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Renzi spacca il Pd, si rompe l'ultimo partito di regime

Sulle cose fatte – le uniche da giudicare in politica – l’assemblea nazionale del Pd è composta da una folla indistinguibile di neoliberisti senza se e senza ma

Renzi spacca il Pd, si rompe l'ultimo partito di regime
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19 Febbraio 2017 - 21.18


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da Redazione ControPiano.

Difficile dire
per quali ragioni il Partito Democratico si avvii stancamente alla scissione.
Difficile, vogliamo dire, individuare ragioni “programmatiche e ideali”, come
si sente dire in questi giorni, che distinguano effettivamente il campo
renziano (molto scosso anche al proprio interno) dai vecchi tromboni ulivisti.
Ovvero da Bersani – che rivendica ancora oggi di esser stato “l’unico ad aver
fatto liberalizzazioni” – D’Alema (che ha regalato Telecom alla cordata guidata
da Colaninno), il governatore toscano Rossi (che privatizza l’acqua regionale
violando il risultato e quindi il vincolo referendario) e via elencando.

Sul piano
pratico, sulle cose fatte – che sono poi le uniche che si possano giudicare in
politica – l’assemblea nazionale del Pd è composta da una folla indistinguibile
di neoliberisti senza se e senza ma. Gente che ha votato la riforma Fornero
sulle pensioni, il jobs act, la “buona scuola”, e ancor prima quel “pacchetto
Treu” (1997!) che ha aperto le dighe alla precarietà di massa, legalizzata e
perenne, in questo paese. E non basta davvero canticchiare qualche strofa di
“bandiera rossa” (peraltro epurata della parola “comunismo”), o sbrodolare
qualche frase contrita sulle “disuguaglianze intollerabili”, la “precarietà
diffusa”, “i giovani”, “i lavoratori”.

Eppure stanno
scindendosi. Matteo Renzi, come previsto, ha azzerato il finto lavoro dei finti
“pontieri” che nelle ultime ore facevan mostra di preoccuparsi di “mantenere
l’unità”, al puro scopo di conservare voti e iscritti in una comunità disossata
che reagisce automaticamente e si affida ancora fideisticamente ai “comandi del
partito” (non è un caso che le uniche regioni in cui è prevalso il “sì” al
referendum siano proprio Toscana e Emilia Romagna).

L’ex premier
si è dimesso anche da segretario solo per poter aprire immediatamente la fase
congressuale, nel disperato tentativo di concluderla in tempi rapidissimi e
provocare quindi – subito dopo – la caduta del governo per potersi ripresentare
come candidato premier. Stringe i tempi per ritagliarsi un partito
indistinguibile dalla sua persona, nonostante gli sconquassi delle tre ultime
tornate elettorali (regionali, amministrative e referendum).

Stupisce, in
questa macchina da guerra apparentemente inarrestabile, l’assoluta indifferenza
al fatto che la legge elettorale – dopo l’intervento della Corte Costituzionale
– non sia affatto improntata al bipartitismo obbligato col sistema maggioritario (l’ossessione irrisolta di 25 anni
di “seconda repubblica”), ma un proporzionale con sbarramento che non
garantisce l’elezione di nessun premier la sera stessa del voto; rinviando
dunque la formazione di un governo alle trattative tra coalizioni, come ai
tempi della prima repubblica.

Evidente come
il sole a mezzogiorno, le mosse renziane hanno senso solo in un caso: puntare
esplicitamente a un governo Pd-Berlusconi (con l’apporto di qualche cortigiano
comprato con qualche poltrona), dopo una campagna elettorale fatta di finte
contrapposizioni tra “centrodestra” e “centrosinistra”.

Calcolo
peraltro rischioso, nell’attuale panorama sociale dominato dal massiccio
rifiuto popolare dell’establishment politico (anche i Cinque Stelle potrebbero
pagare caro il mesto spettacolo della giunta capitolina), che potrebbe creare
un futuro Parlamento di fatto senza una vera maggioranza (stante anche le
grosse differenze tra i modi di eleggere le due Camere).

Eppure vanno
alla scissione. Pur consapevoli che un Pd solo renziano varrà tra qualche mese
assai meno del 25-27% oggi attribuito dai sondaggi (a maggior ragione se
dovesse imbarcare esplicitamente gente come Alfano e Verdini). Pur scontando,
la cosiddetta “vecchia guardia”, una ripartenza da zero che non è assolutamente
nelle proprie corde e abitudini (è appena il caso di ricordare che tutti loro
hanno scalato le posizioni in un partito costruito da altri, ma non ne hanno
mai costruito uno). Le precedenti esperienze di “scissione a sinistra” (da
Rifondazione in poi) lasciano sperare al massimo in percentuali intorno al 10%,
che a noi sembrano decisamente ottimistiche.

In ogni caso,
questa scissione – fatta con le movenze di un “lungo addio”, che concretizzerà
le prime mosse con la formazione di gruppi parlamentari autonomi, nei prossimi
giorni – pone le basi per la disgregazione dell’ultimo “partito” sopravvissuto
alla grande moria del dopo-Tangentopoli. Da allora in poi, infatti, sono avute
solo formazioni fortemente localizzate (la Lega, i post-democristiani di
Mastella, Casini, Alfano, ecc), oppure comitati elettorali più o meno larghi e
fortunati (Forza Italia) se riuniti intorno a una figura per qualche ragione
“carismatica”.

Il panorama
prossimo venturo sarà popolato di nanerottoli politici incapaci – ognuno per
contro proprio – si ergersi sopra gli altri e fare da punti di aggregazione
convincente. Specie se la partecipazione popolare al voto dovesse accentuare la
sua tendenza a diminuire.

Uno
spappolamento del sistema politico destinato al massimo a fornire i mattoni per
un qualsiasi governo di obbedienza assoluta alla Troika. Zero idee, zero
ideali, zero programmi, pura comunicazione. Come si vede già ora nel Pd.  […]

[…]

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