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Chomsky contro i postmoderni

Noam Chomsky: «Zizek è qualcosa che si può spiegare in cinque minuti a un bambino di dodici anni». [Giulio Meotti]

Chomsky contro i postmoderni
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7 Settembre 2013 - 05.48


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di Giulio Meotti

Non capita tutti i giorni di assistere a una simile faida fra due icone della sinistra mondiale. E’ successo fra Noam Chomsky e Slavoj Zizek. O per dirla con le parole del Wall Street Journal, “Chomsky contro Elvis”.

Il primo è il grande linguista del Mit, il college nel Massachusetts che ogni anno sforna cinquecento invenzioni e centosessanta brevetti. Chomsky il guru anticapitalista, il pacifista colluso di tiranni, il mandarino nemico delle élite che entrò di ruolo al Mit ad appena trent’anni, contro Zizek, il blasonato intellettuale sloveno con cattedre in America, “il gigante di Lubiana” noto così per il suo aspetto da orso ingrigito ma non per il suo peso intellettuale, il chierico vagante chiamato dappertutto per spiegare qualsiasi cosa.

Di Zizek, Chomsky ha detto che si tratta di “esibizionismo” e di non essere interessato all’“uso di termini fantasiosi e alla pretesa di avere una teoria quando non se ne ha alcuna”. Zizek “è qualcosa che si può spiegare in cinque minuti a un bambino di dodici anni. Zizek utilizza termini eleganti, come polisillabi, per fingere di avere una teoria quando non ne ha affatto una. Dunque, in tutta questa roba non c’è alcuna teoria, non nel senso del termine ‘teoria’ con il quale tutti hanno familiarità nelle scienze o in qualsiasi campo serio”.

Chomsky attacca “questi intellettuali che si auto-ammirano reciprocamente, parlano solo tra di loro e (che io sappia) non mettono piede nel mondo in cui io preferisco vivere”. Intellettuali “estremamente pretenziosi”, ma ad un’analisi più accurata, “la maggior parte di essi risulta incolta, fondata su straordinari fraintendimenti di testi che conosco molto bene (o che in qualche caso ho scritto io), molte affermazioni sono banali (sebbene agghindate in un linguaggio complesso), oppure false; ed una gran quantità di cose non ha alcun senso”.

Slavoj Zizek ha così risposto a Chomsky: “Non conosco un tizio che sia stato empiricamente in errore tanto spesso”. Il riferimento è alla difesa di Chomsky del regime di Pol Pot, che fra il 1975 e il 1979 sterminò quasi un terzo della popolazione cambogiana, e macchierà per sempre la sua reputazione di attivista politico. Nel giugno del 1977, su Nation, Chomsky definiva “distorsioni di quarta mano” le testimonianze sulle condizioni di Vietnam e Cambogia dopo la vittoria dei comunisti. Per Chomsky le “storie fantasiose sulle atrocità comuniste” avevano lo scopo di minare la credibilità di chi si opponeva alla politica estera americana.

Paul Johnson, nel suo capolavoro sugli “Intellettuali”, descrive Chomsky come “un utopista vecchio stile”. E un grandissimo della linguistica. Secondo l’Art Humanities Citation Index, il suo lavoro è citato come fonte più di quello di qualsiasi altro studioso vivente, ed è l’ottavo in assoluto.

Anche fisicamente, Chomsky è l’esatto opposto dell’intellettuale europeo. Persino quanda lancia strali contro l’imperialismo, il suo volto non cambia mai espressione, non alza mai la voce, tanto che se non avesse un microfono non lo si percepirebbe. I suoi occhi sono come sprofondati e così sottili da sembrare chiusi. Protetti dal celebre paia di occhiali da apparatchik socialista che il professore indossa praticamente da quando scrisse il suo primo articolo ad appena dieci anni per un giornale locale, dedicato alla guerra civile spagnola.

L’odio di Chomsky per gli intellettuali europei come Zizek sta anche nel suo stile di vita tipicamente anonimo americano. Chomsky conduce la perfetta esistenza dell’esponente della middle class della East Coast. Ha una casa a Lexington, un sobborgo di Boston, e trascorre le vacanze estive a Cape Cod. E’ lì che vive Chomsky, nel silenzio e nella privacy dei grandi spazi verdi, fra bambini che fanno evoluzioni in bicicletta, gruppi familiari che si dirigono verso le chiese, station-wagon caricate di provviste per picnic.

Dietro l’attacco a Zizek c’è tutto l’odio di Chomsky per i postmoderni. Una diatriba che affonda le proprie origini nella teoria linguistica. La storia del linguaggio è stata divisa in B.C. e A.D.: “Before Chomsky” (prima di lui) e “After his Discoveries” (dopo le sue scoperte). E in mezzo ci sono le guerre con i semiologi decostruzionisti, postmodernisti, strutturalisti. La linguistica americana chomskiana contro quella francese.

Tutto inizia in mezzo all’Atlantico in burrasca su una vecchia carcassa affondata dai tedeschi e recuperata dagli americani, un giorno del lontano 1953, quando, in preda al mal di mare, un giovane studente di linguistica nato a Filadelfia e desideroso di raggiungere l’Europa, Noam Chomsky, si ritira in cabina e viene folgorato da un’idea. E se l’uomo possedesse un organo del linguaggio? Un’entità mentale, astratta ma reale, localizzata nel cervello?

Tutti ritengono, compreso il suo maestro Zellig Harris, che per quanto attiene il linguaggio il cervello dell’uomo sia “tabula rasa”. E che i neonati imparino a parlare per apprendimento, imitando la madre e quanti altri gli sono vicini. Il guaio è “la povertà degli stimoli”, rimugina Noam Chomsky, figlio di un insegnante di ebraico. Come può un bambino che sente un numero grande ma finito di frasi, spesso smozzicate e sgrammaticate, a imparare a formularne un numero praticamente infinito, alcune delle quali mai pronunciate da nessun altro? E, per di più, a formularle senza errori di sintassi? No, gli stimoli sono troppo pochi per ammettere che l’uomo impara a parlare per apprendimento.

Chomsky deve la sua importanza al fatto che è il padre contemporaneo della teoria “innatistica” del linguaggio, la “grammatica generativa”. Chomsky considera la linguistica come un aspetto della psicologia umana, come branca che ha a che fare con la capacità umana di padroneggiare una lingua. Il linguista, in questa prospettiva, deve concentrare la sua attenzione sulla natura della cosiddetta “competenza linguistica”, e non tanto sulle modalità dell’“esecuzione”. A partire di qui, l’acquisizione di una lingua si spiega solo ipotizzando l’esistenza di una facoltà mentale innata nel cervello, quasi genetica. Se così non fosse, sarebbe impossibile spiegare l’apprendimento da parte dei bambini di lingue straordinariamente complesse sulla base di dati frammentari e scarsi.

Un “miracolo”, come l’ha chiamato Chomsky in termini religiosi, decifrabile soltanto ipotizzando una struttura linguistica comune a tutte le lingue e a tutte le menti. In questo quadro obiettivo chiave della linguistica è quello di fornire una descrizione accurata della cosidetta “grammatica universale”, da intendersi come il sistema di restrizioni imposte dalla facoltà (innata) del linguaggio sulla struttura di una qualsiasi lingua. Contraltare delle teorie innatistiche è invece la visione tesa a individuare nel linguaggio un’abilità puramente sociale, coincidente con il possesso di una pratica acquisita. Ed è in questo senso famosa la polemica che ha opposto Chomsky al “comportamentismo” psicologico, ovvero alla teoria “behavioristica” skinneriana.

Quando il padre del neodarwinismo, Burrhus Skinner, capofila del comportamentismo, ideò la cosiddetta “scatola di Skinner”, trasparente e sterile, dove per un anno chiuse come un topo sua figlia Deborah, convinto che le tecniche di condizionamento darwiniane dovessero applicarsi alla vita quotidiana, Chomsky la bollò come “un campo di concentramento ben funzionante”.
La storia avrebbe dato ragione a Chomsky e oggi la teoria skinneriana è ampiamente superata. Chomsky è per istinto un antievoluzionista, tanto che Daniel Dennett, nel suo libro “Darwin’s dangerous idea”, dedica una sezione a “Chomsky contro Darwin”.

A Chomsky, che compare anche fra i celebri “[i]Modern Masters[/i]” di John Lyons, si deve dunque una delle teorie scientifiche più rivoluzionarie del Novecento, da alcuni paragonata perfino a quella della relatività di Albert Einstein. Le ripercussioni della “rivoluzione chomskiana” sono state profonde e non soltanto nel campo della linguistica, ma anche nella psicologia e nella metodologia della scienza. Chomsky da un lato ha aperto nuove vie in una branca della matematica (la teoria formale del linguaggio) e dall’altro ha riaffermato il carattere mentalistico e astratto (invece che comportamentistico ed empiristico) della psicologia cognitiva e della linguistica.

I coniugi Chomsky, Noam e Carol, sono stati una fervida coppia di rivoluzionari del linguaggio che amavano paragonare il proprio lavoro ai “collezionisti di farfalle” (compito della scienza è descrivere, non spiegare). La moglie, scomparsa un anno fa, la linguista Carol Doris Schatz, aveva spiegato le modalità con cui i bambini apprendono il linguaggio nella primissima infanzia. Lei accademica di rango alla Harvard Graduate School of Education, lui guru al celebre Mit del Massachusetts.

Con il suo primo libro del 1957, “[i]Syntactic Structures[/i]”, scatenò un terremoto intellettuale. Disse che il linguaggio non era un artificio culturale che esisteva là fuori, nel mondo; è invece parte dello sviluppo umano. Fu bollato come “medievale” e paragonato alla scuola di Port-Royal, che riteneva la grammatica innata e una manifestazione divina. E’ lì che affondano le origini delle sue polemiche contro il postmodernismo.

Chomsky fu il primo ad attaccare il comportamentismo, una forma di riduzionismo antiumanista secondo cui tutto si riduce all’azione dell’ambiente: “Un metodo perfetto che non spiega nulla”, dirà Chomsky scatenando un mare di polemiche. Uno scimpanzé al quale i ricercatori neodarwiniani cercarono invano di insegnare il linguaggio sarà persino soprannominato “Nim Chimpsky”.
La sua condanna del potere dei media come “sacerdozio laico” lo avrebbe reso inviso agli intellettuali europei. Di recente Chomsky ha attaccato Jacques Lacan, dicendo di averne ricavato la sensazione che fosse un “ciarlatano” che “si atteggiava a favore delle telecamere nel modo tipico di molti intellettuali parigini”.

Il linguista americano ha attaccato anche Jacques Derrida, il padre del decostruzionismo, noto per il deliberato oscurantismo della sua prosa e le affermazioni selvaggiamente esagerate, che ispirò e fece infuriare una generazione di intellettuali e studenti con l’argomentazione che il significato di un insieme di parole non è fisso e immutabile, argomentazione che sintetizzò nel famoso: “Non c’è nulla al di fuori del testo”.

“Prendiamo Derrida, uno dei vecchi saggi”, ha scritto Chomsky. “Pensavo di dover quantomeno essere capace di comprendere la sua ‘grammatologia’, quindi ho provato a leggerla. Sono venuto a capo di qualcosa, per esempio l’analisi critica dei testi classici, che conoscevo molto bene e a proposito di cui avevo scritto anni prima. Ho trovato lo studio spaventoso, fondato su penosi fraintendimenti; e gli argomenti forniti non si avvicinavano nemmeno agli standard a cui ero abituato praticamente fin dall’infanzia. Forse mi sono perso qualcosa, può essere, ma come ho detto restano i sospetti”.

Ne ha anche per Julia Kristeva, semiologa di fama internazionale, altra esponente di spicco dello strutturalismo: “Venne nel mio ufficio vent’anni fa. Poi divenne una maoista, e non ho più letto nulla di lei”. E per Jean-François Lyotard, l’autore della “Condizione postmoderna”: “Aspetto qualche indicazione sul fatto se ci sia qualcosa al di là di trivialità e nonsense”.
Ne ha, infine, anche per Michel Foucault, per cui Chomsky ha nutrito comunque un certo rispetto: “Non è altro che una riformulazione estremamente complessa e pomposa di quanto altri hanno espresso in modo molto semplice e senza la pretesa che vi fosse qualcosa di particolarmente profondo in quanto sostenevano”.

In una parola, cos’è il postmoderno? Open Culture lo ha chiesto il mese scorso a Chomsky per una speciale intervista sul Web. Questa la risposta del guru di sinistra: “Banalità polisillabiche”.

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