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Violenza del pensiero borghese

La nuova inquisizione televisiva è sorridente, emotiva, compassionevole, sempre pronta ad usare una parola di riguardo. Ma chi non si inginocchia è escluso.

Violenza del pensiero borghese
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18 Novembre 2014 - 22.50


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di Lorenzo Vitelli.

La nuova inquisizione televisiva è sorridente, emotiva, compassionevole, simpatetica, sempre pronta ad usare una parola di riguardo. Psicologi, opinionisti, giornalisti, criminologi, sociologi: tutti stipendiati da università, giornali, centri di ricerca, un piede nell”Accademia, un altro in qualche fondazione o, magari, nelle istituzioni. Fanno l”opinione pubblica tra i colori scintillanti e i jingle confortevoli degli studi televisivi. Mediano, levigano, smussano i contrasti, pronano alla conciliazione con tutta la violenza possibile. Chi non si inginocchia è escluso, chi non entra nelle categorie meschine del pensiero unico è demonizzato e ridotto all”etichetta che, con un sorriso – subito dopo la pubblicità! – gli si impone.

Dopo lo scontro tra Buttafuoco e Augias e
il dibattito unidirezionale tra Di Stefano e Formigli, anche Salvini,
da Floris, si è dovuto confrontare con l’amabile professoressa pedagoga
di cui abbiamo visto tutti e 32 i denti (riusciva a parlare e a
sorridere allo stesso tempo). Tutti esponenti (Augias, Formiglia,
Contini) di un ceto intellettuale, “gruppo dominato dalla classe
dominante” (Bourdieu), tremendamente distante dalla realtà dei fatti,
che però si ostina a commentare, e che supplisce alla fine dei roghi,
del linciaggio e della forca in piazza, con l’istituzione della
ghigliottina mediatica: il nuovo processo all’opinione antagonista. 

Non
c’è niente di più subdolamente violento della “libertà di espressione”
borghese, che fa della telecamera, degli effetti speciali, delle
letterine, dei jingle rassicuranti, l’altare su cui tagliare il capo dal
collo di chi la pensa diversamente. 

Qui affossano il pensiero
discordante con un lessico saldamente “democratico” e correct, con
espressione drammatica, con tono vittimistico, sempre prudenti, ma
finalmente minacciosi. Se piangono, è da un occhio solo. Etichettano,
generalizzano, banalizzano, normalizzano ogni argomento al loro status. 

La violenza borghese è il suo universalismo, inteso come appiattimento
di ogni esistenza alla propria. 

L’intellettuale borghese guarda
all’altro come al suo doppio mimetico, e quando lui, seduto in poltrona,
dice a sé stesso di essere tollerante, sbigottito, non vede perché non
lo è anche il residente di Tor Sapienza. La sua conclusione Ã¨, con tutta
probabilità, che quel barbaro non ha avuto un’educazione. Civili,
esageratamente civili, liquidano pretese, richieste, rivendicazioni,
fintanto che non sono le loro.

Come rappresentanti dell’ultimo stadio
della civiltà, questi intellettuali/opinionisti hanno perso il contatto
con la realtà e si situano in un iperuranio fatto di parole astratte che
sguainano in perfetta coincidenza con lo Zeitgeist. Non
producono nulla, sono intermediari, non toccano le cose, non vivono
sulla loro pelle, in quanto economicamente privilegiati, i disastri di
cui però sono chiamati a parlare, a giudicare, a condannare. E tutta la
loro violenza è proprio nell’estraneità tra pensiero e realtà, è la
violenza psicologica di una considerazione astratta che, pur incantevole
a parole, crea delle antinomie nei fatti. 

Lo slogan secondo cui “è
giusto accettare il diverso”, viene da questi intellettuali
istantaneamente connesso all’accettazione forzata dell’immigrato, come
se vi fosse un nesso. Il ceto intellettuale non prende mai in rassegna
le sfumature, le controindicazioni e le possibilità di una realtà molto
più complessa, che non può riassumersi in un’idea. La violenza borghese
risulta dell’imposizione indotta emotivamente, subdolamente, di concetti
vuoti. Così, finalmente, infamare di razzismo chi si oppone alle
dinamiche di un fenomeno realmente dannoso per tutti, di bigottismo chi
non è laicista o di omofobia chi vede nella teoria gender una
prefigurazione dell’antropologia dell’uomo mercificato, è la violenza
con la quale si legittima lo status quo. 

Perché, di fatto,
la retorica intellettuale ci ha convinto che fermare l’immigrazione
vorrebbe dire essere razzisti. Fonte del problema, quindi, non è più la
questione in sé (dell’immigrazione, per esempio) che non tocca la nostra
intellighenzia nella sua quotidianità, ma piuttosto la sua negazione
(il razzismo): dobbiamo accettare l’immigrazione per non essere
razzisti, il genderismo per non essere omofobi, il precariato per non
essere anti-liberali. 

Ma i protagonisti degli scontri di Tor Sapienza,
per quanto possano essere bollati di razzismo, se ne fanno realmente
poco, materialmente, della tolleranza, checché ne dicano i nostri
intellettuali. Fintanto che risiedono nei quartieri alti, obbligano
sovrastrutturalmente ad accettare l’accoglienza forzata degli immigrati
nei centri sociali e nelle periferie, in nome della “tolleranza”, un
simulacro creato ad arte. 

Fintanto che loro figlio non si vorrà sposare
con un altro uomo, il genderismo sarà “istruzione”, così come la
maternità surrogata sarà un’innovazione tecnica, basta che non si venga a
conoscenza delle dinamiche che spingono una madre portatrice indiana ad
affittare il suo utero. Finché c’è il posto fisso la precarietà è
un’opportunità, mentre la disoccupazione in Italia non è un problema se i
propri figli studiano e lavorano in Inghilterra.

 
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