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Ribellarsi alla disciplina della paura

«Qualcuno di noi, a volte, è capace di gesti destinati a parlare ai molti, e per molto tempo. Gesti che suggeriscono la possibilità di una salvezza, anche nella più fonda tenebra.» [Giorgio Cattaneo]

Ribellarsi alla disciplina della paura
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15 Agosto 2013 - 18.25


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di Giorgio Cattaneo

Io ho paura. Tre parole lapidarie, una confessione. Da quanti sottoscrivibile? Da milioni di persone, probabilmente, terremotate dalla precarietà e dallo spettro della povertà in arrivo, vero e proprio tradimento di decenni di promesse divenute dogma. Milioni di italiani, di spagnoli, di greci, portoghesi, irlandesi. Ma anche francesi, tedeschi, americani, russi, cinesi. Per non parlare degli africani, martiri endemici della paura, e dei loro “colleghi” asiatici, arabi e sudamericani, presi abitualmente a cannonate dalla storia, per secoli. Miliardi di persone. Ora, nel mondo crocifisso dalla globalizzazione, siamo tutti più vicini, o meno lontani: l’Internazionale della Paura. C’è una crescente violenza – subdola, psicologica, intimidatoria – che divora vite umane erodendo giorno per giorno la loro tranquillità, il loro diritto a quella proiezione mentale fisiologica che siamo abituati a chiamare futuro, a volte destinata a tradursi in qualcosa di pratico: mi sono innamorato e dunque mi sposo, compro casa, metto al mondo figli, mi attrezzo per aspirare alla mia ragionevole quota di felicità.

C’è futuro e futuro, naturalmente. Ben diverso, ad esempio, è il futuro di Djarra, che oggi fa l’agricoltore alle porte di Torino, adottato da una manciata di buoni uomini: i ragazzi documentaristi della BabydocFilm, che da semplici passivi testimoni di una storia si sono trasformati in attivi supporter di un’esistenza umana; poi il parroco di Moncalieri, che gli ha provveduto un alloggio decoroso; e infine Carlo, l’imprenditore agricolo, che ha messo sotto contratto il profugo, un ragazzo sui vent’anni che però – ufficialità dei documenti a parte – non è così sicuro di conoscere il giorno esatto in cui nacque, nel villaggio della Costa d’Avorio da cui partì giovanissimo per imparare in Mali il mestiere di fabbro, e poi in Libia quello di saldatore di condotte petrolifere, prima di finire su un barcone per Lampedusa, pieno di lividi, severamente punito dalla polizia per essersi rifiutato di combattere per Gheddafi. Oggi Djarra coltiva ravanelli e la domenica gioca a pallone coi suoi compagni di avventura. Sa che probabilmente non potrà mai più rimetter piede né in Libia, né in Mali, né in Costa d’Avorio. Ma sa anche di aver incontrato persone che gli hanno aperto la porta, vedendo in lui nient’altro che se stesse, imprigionate nel film sbagliato.

Io ho paura, recita la nuova legge del mondo. Ho paura di non farcela, di non arrivare alla fine del mese, di non riuscire a nutrire la mia prole. Hanno paura i No-Muos, perché sanno che l’impianto di Niscemi è per la morte, non per la vita. Hanno paura i No-Tav, per analoghe ragioni: vedono avanzare l’inspiegabile maleficio della Torino-Lione, e vedono che le autorità politiche ne ignorano deliberatamente la palese iniquità, con una sorda perfidia da regime totalitario. Alla disciplina della paura rispondono i grandi gesti che segnano il pianeta: dalla strage dell’11 Settembre a quella di Boston, dalla guerra in Afghanistan a quella in Siria. E’ come se qualcuno avesse spento la luce, lasciando i popoli in balia della voce impersonale di burocrati freddi, archiviati gli ultimi difettosi incantatori di masse. C’è da aver paura, se lo spettacolo finisce: “Perché, spenta ogni lampada – scriveva Montale – la sardana si darà infernale, e un ombroso Lucifero scenderà da una prora del Tamigi, dell’Hudson, della Senna, scuotendo l’ali di bitume semi-mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora”.

Immaginare che la storia sia immune da infarti catastrofici è davvero illusorio: la storia – sempre per citare il poeta ligure – “non si snoda come una catena di anelli ininterrotta”. E a volte lascia sottopassaggi, cripte, buchi. Uno di questi, nel 1986, fu tappato – letteralmente – da un eroe dell’Unione Sovietica, o meglio dell’umanità. Era il capitano Anatolij Grishenko, il pilota elicotterista che – volontario – si immolò, ben sapendo di andare incontro a una morte certa e dolorosissima, per gettare le prime tonnellate di cemento nella bocca del vulcano radioattivo di Chernobyl. Ne parlò, con ammirata venerazione, un intellettuale non certo tenero coi sovietici come Guido Ceronetti. Qualcuno di noi, a volte, è capace di gesti destinati a parlare ai molti, e per molto tempo. Gesti che suggeriscono la possibilità di una salvezza, anche nella più fonda tenebra. E sono sempre gesti disarmati, nonviolenti: come la solitaria impresa di Luca Abbà, arrampicatosi su un traliccio in valle di Susa, per resistere – simbolicamente e fisicamente – a quella che riteneva e ritiene un’occupazione abusiva, inaccettabile, scandalosamente ingiusta.

Se la disciplina della paura impone essenzialmente nemici, c’è da augurarsi che qualcuno trovi le parole giuste per disarmare l’orizzonte, fermare la strage che avanza e cancellare dalla faccia della terra l’immensa vergogna della sopraffazione che, per semplificare, chiamiamo guerra. E’ già accaduto, in passato, e dunque può accadere ancora. E deve accadere assolutamente, oggi più che mai, data la mondializzazione della forza e le smisurate leve dell’economia, l’inaudita potenza simultanea dei sistemi di massa e la fragilità di un mondo senza più isole, senza più vere riserve di silenzio e di pace. Solo ora si delineano le dimensioni planetarie del conflitto in corso, e senza che la maggior parte della popolazione ne abbia piena coscienza. Siamo in guerra, dicono ormai in molti, e stiamo per precipitare in un’apocalisse che minaccia di spazzare via secoli di civiltà. Sembra vincere, ancora una volta, la legge della paura, quella che degrada gli esseri umani al rango di nemici. Eppure, da qualche parte, deve pur esserci ancora – in qualche hangar dimenticato – il vecchio elicottero di Anatolij Grishenko.

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