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Trump riprende la lotta contro l’establishment statunitense

Il presidente USA persiste nella sua politica estera nonostante l'opposizione quasi unanime del Congresso, intanto che con Bannon vuol prendere il controllo dei Repubblicani [T. Meyssan]

Trump riprende la lotta contro l’establishment statunitense
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28 Ottobre 2017 - 09.44


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«Sotto i nostri occhi» – Cronaca di politica internazionale n°262
di Thierry Meyssan.
 
Dalla fine di luglio il presidente degli Stati Uniti ha dato l’impressione di essere uno sbruffone che mette a repentaglio la pace mondiale con le sue dichiarazioni sconsiderate. Thierry Meyssan dimostra che dietro questi interventi avventati, Donald Trump persiste tranquillamente nella sua politica estera nonostante l’opposizione quasi unanime del Congresso. E dunque si tratta, a suo avviso, di quel che oggi chiamiamo un “artificio di comunicazione” e un tempo un “doppio gioco”. Inoltre, il presidente sta cercando di convincere i suoi amici a prendere il controllo del Partito Repubblicano, cosa che gli consentirebbe di razionalizzare la sua comunicazione e di attuare ancora più rapidamente la sua politica antimperialista.
 
Nell’illustrazione in apertura:  –  Donald Trump ha pensato di entrare in politica in risposta agli eventi dell’11 settembre di cui contesta la versione ufficiale. Solo dopo aver incontrato Steve Bannon ha deciso di correre per la presidenza statunitense. Ha fatto di lui il suo direttore della campagna, e una volta eletto, il suo consulente speciale. Costretto a licenziarlo dai membri del Congresso, lo sostiene sottobanco per prendere il controllo del Partito Repubblicano. I due uomini intendono rifare degli Stati Uniti una Repubblica.
 
Trump di fronte all’establishment
Nel corso degli ultimi tre mesi, la crisi che oppone Donald Trump alla classe dirigente USA ha continuato a intensificarsi. Tradendo senza remore il presidente uscito dai suoi ranghi, il Partito Repubblicano si è alleato con il suo avversario, il Partito Democratico, contro la Casa Bianca. I due gruppi hanno fatto adottare al Congresso, il 27-28 luglio, la Legge di “contrasto agli avversari dell’America attraverso le sanzioni” (Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act). Si trattava, né più né meno, che di spogliare il presidente delle sue prerogative in materia di politica estera [1].
Non andremo qui a prendere posizione in questo conflitto, ma lo analizzeremo per comprendere le contraddizioni permanenti tra le parole e gli atti, oltre che le incongruenze della politica estera statunitense.
Barack Obama era sostenuto dalla sua amministrazione. Usava dunque la sua comunicazione per far accettare le sue decisioni al suo popolo e al mondo. Così, ha sviluppato l’arsenale nucleare mentre sosteneva che stava per smantellarlo. Ha messo a ferro e a fuoco il Medio Oriente allargato mentre annunciava un nuovo inizio (reset) con il mondo musulmano, e così via. Al contrario, Donald Trump cerca di riportare le istituzioni del suo paese alla sua classe dirigente e di metterle nuovamente al servizio del suo popolo. Perciò comunica cambiando idea così come si cambia la camicia, seminando disordine e confusione. Tiene occupati i suoi avversari con le sue gesticolazioni disordinate mentre porta la sua politica con pazienza fuori dalla loro vista.
L’abbiamo già dimenticato, ma al suo arrivo alla Casa Bianca, Donald Trump aveva manifestato posizioni in contraddizione con alcuni dei suoi discorsi elettorali. È stato accusato di smarcarsi sistematicamente dalla politica del suo predecessore e di essere, in pratica, troppo favorevole alla Corea del Nord, all’Iran, alla Russia e al Venezuela.
I commentatori lo avevano accusato di non essere capace di usare la forza e, in ultima analisi, di essere isolazionista per debolezza; un’interpretazione abbandonata il 7 aprile durante il bombardamento della base di Shayrat (Siria) con 59 missili Tomahawks. Nel tornare poco dopo alla carica, gli stessi commentatori riprendevano le loro accuse di debolezza, ma questa volta sottolineando il suo relativismo morale che gli impediva di vedere la pericolosità dei nemici degli Stati Uniti.
Vista la quasi unanimità del voto congressuale contro di lui, il presidente sembrava sconfitto. Si è separato brutalmente dal suo consigliere speciale Steve Bannon e, sembrando pronto a riconciliarsi con l’establishment, si è impegnato successivamente contro la Corea del Nord, il Venezuela, la Russia e l’Iran.
L’8 agosto, ha lanciato una diatriba contro Pyongyang, annunciando che le sue “minacce” avrebbero incontrato “fuoco, furia e forza come il mondo non ne ha mai visto”. C’era una escalation verbale da entrambe le parti, che lasciava credere a una possibile guerra nucleare imminente, mentre i giapponesi scendevano nei rifugi antiatomici e gli abitanti di Guam lasciavano l’isola.
L’11 agosto, il presidente Trump dichiarava di non escludere più l’«opzione militare» contro la «dittatura» del presidente venezuelano Nicolas Maduro. Caracas ha risposto con un annuncio a tutta pagina sul New York Times che accusava il presidente di preparare un cambiamento di regime in Venezuela sulla modalità di colpo di Stato eseguito contro Salvador Allende e invocava aiuto appellandosi ai cittadini degli Stati Uniti [2].
Il 31 agosto, il Dipartimento di Stato ha aperto una crisi diplomatica con la Russia, ordinando la chiusura di molti uffici diplomatici e la riduzione del suo personale negli Stati Uniti. Esercitando un’azione reciproca, il Ministero degli Esteri russo ha chiuso locali diplomatici statunitensi e ha espulso molti diplomatici.
Il 13 ottobre, Donald Trump ha pronunciato un discorso che accusava l’Iran di essere lo sponsor globale del terrorismo e rimetteva in discussione l’accordo nucleare negoziato dal suo predecessore Barack Obama. Questo discorso era stato preceduto da accuse dello stesso tenore pronunciate dal Dipartimento di Stato a carico di Hezbollah [3].
Per i commentatori, Donald Trump è finalmente sulla buona strada, ma sta facendo troppo e sta facendo male. Alcuni lo considerano come un malato di mente e altri sperano che replichi la strategia del “cane pazzo” messa in opera da Richard Nixon: spaventare il nemico facendogli credere di essere capace di tutto.
Tuttavia, nei fatti, nulla è cambiato. Niente di fronte alla Corea del Nord. Niente di fronte al Venezuela. Niente di fronte alla Russia. E niente di fronte all’Iran. Al contrario, la politica di Trump contro la creazione di Stati jihadisti continua per quanto possibile. I paesi del Golfo hanno smesso di sostenere Daesh, sconfitto a Mosul e Raqqa. Il jihadismo sta ridiscendendo al livello sub-statatale. È come se il presidente avesse appena recitato la commedia e guadagnato tempo.
 
La mappa di Bannon
 

 
Il vertice dei Values Voter si è tenuto dal 13 al 15 ottobre presso l’Omni Shoreham Hotel di Washington. Questa conferenza annuale è organizzata da un consorzio di associazioni familiari cristiane descritte come razziste e omofobe dalla stampa dominante. Molti oratori si sono succeduti davanti al Presidente degli Stati Uniti di fronte a un parterre anti establishment. Steve Bannon figurava nel programma su richiesta del presidente Trump, nonostante le proteste di alcuni organizzatori effettivamente omofobi. Infatti Bannon ha popolarizzato l’oratore Milo Yiannopoulos, un giovane omosessuale che combatte contro la strumentazione dei gay da parte dei democratici.
Nel prendere la parola, l’ex consigliere speciale della Casa Bianca si è scatenato in un attacco ad alzo zero contro gli interessi dei miliardari globalizzati. È noto che Bannon, benché sia descritto come uno di estrema destra dalla stampa mainstream, milita in favore dell’imposizione fiscale ai super ricchi a misura del 44% del loro reddito.
Ha pronunciato una requisitoria contro le élites “corrotte e incompetenti” di cui Hillary Clinton è la musa; persone che, a suo parere, hanno trovato un interesse personale a distruggere posti di lavoro USA e alla loro delocalizzazione in Cina. Li ha accusati di aver tentato di distruggere il presidente Trump, la sua famiglia e i suoi amici. Ha messo in causa il senatore Bob Corker per essersi preso gioco del comandante in capo sostenendo che sia incapace di gestire il paese senza provocare una Terza guerra mondiale e il leader della maggioranza al Senato, Mitch McConnell, per aver organizzato questo sabotaggio. Ha ricordato la sua visione del nazionalismo economico al servizio della Repubblica statunitense, egualitaria indipendentemente dalla razza, dalla religione e dalle preferenze sessuali. Ha concluso che dal momento che il partito repubblicano aveva dichiarato guerra al popolo statunitense, gliel’avrebbe ritorta contro.
Gli amici di Bannon hanno subito firmato contro i cacicchi del Partito Repubblicano per ottenere l’investitura del partito al loro posto in tutte le elezioni locali. Poiché questa situazione non si è mai presentata prima, nessuno sa se avranno successo. Ma ovviamente il successo di Bannon in occasione di questa conferenza suona come un buon auspicio in suo favore.
 
Il doppio gioco della Casa Bianca
In occasione di una riunione del gabinetto, il presidente Trump ha dichiarato di aver capito le frustrazioni del suo ex consigliere perché «il Congresso non fa il suo lavoro» intanto che è dominato dai repubblicani. Poi è si è fatto notare dal senatore McConnell assicurando che avrebbe calmato Bannon… su alcuni punti.
Il presidente continua le dichiarazioni stravaganti per soddisfare il Congresso, mentre arma il braccio del suo ex consigliere per liberarsi dei leader del Partito Repubblicano.
Stiamo assistendo a una lotta che non è più politica, ma culturale. Oppone al pensiero puritano quello della Repubblica (cioè il bene comune) [4].
Da una prospettiva estera, scopriamo che dietro le sue affermazioni estemporanee e avventate, Donald Trump persegue tranquillamente la sua azione contro Daesh. Ha prosciugato lo Stato islamico e ha ripreso le sue capitali. Ha trasformato la NATO per farne un’organizzazione anti-jihadista. Non sappiamo per il momento se continuerà, una volta distrutto Daesh, a combattere contro gli altri gruppi jihadisti e come reagirà alle iniziative del Pentagono per distruggere le strutture statali dell’America latina nordoccidentale e del Sud-est asiatico. C’è ancora molta strada da fare per rifare dell’Impero decadente una Repubblica.
 
 
NOTE
[1] «L’establishment USA contro il resto del mondo», di Thierry Meyssan, Rete Voltaire, Megachip, 1° agosto 2017.
[2] Venezuelan Foreign Ministry Advertisement”, New York Times (United States), Voltaire Network, 6 September 2017.
[3] «Dovremmo forse prendere sul serio la politica USA contro l’Iran?», di Thierry Meyssan, Al-Watan (Syrie), Rete Voltaire, 17 ottobre 2017.
[4] «Gli Stati Uniti si riformeranno o si lacereranno?», di Thierry Meyssan, Rete Voltaire, 25 ottobre 2016
 

 

Traduzione a cura di Matzu Yagi.
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