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Il neoliberismo, l'ideologia alla radice di tutti i nostri problemi

Crisi finanziarie, disastri ambientali, l’ascesa dei populisti: il neoliberismo è collegato a tutti questi fenomeni. Oggi più che mai è necessaria un’alternativa.

Il neoliberismo, l'ideologia alla radice di tutti i nostri problemi
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19 Aprile 2017 - 21.41


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di George Monbiot 

 Traduzione a cura di @chemicalture per Voci dall’Estero, rivista da Thomas Fazi.

Immaginate se il popolo dell’Unione Sovietica non avesse mai sentito
parlare del comunismo. L’ideologia che domina le nostre vite, per la
maggior parte di noi non ha un nome. Menzionatela nelle vostre
conversazioni e avrete in risposta una scrollata di spalle. Anche se i
vostri ascoltatori hanno già sentito questo termine, faranno fatica a
definirlo. Neoliberalismo: sapete di cosa si tratta?

Il suo anonimato è sia un sintomo che la causa del suo potere. Essa
ha svolto un ruolo importante in una notevole varietà di crisi: la crisi
finanziaria del 2007-8, la delocalizzazione di ricchezza e potere, di
cui i Panama Papers ci offrono solo un assaggio, il lento collasso della
sanità pubblica e dell’istruzione, l’aumento dei bambini poveri, l’epidemia della solitudine,
la distruzione degli ecosistemi, l’ascesa di Donald Trump. Ma noi
rispondiamo a queste crisi come se fossero dei casi isolati,
apparentemente inconsapevoli del fatto che tutte sono state catalizzate o
aggravate dalla stessa filosofia di base; una filosofia che ha – o ha
avuto – un nome. Quale potere più grande dell’agire nel completo
anonimato?

Il neoliberalismo è diventato così pervasivo che ormai raramente lo
consideriamo come una ideologia. Sembriamo accettare la tesi che questa
utopica fede millenaria rappresenti una forza neutrale; una sorta di
legge biologica, come la teoria dell’evoluzione di Darwin. Ma la
filosofia è nata come un tentativo consapevole di trasformare la vita
umana e spostare il luogo del potere.

Il neoliberalismo vede la competizione come la caratteristica che
definisce le relazioni umane. Ridefinisce i cittadini in quanto
consumatori, le cui scelte democratiche sono meglio esercitate con
l’acquisto e la vendita, un processo che premia il merito e punisce
l’inefficienza. Essa sostiene che “il mercato” offre dei vantaggi che
non potrebbero mai essere offerti dalla pianificazione dell’economia.

I tentativi di limitare la concorrenza sono trattati come ostili alla
libertà. Pressione fiscale e regolamentazione dovrebbero essere ridotte
al minimo, i servizi pubblici dovrebbero essere privatizzati.
L’organizzazione del lavoro e la contrattazione collettiva da parte dei
sindacati sono considerate come distorsioni del mercato, che impediscono
lo stabilirsi di una naturale gerarchia di vincitori e vinti. La
disuguaglianza è ridefinita come virtuosa: un premio per i migliori e un
generatore di ricchezza che viene redistribuita verso il basso per
arricchire tutti. Gli sforzi per creare una società più equa sono sia
controproducenti che moralmente condannabili. Il mercato fa sì che
ognuno ottenga ciò che merita.

Noi interiorizziamo e diffondiamo questo credo. I ricchi si autoconvincono
di aver acquisito la loro ricchezza attraverso il merito, ignorando i
vantaggi – come l’istruzione, l’eredità e la classe sociale
d’appartenenza – che possono averli aiutati ad assicurarsela. I poveri
cominciano a incolpare se stessi per i propri fallimenti, anche quando
possono fare poco per cambiare la situazione.

Per non parlare della disoccupazione strutturale: se non si ha un
lavoro è perché non lo si è cercato abbastanza. E nemmeno dei costi
impossibili degli alloggi: se la vostra carta di credito è in rosso,
siete stati irresponsabili e imprevidenti. Non importa che i vostri
figli non abbiano più un cortile a scuola dove poter giocare: se
ingrassano, è colpa vostra. In un mondo governato dalla competizione,
chi rimane indietro viene definito e si percepisce come perdente.

Tra i risultati, come documentato da Paul Verhaeghe nel suo libro What About Me?,
vi sono epidemie di autolesionismo, disturbi alimentari, depressione,
solitudine, ansia da prestazione e fobia sociale. Forse non è
sorprendente che la Gran Bretagna, dove l’ideologia neoliberale è stata
applicata più rigorosamente, sia la capitale europea della solitudine. Ormai siamo tutti neoliberali.

Il termine neoliberalismo è stato coniato durante una riunione a
Parigi nel 1938. Tra i delegati vi erano due uomini che giunsero a
definire l’ideologia, Ludwig von Mises e Friedrich Hayek. Entrambi esuli
provenienti dall’Austria, vedevano nella socialdemocrazia,
esemplificata dal New Deal di Franklin Roosevelt e dal graduale
sviluppo del welfare britannico, la manifestazione di un collettivismo
di stampo simile al nazismo e al comunismo.

Nel suo libro La via della schiavitù, pubblicato nel 1944,
Hayek sosteneva che la pianificazione del governo, schiacciando
l’individualismo, avrebbe portato inesorabilmente al controllo
totalitario. Come il libro di Mises Burocrazia, La via della schiavitù
ebbe una grande diffusione. Riuscì ad attirare l’attenzione di persone
molto ricche, che vedevano in questa filosofia la possibilità di
liberarsi dalla regolamentazione e dalle tasse. Quando, nel 1947, Hayek
fondò la prima organizzazione che avrebbe diffuso la dottrina del
neoliberalismo – la Mont Pèlerin Society – fu sostenuto finanziariamente da ricchi milionari e dalle loro fondazioni.

Con il loro aiuto, cominciò a creare quello che Daniel Stedman Jones descrive in Masters of the Universe
come «una sorta di internazionale del liberalismo»: una rete
transatlantica di accademici, uomini d’affari, giornalisti e attivisti.
Ricchi banchieri appartenenti al movimento finanziarono una serie di think tank per affinare e promuovere l’ideologia. Tra di loro c’erano l’American Enterprise Institute, la Heritage Foundation, il Cato Institute, l’Institute of Economic Affairs, il Centre of Policies Studies e l’Adam Smith Institute.
Essi finanziarono inoltre posizioni accademiche e dipartimenti, in
particolare presso le università di Chicago e della Virginia.

Man mano che si è evoluto, il neoliberalismo è diventato più
stridente. La visione di Hayek sui governi che dovrebbero regolamentare
la concorrenza per impedire la formazione di monopoli ha ceduto il
posto â€“ tra i seguaci americani come Milton Friedman – alla convinzione che il potere di monopolio potrebbe essere visto come una ricompensa per l’efficienza.

Durante questa transizione però è accaduto qualcosa: il movimento ha perso il suo nome. Nel 1951, Friedman era felice di descrivere se stesso come un neoliberale.
Ma subito dopo, il termine ha cominciato a scomparire. Ancora più
strano, anche se l’ideologia era diventata più netta e il movimento più
coerente, il nome perduto non è stato sostituito da alcuna alternativa
comunemente accettata.

In un primo momento, nonostante il suo lauto finanziamento, il
neoliberalismo rimase ai margini. Il consenso del dopoguerra era quasi
universale: le indicazioni economiche di John Maynard Keynes erano
ampiamente applicate, la piena occupazione e la riduzione della povertà
erano obiettivi condivisi negli Stati Uniti e in gran parte dell’Europa
occidentale, le aliquote d’imposta sui redditi alti erano elevate e i
governi perseguivano i loro obiettivi sociali senza ostacoli, creando
nuovi servizi pubblici e reti di sicurezza sociale.

Ma negli anni Settanta, quando le politiche keynesiane cominciarono a
crollare e le crisi economiche colpivano su entrambe le sponde
dell’Atlantico, le idee neoliberali cominciarono a entrare nel
mainstream. Come osservò Friedman, «quando venne il momento che si
doveva cambiare… c’era un’alternativa già pronta lì per essere colta».
Con l’aiuto di giornalisti compiacenti e consiglieri politici, elementi
del neoliberalismo, in particolare le sue indicazioni circa la politica
monetaria, furono adottati dall’amministrazione di Jimmy Carter negli
Stati Uniti e dal governo di Jim Callaghan in Gran Bretagna.

Dopo che Margaret Thatcher e Ronald Reagan presero il potere, il
resto del pacchetto fu presto applicato: massicci tagli alle tasse per i
ricchi, smantellamento dei sindacati, deregolamentazione,
privatizzazioni, esternalizzazioni e concorrenza nei servizi pubblici.
Attraverso il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, il
trattato di Maastricht e l’Organizzazione mondiale del commercio, le
politiche neoliberali sono state imposte  â€“ spesso senza il consenso
democratico – in gran parte del mondo. La cosa più notevole è stata
l’adozione del neoliberalismo tra i partiti che un tempo appartenevano
alla sinistra: i laburisti e i democratici, per esempio. Come osserva
Stedman Jones, «è difficile pensare ad un’altra utopia che sia stata
così pienamente realizzata».

Può sembrare paradossale che una dottrina che promette possibilità di
scelta e libertà sia stata promossa con lo slogan “there is no
alternative” (non c’è alternativa, N.d.T). Ma, come osservò Hayek
durante una visita nel Cile di Pinochet – una delle prime nazioni in
cui il programma venne ampiamente applicato – «la mia preferenza
personale pende verso una dittatura liberale piuttosto che verso un
governo democratico privo del liberalismo». La libertà che il
neoliberalismo offre, che suona così seducente se espressa in termini
generali, si rivela essere libertà per il luccio, non per i pesciolini.

Libertà dai sindacati e dalla contrattazione collettiva significa
libertà di reprimere i salari. Libertà dalla regolamentazione significa libertà di avvelenare i fiumi,
mettere in pericolo i lavoratori, applicare tassi di interesse iniqui e
inventare strumenti finanziari esotici. Libertà dalle tasse significa
libertà dalla redistribuzione della ricchezza che solleva le persone
dalla povertà.

Come documentato da Naomi Klein nel suo Shock Economy,
teorici neoliberali hanno sostenuto l’uso della crisi per imporre
politiche impopolari, approfittando della distrazione creata dalla
situazione di crisi: cosi è successo in occasione del colpo di stato di
Pinochet, della guerra in Iraq e dell’uragano Katrina, quest’ultimo
descritto da Friedman come «un’opportunità per riformare radicalmente il
sistema educativo» di New Orleans.

Dove le politiche neoliberiste non possono essere imposte a livello
nazionale, sono imposte a livello internazionale, attraverso trattati
commerciali che incorporano la cosiddetta “risoluzione delle controversie tra investitori e Stato”:
tribunali off-shore in cui le grandi società possono fare pressioni per
la rimozione delle protezioni sociali e ambientali. Quando i parlamenti
hanno votato a favore della limitazione della vendita di sigarette, o
per proteggere le riserve idriche nei confronti delle compagnie
minerarie, congelare le bollette energetiche o evitare l’eccessivo
aumento dei prezzi da parte delle case farmaceutiche, le società hanno
fatto causa, spesso con successo. La democrazia è ridotta a un teatro.

Un altro paradosso del neoliberalismo è che la competizione
universale si basa sulla altrettanto universale comparazione e
selezione. Il risultato è che i lavoratori, i disoccupati e i servizi
pubblici di ogni genere sono soggetti ad un pernicioso e soffocante
regime di valutazione e monitoraggio, ideato per identificare i
vincitori e punire i perdenti. La dottrina proposta da Von Mises. che ci
avrebbe liberato dall’incubo burocratico della pianificazione centrale,
al contrario, ha realizzato proprio questo.

Il neoliberalismo non è stato concepito come un meccanismo
autoreferenziale, ma lo è rapidamente diventato. La crescita economica è
stata nettamente più lenta nell’era neoliberista (dal 1980 in Gran
Bretagna e negli Stati Uniti) di quanto non fosse nei decenni
precedenti; ma non per i più ricchi. La disuguaglianza nella
distribuzione del reddito e della ricchezza, dopo 60 anni di declino, in
questo periodo è di nuovo aumentata rapidamente a causa della
distruzione dei sindacati, le riduzioni fiscali, l’aumento delle
rendite, le privatizzazioni e la deregolamentazione.

La privatizzazione o mercatizzazione dei servizi pubblici, quali
l’energia, l’acqua, i trasporti, la sanità, l’istruzione, le strade e le
carceri, ha permesso alle grandi aziende di imporre delle tariffe sui
beni essenziali e pretendere il pagamento per l’accesso, sia dai
cittadini che dai governi. Rendita è un altro termine per significare
reddito senza lavoro. Quando si paga un prezzo gonfiato per un biglietto
del treno, solo una parte della tariffa compensa gli operatori per i
soldi che spendono per il carburante, i salari, il materiale rotabile e
altre spese. Il resto riflette il fatto che vi hanno messo con le spalle al muro.

Coloro che possiedono e gestiscono i servizi privatizzati o
semi-privatizzati del Regno Unito fanno immense fortune investendo poco e
ricaricando molto. In Russia e in India, oligarchi hanno acquisito beni
precedentemente dello Stato grazie a delle svendite. In Messico, a Carlos Slim
è stato concesso il controllo di quasi tutti i servizi di rete fissa e
telefonia mobile, così che è divenuto ben presto l’uomo più ricco del
mondo.

La finanziarizzazione dell’economia, come osserva Andrew Sayer in Why We Can’t Afford the Rich,
ha avuto un impatto simile. «Come le rendite», sostiene, «gli interessi
sono… redditi non da lavoro, che maturano senza alcuno sforzo». Come i
poveri diventano più poveri e i ricchi diventano più ricchi, i ricchi
acquisiscono sempre più il controllo su un’altra risorsa cruciale: la
moneta. La spesa per interessi, in modo schiacciante, rappresenta un
trasferimento di denaro dai poveri ai ricchi. Man mano che i prezzi
degli immobili e la fine dei finanziamenti pubblici caricano le persone
di debiti (si pensi al passaggio dalle borse di studio ai prestiti agli
studenti), le banche e i loro dirigenti sbancano.

Sayer sostiene che gli ultimi quattro decenni sono stati
caratterizzati da un trasferimento di ricchezza non solo dai poveri ai
ricchi, ma anche tra le fila dei ricchi: da quelli che fanno soldi con
la produzione di nuovi beni o servizi a coloro che fanno soldi
controllando i beni esistenti e traendone delle rendite, interessi o
plusvalenze. Il reddito da lavoro è stato soppiantato dalla rendita
senza lavoro.

Le politiche neoliberiste sono ovunque afflitte dai fallimenti del
mercato. Non solo le banche sono troppo grandi per fallire (“too big to
fail“), ma lo sono anche le società ora incaricate di fornire servizi
pubblici. Come Tony Judt ha sottolineato nel suo libro Ill Fares The Land,
Hayek ha dimenticato che i servizi pubblici vitali per un paese non
possono fallire, il che significa che la concorrenza non può fare il suo
corso. Gli investitori prendono i profitti, lo Stato si assume il
rischio.

Maggiore è il fallimento, più estrema diventa l’ideologia. I governi
usano le crisi neoliberiste come pretesto e occasione per tagliare le
tasse, privatizzare i restanti servizi pubblici, creare strappi nella
rete di sicurezza sociale, deregolamentare le imprese e disciplinare i
cittadini. Lo Stato autolesionista ora affonda i denti in ogni organo
del settore pubblico.

Forse l’impatto più pericoloso del neoliberalismo non è la crisi
economica che ha causato, ma la crisi politica. Come il peso dello Stato
è ridotto, così è ridotta la nostra capacità di cambiare il corso delle
nostre vite attraverso il voto. Invece, la teoria neoliberale afferma
che le persone possono esercitare una scelta attraverso la spesa. Ma
alcuni hanno più da spendere rispetto ad altri: nella democrazia del
consumatore o dell’azionista, il diritto di voto non è equamente
distribuito. Il risultato è una riduzione dei diritti dei meno abbienti e
della classe media. Mentre i partiti di destra e della ex sinistra
adottano politiche neoliberali simili, la riduzione del potere statale
si traduce in una revoca dei diritti. Un gran numero di persone sono
state escluse dalla politica.

Chris Hedges osserva
che «i movimenti fascisti costruiscono il loro fondamento non sulla
base degli attivisti, ma di coloro che sono politicamente inattivi, i
“perdenti”, che percepiscono, spesso in modo corretto, di non avere
alcuna voce in capitolo nel mondo politico”. Quando il dibattito
politico non parla più a tutti, allora le persone diventano sensibili a slogan, simboli e sensazioni. Per gli ammiratori di Trump, ad esempio, i fatti e gli argomenti appaiono irrilevanti.

Judt ha spiegato che quando la fitta rete di interazioni tra il
popolo e lo Stato viene ridotto a nulla se non all’autorità e
all’obbedienza, l’unica forza che ci lega è il potere dello Stato. Il
totalitarismo che Hayek temeva ha più probabilità di emergere quando i
governi, dopo aver perso l’autorità morale che nasce dalla erogazione
dei servizi pubblici, si riducono a «blandire, minacciare e, infine,
costringere la gente a obbedire».

Come il comunismo, il neoliberalismo è il Dio che ha fallito. Ma la
dottrina zombie vacilla e uno dei motivi è il suo anonimato. O meglio,
un insieme di anonimati.

La dottrina invisibile della mano invisibile è promossa da
sostenitori invisibili. Lentamente, molto lentamente, abbiamo iniziato a
scoprire i nomi di alcuni di loro. Vediamo che l’Institute of Economic
Affairs, che ha sostenuto con forza sui media la campagna contro
l’ulteriore regolamentazione del settore del tabacco, è stato segretamente finanziato dalla British American Tobacco sin dal 1963.

Scopriamo che Charles e David Koch,
due degli uomini più ricchi del mondo, fondarono l’istituto che
ha messo in piedi il movimento Tea Party. Scopriamo che Charles Koch,
nell’istituire uno dei suoi think tank, osservò che
«al fine di evitare critiche indesiderate, non si dovrebbe fare molta
pubblicità sul modo come l’organizzazione è controllata e diretta».

Le parole usate dal neoliberismo spesso nascondono più di quanto
chiariscano. “Il mercato” suona come un sistema naturale che potrebbe
essere paragonato alla gravità o alla pressione atmosferica. Ma è
gravido di relazioni di potere. Ciò che “il mercato vuole” tende a
significare ciò che le aziende ed i loro capi vogliono. “Investimento”,
come nota Sayer, significa due cose molto diverse. Uno è il
finanziamento di attività produttive e socialmente utili, l’altro è
l’acquisto di beni esistenti per ottenere una rendita, interessi,
dividendi e plusvalenze. Utilizzare la stessa parola per le diverse
attività «mimetizza le fonti della ricchezza», il che ci porta a
confondere l’estrazione di ricchezza con la creazione di ricchezza.

Un secolo fa, i nuovi ricchi venivano denigrati da coloro che avevano
ereditato il loro denaro. Gli imprenditori ricercavano l’accettazione
sociale facendosi passare per rentiers. Oggi, il rapporto è stato
invertito: i rentiers e gli ereditieri si definiscono imprenditori.
Sostengono di essersi guadagnati le loro rendite, che in realtà non
derivano dal lavoro.

Questo anonimato e questa confusione si mischiano all’opacità senza
nome e senza luogo del capitalismo moderno: il modello di franchising
assicura che i lavoratori non sappiano per chi lavorano esattamente; società registrate off-shore dietro ad una rete di segretezza così complessa che neanche la polizia può risalire ai proprietari reali; regimi fiscali che infinocchiano i governi; prodotti finanziari che nessuno comprende.

L’anonimato del neoliberalismo è ferocemente difeso. Coloro che sono
influenzati da Hayek, Mises e Friedman tendono a rifiutare il termine,
poiché esso – e non a torto – è oggi utilizzato solo in senso dispregiativo.
Ma non ci offrono un’alternativa. Alcuni si definiscono liberali
classici o libertari, ma queste descrizioni sono stranamente defilate e
fuorvianti, in quanto suggeriscono che nei libri La via della schiavitù e Burocrazia o nel classico di Friedman Capitalismo e libertà, non vi sia in realtà niente di nuovo.

Per tutte queste ragioni, nel progetto neoliberale c’è qualcosa di
ammirevole, almeno nelle sue fasi iniziali. Si è trattato di una
peculiare, innovativa filosofia promossa da una rete di pensatori e
attivisti coerenti e con un chiaro piano d’azione. Portato avanti con
pazienza e tenacia. La via della schiavitù è diventata la strada per il potere.

Il trionfo del neoliberalismo riflette anche il fallimento della
sinistra. Quando nel 1929 l’economia del laissez-faire portò alla
catastrofe, Keynes ideò una teoria economica globale per sostituirla.
Quando negli anni ’70 la gestione keynesiana della domanda andò fuori
strada, c’era un’alternativa pronta. Ma quando nel 2008 il
neoliberalismo è crollato, non c’era… niente. Ecco perché la marcia
degli zombie. La sinistra e il centro non hanno prodotto alcun nuovo
inquadramento generale del pensiero economico per 80 anni.

Ogni invocazione di Lord Keynes è un’ammissione di fallimento.
Proporre soluzioni keynesiane alle crisi del 21esimo secolo significa
ignorare tre problemi evidenti. È difficile mobilitare le persone
intorno a vecchie idee; le falle messe in luce negli anni ’70 non sono
scomparse; e, soprattutto, non tengono in considerazione la nostra più
grave emergenza: la crisi ambientale. Il keynesismo agisce stimolando la
domanda dei consumatori per promuovere la crescita economica. La
domanda dei consumatori e la crescita economica sono i motori della
distruzione ambientale.

Quel che la storia del keynesismo e del neoliberalismo ci dimostra è
che nessuno dei due si è dimostrato adeguato a controbilanciare le
criticità del sistema. Bisogna proporre un’alternativa coerente. Per i
laburisti, i democratici e più in generale la sinistra, il compito
centrale dovrebbe essere quello di sviluppare un programma economico che
sia come l’Apollo (il programma spaziale, N.d.T.), un tentativo maturo
di progettare un nuovo sistema progettato su misura per le esigenze del
21esimo secolo.

Pubblicato sul The Guardian il 15 aprile 2016. 

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