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Leopolda vs piazza San Giovanni: la differenza tra destra e sinistra

Alla Leopolda sedeva a rendere omaggio al principe un gruppo della borghesia medio-alta orientato palesemente a destra — a cominciare dal Principe stesso. [Luciano Gallino]

Leopolda vs piazza San Giovanni: la differenza tra destra e sinistra
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31 Ottobre 2014 - 05.58


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di Luciano Gallino.



Non
si sa chi sia, il regista delle due manifestazioni contemporanee della
scorsa settimana, piazza San Giovanni e Leopolda. Di certo è un grande
talento. Il contrasto tra lo scenario dei due eventi non poteva venire
realizzato in modo più efficace. Da un lato un gran sole, il cielo
azzurro, uno spazio amplissimo, una folla sterminata, brevi discorsi su
temi concreti. Dall’altra un garage semibuio dove non si riusciva a
vedere al di là di una decina di metri, un centinaio di tavoli dove si
parlava di tutto, un lungo discorso del presidente del Consiglio in cui
spiccavano acute considerazioni sull’iPhone e la fotografia digitale, e
non più di sei-settemila persone — giusto 140 volte meno che a San
Giovanni.



Il duplice scenario e la composizione dei partecipanti
sono stati quanto mai efficaci per chiarire che a Roma sfilava un
variegato popolo rappresentante fisicamente e culturalmente la sinistra,
sebbene del tutto privo di un partito che interpreti e difenda le sue
ragioni. Mentre a Firenze sedeva a rendere omaggio al principe un gruppo
della borghesia medio-alta orientato palesemente a destra — a
cominciare dal Principe stesso. Vi sono due condizioni che fanno, oggi
come ieri, la differenza tra destra e sinistra.



Una è la scelta della parte sociale da cui stare: in politica, nell’economia, nella cultura.

Il
che significa o sostenere che le disuguaglianze non hanno alcun peso
nei rapporti sociali, o magari negare che esistano; oppure darvi il peso
che moralmente e politicamente meritano, e adoperarsi per ridurle.
L’altra condizione è la capacità di capire in che direzione si sta
evolvendo la situazione economica e sociale del momento. Perché se non
lo capisce uno sta uscendo, senza rendersene conto, dal corso della
storia.



Nel caso della prima condizione la differenza tra Roma e
Firenze era evidente. Alla manifestazione di Roma non c’erano (o erano
poche) le persone che dovevano scegliere se stare o no dalla parte dei
deboli, degli svantaggiati, delle classi inferiori di reddito, di quelli
il cui destino dipende sempre da qualcun altro. Erano loro stessi, la
massa dei partecipanti, a essere deboli, svantaggiati, poveri,
perennemente in balia del parere e della volontà di qualcun altro.
Collocati, in altre parole, al fondo delle classifiche delle
disuguaglianze di reddito, di ricchezza, di potere politico ed
economico; disuguaglianze il cui scandaloso aumento negli ultimi
vent’anni, nel nostro paese come in altri, accompagnato dalla scomparsa
del tema stesso nel discorso delle socialdemocrazie, ha fatto parlare
più di uno studioso di nuovo feudalesimo.



Invece nel garage
semibuio di Firenze c’erano soprattutto persone a cui l’idea di stare
dalla parte dei più deboli e magari di dichiararlo appariva
semplicemente repellente, o quanto meno fastidiosa, non meno che
mettersi a parlare “in un mondo che è cambiato” di lotta alle
disuguaglianze. Al massimo i più deboli si possono aiutare a soffrire di
meno, non certo a diventare meno deboli, o a salire un gradino nella
scala delle disuguaglianze, grazie a un sindacato o un partito. Per non
dire che la parola “partito” significa appunto “aver preso parte” — idea
demolita a Firenze dall’idea di un partito- nazione (ma l’ha detto
qualcuno a Renzi che la parola “nazione” o “nazionale” figuravano tempo
addietro nel nome di un paio di partiti che molti guai procurarono
all’Italia e all’Europa?).



Anche per l’altra condizione non c’era
confronto tra i partecipanti di piazza San Giovanni e quelli della
Leopolda. Per i primi era evidente che quello che sta succedendo da
parecchi anni è una “guerra dell’austerità”, per usare la dizione di un
noto economista americano. Una guerra di classe in cui la destra si
prefigge di distruggere le conquiste sociali degli anni 60 e 70, che
furono un tentativo riuscito di sottoporre il capitalismo a una
ragionevole dose di controllo democratico. Le misure imposte da
Bruxelles, di cui il governo Renzi, a parte qualche battuta, è fedele
esecutore, sono precisamente espressione di tale guerra o conflitto di
classe, nella quale le classi dominanti hanno negli ultimi decenni
conseguito una grande vittoria. Equivalente a una dolorosa sconfitta per
i manifestanti romani.



A Firenze l’interpretazione predominante
della crisi è stata quella canonica delle destre europee: lo stato ha
un debito troppo alto, dovuto all’eccesso di spesa; il problema è il
costo eccessivo del lavoro; per rilanciare la crescita bisogna ridurre
le tasse alle imprese; i dettati di Bruxelles sono onerosi, ma bisogna
pur mantenere gli impegni, ecc. Ciascuno di questi slogan è falso quanto
dannoso — e si noti che a dirlo sono ormai dozzine di economisti,
compresi perfino alcuni esponenti delle dottrine neoliberali. A parte
l’interpretazione ortodossa della crisi, che non sta in piedi, chi vi
aderisce non si rende conto che ci si avvicina a un momento in cui o si
modificano i trattati europei e si adottano politiche economiche opposte
a quelle del governo Renzi (che sono poi quelle degli ultimi tre o
quattro governi, prescritte dalla Troika e da noi passivamente messe in
atto), o ci si avvia ad un lungo periodo di grave recessione e di
rapporti intereuropei sempre più difficili, nonché dagli esiti
imprevedibili.



Un’ultima nota: a saperlo interpretare (non che ci
voglia molto), la massa dei partecipanti di Roma ha lanciato un
messaggio chiaro. Ha detto in sostanza “siamo tanti, non contiamo
niente, vogliamo essere qualcosa”. Tempo fa, un messaggio analogo ebbe
effetti rilevanti. Ignorarlo, o parlarne con disprezzo, potrebbe
rivelarsi un serio errore, a destra come a sinistra.



Fonte: la Repubblica, 29 ottobre 2014.


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