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Dopo il voto di domenica: M5s, che fare?

Il risultato del voto non è da minimizzare né da drammatizzare. Niente crolli psicologici né arrampicate sugli specchi. Alcuni suggerimenti. [Aldo Giannuli]

Dopo il voto di domenica: M5s, che fare?
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27 Novembre 2014 - 12.31


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di Aldo Giannuli.

Il risultato del voto di domenica
scorsa non può essere minimizzato, ma non va neppure drammatizzato.
Niente crolli psicologici ma neanche niente arrampicate sugli specchi
per non guardare in faccia la realtà.

In primo luogo, l’argomento (usato tanto
dal Pd quanto da Fi ed in parte dal M5s) per cui si tratta di elezioni
amministrative che non hanno peso politico è una sciocchezza da
accantonare: certamente le elezioni amministrative hanno dinamiche
proprie e sarebbe arbitrario trasporre i risultati automaticamente sul
piano politico; ma, quando indicano smottamenti troppo vistosi, vuol
dire che esprimono tendenze destinate a riflettersi anche in sede politica.

In fondo, vorrei ricordare che la crisi
della monarchia spagnola e la proclamazione della seconda repubblica
furono provocate dal risultato delle elezioni amministrative del 1931.
Ed anche in Italia, le regionali del 1975 furono la premessa della
clamorosa avanzata del Pci nelle politiche di un anno dopo. Le comunali
di Napoli e Roma del novembre 1993 segnarono l’ascesa del Msi (di lì a
poco An) ed il definitivo tramonto di Dc e Psi, dati regolarmente
ripetuti nelle politiche di 4 mesi dopo.

Qui siamo in presenza di dati astensionistici che non hanno precedenti
e che colpiscono tutti i partiti, anche la Lega (che però li compensa
abbondantemente con i voti sottratti a Pd, Fi e M5s). Questo è indice di
un terremoto in arrivo nella rappresentanza: in
qualche modo il quadro istituzionale è destinato a mutare molto
rapidamente, anche se è difficile capire che fisionomia assumerà. Però
si capisce che il M5s ha compromesso, in qualche modo, la sua
candidatura a guidare questo mutamento. Ho detto compromesso, non perso.

Il risultato è negativo. Certo, sappiamo
che il M5s alle amministrative raccoglie solo una parte del tutto
minoritaria dei consensi che affluiscono nelle politiche. Ma questo, non
solo è comunque una criticità che va capita e risolta, perché vuol dire
che il M5s non è in grado di fare un’offerta credibile a questo livello
–e dunque lascia nelle mani degli altri l’articolazione del potere
locale-, ma non è sufficiente a spiegare questa flessione che segnala
una sostanziale perdita di consensi sul picco delle politiche ed anche
sul risultato più recente e meno favorevole delle europee. E qui non
serve nascondersi dietro il dito, o c’è qualcuno che pensa che, se ci
fossero elezioni politiche domattina, il M5s balzerebbe di colpo oltre
il 25%? Abbiamo capito tutti che c’è una perdita di consensi per la
quale, probabilmente, farebbe fatica a superare l’asticella del 20%.

Il movimento deve confrontarsi con una
situazione di perdita di consensi potenzialmente molto pericolosa, anche
se tutt’altro che impossibile da capovolgere. Dunque, che fare per
invertire la rotta?

Cerco qui di dare qualche consiglio di
buon senso da persona esterna ma vicina al movimento e comincerò da cosa
NON si deve assolutamente fare.

In primo luogo niente rimozioni,
ma neppure niente drammi della disperazione: subire una sconfitta
parziale può benissimo capitare e questa non è una disfatta, i margini
di recupero ci sono abbondantemente.

In secondo luogo, niente recriminazioni,
ricerche di capri espiatori e scambi di accuse. Per esperienza so che
quando, dopo le sconfitte, si inizia con gli “E’ colpa tua” “No è colpa
tua”, tutto diventa più difficile, anche l’analisi vera degli errori
fatti. La prima cosa da fare è disporsi ad un confronto ampio e disteso,
abbandonando tutti i tabù e rimettendo tutto in discussione, ma con
spirito laico e senza rivalse. E’ il momento in cui tutti debbono
riscoprire le ragioni per cui si sta insieme e cercare di uscirne con
uno sforzo comune: se la carrozza su cui si stava viaggiando si è
rovesciata sul fianco, non serve stare a discutere se è colpa del
conducente, che non ha visto un sasso, o dei passeggeri che avevano
messo troppi bagagli mal distribuendoli, questo, semmai lo si farà dopo,
al momento serve che tutti si rimbocchino le maniche e spingano la
carrozza in modo da raddrizzarla. Il problema non è tanto quello di
cercare “chi” ha sbagliato, ma “cosa” c’è stato di sbagliato.

Oggi c’è chi propone di uscire dalle
istituzioni per un nuovo Aventino. Dunque, l’errore sarebbe stato quello
di presentarsi alle elezioni per organi costitutivamente incapaci di
assumere decisioni politiche reali e, comunque, abitati da una massa
indistinta di delinquenti con cui è impossibile capirsi su nulla.
Insomma la dichiarazione di un fallimento. Ovviamente questo
risolverebbe in radice il problema del calo dei consensi perché, la
conseguenza logica è che non ci si presenterà più a nessuna elezione.
Benissimo! Ma, allora, che si fa? Si prepara l’insurrezione armata? Lo
sciopero della fame di massa? Si emigra in massa su un’isola deserta per
fondare la colonia sociale, come tentarono alcuni anarchici
dell’Ottocento? Si fa una novena alla Madonna di Pompei?

Sin qui il M5s, oltre che presentarsi
alle elezioni, ha fatto giornate nazionali di lotta (come i “vaffaday”),
comizi di massa di Grillo, sporadicamente ha partecipato a conflitti
locali ed ha promosso continue consultazioni in rete. Ma, se sin qui,
queste forme di azione politica non sono valse a ribaltare la
situazione, perché mai dovrebbero risultare più efficaci lasciando il
Parlamento? E per di più dopo una dichiarazione di fallimento.

Passare ad una strategia tutta
referendaria? Con un movimento debolissimo sul territorio e forte solo
sulla rete sarebbe difficile raccogliere le firme necessarie e
proibitivo affrontare la campagna elettorale e, per di più, senza
neppure la stampella della presenza in Parlamento. Vorrei ricordare che
la strategia referendaria fu la tomba dei radicali trenta anni fa. A
volte studiare la storia serve a qualcosa.

Puntare ai conflitti sociali? Sarebbe
già più realistico e interessante ma, il M5s non ha assolutamente
l’articolazione organizzativa necessaria e neppure il fattore umano
necessario (quanti attivisti del movimento hanno idea ci come si sta in
una assemblea, di come si organizza uno sciopero o si prepara un
corteo?).

Di fatto, uscire dal Parlamento e
rinunciare alla partecipazione elettorale sarebbe una fuga nel nulla e
preluderebbe solo allo scioglimento del M5s: proprio quello che i suoi
avversari vorrebbero. Può darsi che una dignitosa eutanasia sia
preferibile ad una lunga e dolorosa agonia, ma almeno dichiariamolo.
Dunque, non diciamo fesserie.

Veniamo al che fare. Innanzitutto capire l’errore di partenza:
l’illusione di una marcia che portasse in breve il movimento di
vittoria in vittoria sino al trionfo finale. Questa illusione si basava
su un’idea semplicistica della politica, per cui la contraddizione è
tutta fra una casta unita dai suoi privilegi ed avvolta nel fango della
sua abiezione morale, ed un popolo altrettanto unito nella sua ansia di
giustizia e reso invincibile dalla sua superiorità morale. Ecco: questa è
una favola che non sta in piedi. Meglio “il gatto con gli stivali”.

Il popolo non esiste come realtà
unitaria, è un insieme di interessi diversi e talvolta contrapposti, è
attraversato da visioni diverse del mondo, ha bisogni ed aspettative
diversi e diversamente vissuti.

“Noi siamo il 99% e voi l’1%” gridavano gli occupanti di Wall Street due anni fa: era una scemenza totale!

“Il partito degli onesti”: altra scemenza totale ripetuta recentemente da Landini che un genio non è.

Convinciamoci tutti di una cosa: la politica è un campo di estrema complessità
ed i problemi complessi, per definizione, non hanno soluzioni semplici.
Per cui, il popolo come soggetto politico di cambiamento, come potere
costituente, non è un dato di natura che bisogna scoprire e portare ad
autoconsapevolezza, ma, inevitabilmente, è una costruzione progettuale
che selezioni ed ordini interessi, che individui opportune mediazioni
fra gli uni e gli altri, che abbia una conseguente proiezione
istituzionale. Tutte cose che sottintendono la costruzione di una
cultura politica all’altezza della sfida posta, una capacità di
comunicazione capace di raccogliere consensi, capacità mediazione
politica e di tessere alleanze. Non è vero che “per restare sé stessi”
occorra non negoziare mai niente con nessuno, è un’altra scemenza, come
quella di  Bertinotti che si vantava di non aver mai firmato alcun
accordo in tutta la sua vita sindacale (che bel sindacalista!). Se per
fare politica bastasse conservarsi duri e puri, sbraitare e denunciare
sempre, non avremmo problemi e la rivoluzione l’avremmo fatta da tempo.
Ma, al solito, le cose sono meno facili: occorre saper mediare senza mai
vendersi l’anima, interloquire con tutti restando sempre sé stessi,
sapere essere intransigenti sui fini strategici ma flessibili nella
tattica, che non è rinuncia ai propri fini, ma ricerca del sentiero per
arrivarci.

E questo a sua volta richiede forme di
azione, comunicazione, formazione delle decisioni che consentano tutto
ciò. Dunque, un modello organizzativo idoneo ed è bene dirsi che la
scoperta della rete come meccanismo di formazione di un soggetto
politico collettivo è una idea geniale, ma che questo non sostituisce le
esigenze dell’organizzazione e della presenza territoriale. Questo non è
il rinnegare una propria originalità, che deve invece restare, ma
integrare queste intuizioni con le forme invarianti della politica.

Ed allora, che si metta da parte ogni
tabù e si inizi una discussione franca, laica e leale, senza dar vita a
conventicole e correnti ma cercando tutti insieme la soluzione ed
aprendosi anche all’esterno.

Coraggio: la soluzione c’è e bisogna aver paura solo di una cosa: di aver paura.

Fonte: http://www.aldogiannuli.it/dibattito-futuro-m5s/.

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