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GTA V e i suoi fratelli. Persuasi e felici?

Quali condizionamenti derivano dalla violenza rappresentata su uno schermo (non necessariamente della stessa forma vissuta davanti allo schermo)?

GTA V e i suoi fratelli. Persuasi e felici?
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4 Dicembre 2013 - 01.39


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di Paolo Bartolini.

Cos’è realtà e cosa
finzione? La violenza rappresentata su uno schermo è virale?
Può condizionare le persone al punto tale da indurre comportamenti
distruttivi (non necessariamente della stessa forma vissuta davanti
allo schermo)? Queste e altre domande estremamente importanti,
suscitate dal polemico
articolo di Giulietto Chiesa contro un videogame di ultima
generazione
, sono rapidamente passate sullo sfondo, sommerse da
una serie imponente di commenti sarcastici e insultanti nei confronti
del giornalista.

Non ho condiviso il
tono dell’articolo, né ritengo efficace a livello strategico e
comunicativo una campagna di boicottaggio
per riuscire, un
giorno, a mettere fuori legge certi prodotti di intrattenimento
multimediale. Questo mio parziale dissenso, tuttavia, non mi ha
impedito di cogliere la rilevanza dell’intervento di Chiesa.
Le reazioni che ha determinato sono la prova evidente di un
cortocircuito intellettuale, morale ed antropologico che tiene
prigioniere le nuove generazioni, e non solo quelle.

Dei numerosi commenti
(alcuni semplicemente maleducati e aggressivi, altri impegnati
nell’utile compito di tessere un ragionamento, altri ancora al
limite del grugnito) mi ha colpito il bisogno – mascherato
da appartenenza tribale alla comunità virtuale dei videogiocatori –
di difendere, soprattutto con lo scherno, il proprio diritto a fare,
sic et simpliciter, quel che si desidera. Immersi
nell’ambiente velenoso del “tutto è possibile” e del libero
mercato come legge universale, ci dà fastidio che qualcuno osi
turbare il lungo sonno della ragione e addirittura ci chieda di
prenderci la responsabilità per i mostri da esso generati.
Mostri che, a ben vedere, i consumatori della società dello
spettacolo si sentono in diritto di sterminare sul video, pretendendo
anche gratitudine per il fatto di incanalare rabbia, frustrazione e
mancanza di senso nel mondo virtuale. Un giorno, ma forse questo
giorno è già arrivato, ci diranno che i videogames più violenti
sono non solo opere d’arte, ma indispensabili valvole di sfogo per
non tradurre in atti concreti quella violenza che comunque abita in
ciascuno di noi. Insomma: le strade sono più sicure grazie alle
grandi multinazionali dell’intrattenimento globale! Qualcuno lo ha
detto davvero.

Chi come Giulietto Chiesa
si avventura in una critica aspra e diretta nei confronti della
cosiddetta libertà di mercato
(venendo fra l’altro da una
generazione educata alla parola scritta e non cresciuta in mezzo a
velocissime immagini in movimento), può solo passare, agli occhi dei
videogiocatori più irritabili, per un vecchio moralista con arie di
superiorità. Infatti in molti commenti al suo articolo si respira un
nascosto, compresso, disperato senso di inferiorità compensato
dall’appartenenza al branco. Qui fa sorridere, anche se è un riso
amaro, la fierezza di zombie che sono orgogliosi di definirsi tali,
consumatori consumati che sentono il bisogno di ribadire (quasi per
un residuo di etica scampata al vortice dell’innovazione perpetua)
che non hanno mai ucciso o picchiato nessuno e che, per questo,
nessuno li può giudicare umanamente e intellettualmente.

Così, oltre a ribadire
la giusta critica che Chiesa fa ai genitori che acquistano giochi
violenti e vietati ai minori per regalarli ai loro pargoli assiepati
sotto l’albero di Natale, mi sento di concludere queste brevi
considerazioni sollevando una questione che mi pare chiarisca meglio
la portata effettiva delle immagini violente proiettate
continuamente su tutti i mass-media
. Il punto nevralgico, su cui
mi soffermo qui solo per accenni, mi sembra coincida con il medesimo
rapporto che intercorre tra pubblicità e comportamenti di consumo
.

Riprendendo uno spunto
del sociologo Vanni Codeluppi, (“Persuasi
e felici?
”, Carocci, 2010) ritengo anch’io che la
pubblicità non induca comportamenti d’acquisto
(sebbene si
avvalga di trucchi e strategie comportamentiste che risalgono
addirittura ai meccanismi elementari del condizionamento classico ed
operante), ma crei piuttosto l’atmosfera culturale ed emotiva
“giusta” per rafforzare enormemente l’attitudine a comprare

prodotti che in realtà non ci servono e che assolvono invece una
funzione di appartenenza sociale.

In modo simile lo
sdoganamento, ormai ventennale, della iperviolenza nel
campo dell’intrattenimento (ben diversa dalla problematizzazione
dell’aggressività intraspecifica nella filosofia, nelle arti
visive, nel cinema e nella miglior letteratura) non induce
direttamente dei comportamenti violenti
, ma abbassa il livello
di guardia rispetto ad azioni sempre più diffuse in una società
centrata sulla competizione di tutti contro tutti
. A questo si
aggiunge una graduale virtualizzazione del reale con la
perdita di elementi sensoriali ed emotivi indispensabili per
costruire relazioni empatiche e, di conseguenza, per trasformare i
conflitti in mediazione e riflessione.

La società dello
spettacolo
, in definitiva, forgia individui soggetti a stimoli
audiovisivi sempre più numerosi e intensi
, giocati
essenzialmente sul registro dell’egotismo e
dell’autoaffermazione sugli altri.

Anche i videogiochi – che
come mille altre manifestazioni culturali rispecchiano un sistema di
convivenza alimentato da tecnologie pensate e sviluppate per
garantire l’accumulazione economica
– partecipano a
diffondere il senso che esista, per ciascuno di noi, il diritto
inalienabile di godere, consumare ed esprimere emozioni ancora
inarticolate
nel tempo istantaneo che le nuove tecnologie
ci offrono. È a questo livello che dobbiamo muoverci se vogliamo
comprendere come dialogare con chi, ci piaccia o meno, è nato e
cresciuto in questo ambiente privo di protezioni.

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