i], un organismo che, senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica (opererà con personale più o meno volontariamente trasferito? Sarà dato in mano alla solita galassia di entità abituali aggiudicatrici di appalti?), avrà o avrebbe una pletora di compiti di monitoraggio e la cui funzione appare sinceramente la replica di quella di tanti altri istituti consimili già esistenti.

Comunque, come si diceva, il beneficiario del reddito di cittadinanza deve essere immediatamente disponibile a lavorare, il che pone subito due problemi di importanza saliente:

– quello che nei Paesi anglosassoni è definito dei working poor, cioè il fatto che vi siano persone che non arrivano a guadagnare nemmeno il minimo indispensabile pur lavorando;

– quello, molto più intuitivo, che di lavoro ce n”è sempre meno.

Del primo non si fa menzione; per ovviare al secondo, invece, si propone il vecchissimo e più che abusato strumento della formazione “orientata verso quei settori in cui è maggiore la richiesta di lavoro qualificato”, accompagnato dal prevedibile corollario di bilancio di competenza, colloqui di orientamento, prove selettive, nonché una visita settimanale al Centro dell”Impiego o all”agenzia di intermediazione (altro soggetto previsto dalla legge) ai fini delle “ricerca attiva del lavoro”.

Si tratta di idee vecchissime, in auge probabilmente da un quarto di secolo se non di più, e che nella maggior parte dei casi sono funzionali e produttive solo per i soggetti preposti a metterle in atto, ma assai meno per chi è costretto ad avvalersene – verrebbe da dire, a subirle.

Non solo: perde il diritto al reddito chi rifiuti per tre volte consecutive delle offerte di lavoro ritenute congrue, cioè coerenti con le competenze del soggetto, che prevedano una retribuzione corrispondente almeno al minimo stabilito dalla legge e una sede di lavoro che non disti oltre 50 chilometri dalla residenza, raggiungibile con i mezzi pubblici in un arco di tempo non superiore a ottanta minuti. 100 chilometri e/o 160 minuti (quasi tre ore!) di trasferimento quotidiano, passibili di aumentare a causa di traffico, ritardi e altri facilmente prevedibili accidenti, sono quindi la galera che bisogna accettare se non si vuole tornare alle condizioni di indigenza iniziali. Da questa disponibilità sono esentati esclusivamente le madri (o, in alternativa, i padri) di figli di età inferiore a tre anni: nessuno sconto per i familiari di disabili, malati gravi e anziani.

La legge prevede altresì lo stanziamento di fondi da destinare a progetti di sviluppo di start-up innovative, ma non specifica il significato dell”aggettivo, soprattutto in relazione alla sostenibilità ambientale.

Decisamente discutibili poi le modalità di riscossione del reddito di cittadinanza. L”importo di questo, infatti, è incrementato del 5 % se il beneficiario accetta di ricevere l’erogazione su carta prepagata e utilizza almeno il 70 per cento dell’importo della mensilità precedente in acquisti fatti tramite la medesima carta prepagata – il tutto, si afferma, “al fine di agevolare la fiscalità generale”, cioè il tracciamento dei pagamenti fatti con la carta in questione. Una misura decisamente iniqua nei confronti di chi sceglie modelli di consumo “alternativi”, per esempio i GAS, e che sembra voler orientare a tutti i costi verso la grande distribuzione, con la quale è più facile vengano posti in essere accordi per l”uso delle suddette carte.

Ma non basta: “Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze stipulano una convenzione con la società Poste italiane e con l’INPS finalizzata all’erogazione del reddito di cittadinanza tramite una carta prepagata gratuita di uso corrente, e alla predisposizione di uno strumento automatico utile a rilevare mensilmente l’ammontare della spesa effettuata tramite carta prepagata ai fini dell’erogazione degli incentivi di cui al comma 1”, cioè del 5 % in più di cui sopra. Senza voler considerare i problemi di privacy implicati – che non sono pochi -, fa accapponare la pelle la convenzione con la società Poste italiane, in virtù delle nozioni ormai di dominio comune sulla privatizzazione della Cassa Depositi e Prestiti.

Diversi altri punti sono poi suscettibili di sollevare osservazioni, dall”incentivo pari al reddito di cittadinanza concesso alle aziende che assumono a tempo indeterminato, alla copertura derivante anche dalle entrate dei giochi pubblici o dall”imposta progressiva sui grandi patrimoni che però esclude gli immobili di proprietà di persone giuridiche che sono utilizzati dalle medesime ai soli fini dell”esercizio dell”attività imprenditoriale, nonché i fondi immobiliari e le società di costruzioni. Ma a questo punto della disamina il “peccato originale” dell”operazione è chiaro ed è altrettanto chiaro che non sta, a dispetto del proverbio, nei dettagli.

È infatti l”impianto della legge nel suo complesso a non convincere, la sua filosofia per nulla innovativa che individua nel reddito di cittadinanza una concessione risicata da farsi in assenza di un introito da lavoro “canonico”, come se questa potesse essere ancora vista come contingente e transitoria e non come il cambiamento strutturale cui si informa questa epoca della nostra storia.

Nessun riferimento alla riduzione del tempo di lavoro, al retribuire come tale – perché tale è – il tempo dedicato alle cure familiari, alla tutela della propria salute anche tramite consumi più corretti e alla propria crescita personale o alle attività ormai classicamente definite di volontariato, che anzi, come si è detto, vengono considerate un obbligo extra del beneficiario e non un soddisfacimento almeno parziale della ricerca compulsiva di un”occupazione a tutti i costi.

Nessun riferimento, appunto, all”introduzione di criteri selettivi nella creazione di ulteriori aziende o di ulteriori corsi di formazione (finanziati dalla spesa pubblica!) che non siano una vaga “innovatività”, quando dalla ridondanza di beni e servizi superflui e inquinanti siamo palesemente circondati.

Nessun riferimento, al contrario, all”importanza dell”invitare tutti, anche chi non è (ancora) in ristrettezze economiche, a diventare parte di reti di collaborazione orientate al riciclo e alla minimizzazione degli sprechi o, come anche si è posto in rilievo, all”orientamento dei consumi in senso etico e sostenibile, tutte cose che possono ridurre anche molto sensibilmente la dipendenza dal reddito monetario.

In conclusione, un”occasione potenzialmente rivoluzionaria andata persa. La domanda è: quando ne avremo un”altra?

(13 novembre 2013) [url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.it[/url]

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