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Le elezioni europee cambiano la mappa del potere mondiale.

La linea dell’austerità è battuta; la Germania è sola;
i sistemi politici dell’ex Europa occidentale subiscono la più grave crisi di legittimazione dal 1945 [A. Giannuli]

Le elezioni europee cambiano la mappa del potere mondiale.
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4 Giugno 2014 - 22.23


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di Aldo Giannuli.

Volendo riassumere il senso di queste elezioni europee in poche sinteticissime battute, le riassumeremmo così:
  
a- la linea dell’austerità è battuta senza possibilità di equivoco
  
b- la Germania è sola
  
c- il resto dei sistemi politici dell’ex Europa occidentale subisce la
più grave crisi di legittimazione dal 1945 in poi. Il che, a sua volta,
si traduce in una frase ancora più semplice: qui non è europeo nessuno e
l’Europa non esiste. O, se preferite: l’Europa è solo una espressione
geografica. Con licenza di riproduzione del principe di Metternich. 

Ovviamente, cerco di motivare queste affermazioni che a molti lettori
sembreranno un po’ forti (e già vedo alcuni amici cui va di traverso il
caffè che stanno bevendo mentre scorrono questi righe). Vengo ad
argomentare.

Sulla carta, lo sappiamo, il blocco
“europeista” (popolari, socialisti, liberali, verdi, conservatori)
dispone ancora della maggioranza non solo a Strasburgo, ma anche nei
rispettivi paesi. I partiti che genericamente definiamo “antisistema”
(populismi euroscettici vari e sinistre antagoniste o quasi, oltre che
separatisti di vario genere) non sono in maggioranza da nessuna parte,
ma raccolgono percentuali da capogiro in alcuni paesi chiave:


Inghilterra (Ukip e  separatisti vari) = 31,1%

Francia (Fn, Fg, varie minori) = 31,3%

Italia (M5s, Lega, Fdi, lista Tsipras) = 34,9%


Con una mediana del 32% circa.


Assumiamo come minimo comun denominatore
di questi blocchi elettorali l’opposizione alle politiche di austerità,
che si traduce in una richiesta di riforma più o meno radicale della Ue
o in un suo scioglimento.


Ovviamente, si tratta di una sommatoria
assolutamente non omogenea, e caratterizzata solo in negativo, ma si
tenga presente che, sin qui, il voto di protesta, nelle fasi di “acqua
alta”, si aggirava fra il 10 ed il 15% e non ha mai raggiunto il 20% in
nessun paese dell’Europa occidentale (salvo il voto a Le Pen padre nelle
presidenziali del 1999). Ora siamo oltre il 30% nei tre paesi maggiori
della Ue, dopo la Germania. Inoltre, si tratta di un voto largamente
polarizzato intorno alle tre principali formazioni (Ukip, Fn, M5s) che
costituiscono veri e propri partiti di massa, quantomeno dal punto di
vista elettorale e, a tutto questo, si aggiunge ad un picco inedito
dell’astensionismo. Questi partiti, pur se con accentuazioni diverse e
differenti indirizzi di marcia, si configurano come diretti antagonisti
(più o meno radicali) del sistema politico europeo, che è una delle
colonne portanti dei rispettivi sistemi politici nazionali.


Neppure l’ondata del 1968 mise in crisi
la legittimazione dei sistemi politici europei come, sta accadendo in
questo momento, anche a causa della perdurante crisi.


E’ del tutto evidente che i partiti
“europeisti” di governo non possono non tenere conto di una tendenza che
minaccia molto seriamente di travolgerli e non è affatto detto che una
alleanza di ampie convergenze, di tipo italiano, riesca a salvarli.


In Germania, il totale dei voti
antisistema eurocritici (Linke, Afd, Npd e vari) raggiunge il 17,5%,
cioè ben 14 punti sotto la mediana che abbiamo calcolato per Italia,
Francia ed Inghilterra. Avevamo detto che se il differenziale dei
risultati “antisistema”, fra Germania ed altri paesi Ue, avesse superato
il 10% il sistema sarebbe entrato in fibrillazione. La media del
differenziale su tutti i paesi europei si aggira appunto intorno al 10%
per di più esso si concentra nei tre paesi maggiori dell’Unione,  dove i
ceti di governo devono tener conto dell’urto subito. In Italia il
governo può giovarsi del successo del Pd che “assorbe” la presenza del
M5s che, simmetricamente, vede la sua azione indebolita dal risultato
elettorale. Però, l’Italia non può che schierarsi contro la politica di
austerità perché sta soffocando (e, per la verità, sinora Renzi lo ha
detto, anche se, per ora non siamo andati al di là di petizioni di
principio sulla crescita).


L’Inghilterra è meno toccata dalla
questione, non facendo parte dell’Eurozona, ma il governo conservatore
ha l’urgenza di prendere il largo dalla Ue e, soprattutto, dalla
Germania, se vuole avere qualche speranza: la reazione un tantinello
isterica di Cameron contro Junker, il candidato della Merkel, la dice
molto lunga in proposito.


Ma il risultato più critico è
sicuramente quello francese, dove la vittoria della Le Pen si somma alla
dèbacle socialista. Hollande è un “dead man walking”: può sperare in
una ripresa, nelle elezioni politiche, ma può farlo solo prendendo di
corsa le distanze dalla Merkel e dalla sua politica rigorista. Né stanno
molto meglio i governi di alcuni alleati storici della Germania, come
l’Olanda dove, se pure il Pvv di Geert Wilders non è andato bene, resta
il problema di una economia stagnante. In Finlandia e Norvegia ci sono
formazioni politiche nazionaliste che vedrebbero di buon occhio una
uscita dall’Euro “dall’alto”, cioè per separazione dei paesi “ricchi”.
In ogni caso, la Merkel ha perso il suo principale alleato –la Francia-
ed anche l’appoggio di qualche alleato minore non risolverebbe il
problema. Come la si rigiri, la Germania è sola. E deve fare i conti con
una formazione piccola, ma influente, come Afd che tira per una uscita
“dall’alto”.


Dunque, la linea dell’”austerità
espansiva” (uno dei più divertenti ossimori che abbia mai sentito) è
virtualmente liquidata, a meno di azioni di forza della Germania, che,
però, potrebbero andare incontro a reazioni imprevedibili da parte di
altri. Vedremo cosa farà domani la Bce, sollecitata dagli americani a
fare una sostanziosa iniezione di liquidità ed a tenere bassi i tassi,
il che, però, non può che indebolire l’Euro, prospettiva vista con
orrore dai tedeschi che vedremo come reagiranno ad un corso troppo
“lassista” dal loro punto di vista. Un minimo di ragionevolezza
economica farebbe pensare che, in presenza di un dollaro “basso” sui
mercati,  occorre abbassare anche la soglia dell’Euro, per far salva la
bilancia commerciale.


Ma l’opposizione dei tedeschi non è
determinata da chissà quale teutonica irragionevolezza. Ci sono motivi
contingenti e più di lungo periodo che li spingono su questa strada.


In primo luogo, la Germania è creditore
netto in Euro ed, ovviamente, considera con sfavore la svalutazione del
suo credito, soprattutto perché lo stato di salute delle sue banche è
tutt’altro che florido e una svalutazione dei titoli in Euro, che hanno
in pancia, potrebbe seriamente compromettere il loro asset.  Poi, la
Germania, è paese importatore di materie prime, che acquista con una
moneta “forte”, mentre, come paese manifatturiero, sarebbe interessata a
tenere bassa la moneta, ma preferisce affidarsi al vantaggio
competitivo tecnologico delle sue merci, per cui può fare a meno della
manovra monetaria. Infine, i tedeschi hanno una paura patologica
dell’inflazione, che gli viene dalla loro storia. E questi sono i motivi
più o meno contingenti. Poi c’è un motivo strategico di fondo: la
moneta “forte” per la Germania è molto più che uno strumento di politica
economica. E’ il mezzo politico, attraverso il quale essa ripropone il
sua assalto al potere europeo. Nel 1871-78, nel 1914 e poi nel 1939, la
Germania ha tentato il suo assalto all’Europa attraverso le armi.
Duramente sconfitta nel 1918 ed ancor peggio nel 1945, la Germania
divisa ha dovuto adattarsi ad un ruolo di “nano politico” per mezzo
secolo, durante il quale il discorso militare non poteva neppure essere
evocato, ma gli schemi geopolitici di Karl Hausofer è rimasto dormiente,
ma non eliminato, nella cultura politica tedesca. La riunificazione del
1989 ha ridestato quella concezione e la prima aperta manifestazione di
ciò fu il documento elaborato, nel 1994, da Wolfang Schauble per conto
della Cdu-Csu, che teorizzava apertamente il ruolo centrale della
Germania –in asse con la Francia- nella costruzione europea, che vedeva
tutti gli altri paesi come semplici satelliti. Una sorta di Nuovo-Nuovo
Ordine Europeo (se ci si passa l’espressione) fondato non più sulla
supremazia militare ma su quella finanziaria: l’unità europea diventava
così la carta argentata nella quale Berlino avvolgeva il suo disegno
egemonico.


Poi, la crisi e l’evolvere della
politica internazionale hanno messo a dura prova l’asse franco tedesco
finendo per dissolverlo. E la Germania è rimasta, puramente e
semplicemente, la Germania di sempre.


E qui veniamo al punto che dicevamo
all’inizio: qui nessuno è europeo e, pertanto, l’Europa non esiste. Una
nazione non è solo un apparato statale componibile e scomponibile a
piacimento e non è neppure solo una cultura ed una lingua, è, prima di
ogni altra cosa, un campo magnetico di interessi sociali organizzati. E
non si tratta solo delle classi dominanti, che, ovviamente, sono le più
interessate alla conservazione dell’ordine esistente. Si tratta anche
delle classi medie e subalterne che vengono consociate attraverso mille
strumenti (dalla struttura del salario alla particolare politica
fiscale, dalla distribuzione territoriale delle risorse
all’organizzazione della pubblica amministrazione, ai meccanismi di
mobilità sociale ed al tipo di stato sociale). In questo quadro ogni
gruppo sociale occupa uno spazio e trova una sua convenienza. Su questa
composizione di interessi riposa la stabilità della singola formazione
economico-sociale di ogni paese. Proprio la storia tedesca dimostra
abbondantemente questa idea: nel 1918 gli operai tedeschi, in grande
maggioranza, non si schierarono dalla parte degli  spartachisti che
predicavano la rivoluzione internazionale, ma dalla parte dei
socialdemocratici che garantivano la sopravvivenza dello stato
nazionale.


Fare l’Europa avrebbe dovuto
significare, in primo luogo, sostituire gli equilibri sociali nazionali
con nuovi equilibri continentali, dunque, realizzare convergenze dei
diversi meccanismi di distribuzione delle risorse, dar luogo a contratti
di lavoro europei, avvicinare i modelli amministrativi, unificare
gradualmente la politica fiscale, ridurre i differenziali di trattamento
pensionistico o sanitario, garantire le stesse condizioni di mobilità
sociale per tutti, superando le barriere nazionali, omogeneizzare
realmente i sistemi scolastici ed universitari. Ma questo avrebbe
richiesto (oltre che superare lo scoglio linguistico) anche una
centralizzazione delle risorse da redistribuire, senza della quale non
si sarebbe potuta realizzare quella unificazione di standard di stato
sociale, realizzare contratti europei ecc. E, sulla base di queste
premesse, si sarebbe potuto parlare di unificazione politica che,
ovviamente, avrebbe sottratto quote di potere ai ceti politici
nazionali, che, invece, hanno avuto buon gioco ad opporsi a questa
espropriazione, proprio sfruttando la diversa polarizzazione degli
interessi sociali di ciascun paese.


La risultante è stato questo coacervo
istituzionale incoerente che è la Ue: un sostanziale compromesso fra le
burocrazie politiche nazionali (che mantengono il predominio nel
Consiglio e nel Parlamento) e la tecnocrazia europea (che ha le sue
roccaforti nella Bce ed, in parte, nella Commissione, dove però, i
vertici sono nominati per accordo fra i ceti politici nazionali).


E nessuno è diventato europeo, perché tutti siamo restati francesi, tedeschi, polacchi, italiani, spagnoli, boemi…

E dunque, l’Europa è restata solo una espressione geografica.


L’unificazione politica europea in queste condizioni? Retorica, pura retorica che queste elezioni hanno dissolto.


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