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Gli attentati di Parigi e l'Information Guerrilla

'Parafrasando McLuhan, è esplosa la ''Information Guerrilla 2.0''. Il sistema della comunicazione è frammentato e in troppi perdono lucidità, con tanta ''junk information''.'

Gli attentati di Parigi e l'Information Guerrilla
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14 Gennaio 2015 - 15.18


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di Eva Milan.

In questi giorni, in seguito all”attacco terroristico
di Parigi, è riesplosa quella che, citando il celebre aforisma di Marshall
McLuhan, definisco neanche troppo sarcasticamente “Information Guerrilla
2.0″[1]

Lo tsunami di dettagli, versioni ufficiali, fonti
alternative e controinformazione, insieme alla propaganda anti-islamica, derive
razziste, tamburi di guerra e paranoie collettive, si è riversato nel calderone
dei social network, portando con sé nuove ondate di polemiche, dibattiti e
analisi anche sui cosiddetti “complottismi”. Un film purtroppo già
visto ma che in questi giorni mi appare amplificato nel suo elemento caotico e
catalizzante a vari livelli.

A scanso di equivoci, in questo mare pieno di ambiguità, vorrei subito chiarire
che non mi riconosco nelle schiere degli “anti-complottisti” perché
la guerra contro i “complottisti” è stata storicamente adottata come
strategia mediatica contro chiunque indagasse a scapito delle versioni
ufficiali, indistintamente. Le accuse di “complottismo” sono sempre
state impugnate come una delle armi di censura più efficaci contro il
giornalismo d”inchiesta, il mediattivismo e l”informazione libera. Per questo
bisogna innanzitutto distinguere cosa s”intende per “complottismo” e
distinguerlo da ciò che invece merita credibilità.

I complotti esistono, così come esiste il potere. Poi esiste l”inchiesta, ed
esiste il “complottismo”, che è un”altra cosa. Nella mia formazione
critica anti-media mainstream ho sempre considerato come il primo grande
“complottista” proprio l”informazione ufficiale, perché la sua natura
lobbista e di propaganda in tutto il mondo si fonda su precisi metodi di fabbricazione
di notizie e alterazione dei fatti.

Poi c”è un livello più “creativo” di complottismo, che mi evoca
un”immagine quasi mistico-esoterica, del tutto funzionale alla semplificazione
del racconto mediatico che teoricamente vorrebbe screditare, e che si riconosce
nella pretesa di voler dimostrare una tesi in base a elementi e dettagli
presentati in modo spesso pretestuoso, del tutto insufficienti al quadro
generale, generalmente infondati o di impossibile verifica.

Ovviamente non tutta l”informazione libera, anche non
professionista, che indaga in direzione opposta alle versioni ufficiali è
definibile come “complottista”.

E non tutte le ipotesi non dimostrabili possono essere definite come
“complottismo”. Accanto ai fatti e alle complessità storiche, un
competente giornalista, o un serio esperto di geopolitica o un critico dei
media è anche in grado di fare delle analisi corrette in base alla sua
conoscenza della materia, così come un medico attraverso i sintomi del paziente
è in grado di ipotizzare una malattia prima ancora di vedere le analisi.

Solitamente però questi esperti, proprio come i medici, sono persone che
seguono delle regole deontologiche che non possono mai essere ignorate, ad
esempio quando non dispongono di fonti o prove sufficienti a sostegno della
loro analisi nonostante una lunga e paziente ricerca lo fanno presente o come
minimo mettono il condizionale alle proprie ipotesi.

Si tratta di un argomento molto spinoso, che si presta
anch”esso a facile strumentalizzazione, polemica e incomprensione.

In questi giorni di frastono un”immagine apparsami su facebook del caro Enzo
Baldoni mi è sembrata stridente, fuori luogo, come se Enzo volesse trasmettere
tutto il suo disagio nel trovarsi lì. Lui per me resta un simbolo di una
battaglia che è andata irrimediabilmente persa, quella dell”informazione dal
basso, di chi ha tentato di fare informazione libera e umana, costruendo ponti
di solidarietà e sapere collettivo, alternativo alla fabbrica del consenso. Il
suo sacrificio insieme a quello di molti altri freelance in zone di guerra è
servito alla costruzione di enormi zone d”ombra in cui le dinamiche e le
notizie restano inaccessibili e  le speculazioni e le semplificazioni
abbondano, zone d”ombra in cui oggi un Enzo Baldoni non avrebbe alcuna possibilità
di accesso e testimonianza…

Internet è divenuto uno tsunami in cui soltanto chi ha strumenti acquisiti
dall”esperienza è in grado di distinguere le fonti affidabili dal mare
inquinato di infiltrati, mistificatori, speculatori o semplici utenti ingenui
che diffondono notizie frammentate o infondate, ma il livello dello tsunami è
tale che anche gli esperti talvolta possono lasciarsi ingannare, e devono
necessariamente restringere i loro punti di riferimento restando sempre molto
cauti nel giudicare l”attendibilità e la provenienza delle informazioni…

In tanti boicottano ormai l”informazione ufficiale per rivolgersi a canali
alternativi più o meno affidabili, pochi quelli che nello tsunami sanno
orientarsi per distinguere le singole notizie fondate che pure filtrano ma che
devono essere contestualizzate. In questa situazione tutta l”informazione
appare come uno strumento di guerra fuori dal nostro controllo.

Quei tentativi di costruire ponti alternativi, testimoniando in prima persona,
analizzando e organizzando reti dal basso sono stati spazzati via dallo stesso
sistema che abbiamo contribuito a creare, credendo all”anarchia di internet,
usando lo stesso campo di battaglia controllato dal sistema neoliberista che ha
contribuito a privare di credibilità il giornalismo libero d”inchiesta, a
creare il precariato selvaggio nell”informazione e a svalorizzare le competenze
acquisite dai freelance sul campo, costruendo zone d”ombra in quelle aree di
conflitto alle quali nessun testimone ha più accesso, mentre un blogger o
un”opinione su facebook può avere lo stesso peso di un operatore
dell”informazione.

Sul fronte del giornalismo investigativo di
informazioni e analisi attendibili che hanno screditato le versioni ufficiali e
che consentono di avere un quadro degli sviluppi storici degli ultimi decenni
ce ne sono ormai a valanghe, per la maggior parte verificate e autorevoli, e
vengono tutt”ora prodotte, con fatica, grazie a giornalisti coraggiosi che si
rendono (sempre più) scomodi o invisibili o che hanno rischiato la vita per
portare alla luce la verità. Negare questo significa negare la storia,
cancellare memoria, alterare la percezione di meccanismi molto reali, privare
la collettività del diritto di comprendere la complessità degli eventi, dei
poteri che li controllano, difendersi da essi. Pochi però si prendono la briga
di studiare a fondo questo ricco bagaglio di documentazione.

Oggi questi giornalisti coraggiosi hanno molta meno libertà di azione e gran
parte delle informazioni di prima mano viaggiano in modo più sotterraneo e
frammentato, spesso meno alla portata di tutti (contrariamente a quello che
sembra), spesso senza possibilità di verificare le fonti, spesso taciute perché
scomode per sé stesse, perché il sistema mediatico sta privando i giornalisti
del loro potere contrattuale.

Il cosiddetto “complottismo” va dunque a colmare un vuoto di
attendibilità e saperi che si rende funzionale a queste zone d”ombra, alla
censura e al discredito, il tutto mescolato con informazioni valide che pochi
si prendono la briga di analizzare, così come la totale diffidenza verso il
giornalismo mainstream impedisce talvolta di cogliere importanti notizie che
pure trapelano e che meritano di essere contestualizzate (“Il vero come
momento del falso”[2]). Questo accade
proprio perché si sono minate le basi delle regole e della professionalità del
giornalismo investigativo indipendente, i suoi strumenti di sostegno,
indipendenza e sopravvivenza, scaricando il concetto stesso di informazione nel
calderone del web, che non è “informazione dal basso”autogestita e
concepita su basi etiche, ma uno tsunami che tutto invade, trascina e disperde.

 

Il sistema mediatico, di cui fa parte integrante il
mondo del Web, ha generato lo tsunami, ma il sistema non si genera da solo, è
strutturato sempre in base agli interessi dei poteri che lo hanno concepito e
che in buona parte continuano a gestirlo.

L”idea di “complottismo” (che genera crescente insofferenza) è dunque
una semplice conseguenza funzionale straripante dalla demolizione delle regole
necessarie ai margini di libertà di un”informazione indipendente e attendibile.

Il fatto che tanti condividano e diffondano congetture
e teorie con un click a catena, (spesso basandosi solo su un titolo senza
nemmeno aprire l”articolo e leggerlo o controllarne la provenienza) è
certamente espressione di comoda semplificazione, ma anche sintomo del
collettivo brancolare nel buio e di una diffidenza diffusa: si cercano risposte
a domande a cui nessuno risponde, nessuno che sia ritenuto un “medium”
affidabile. Un meccanismo perfetto per distruggere i fondamenti del diritto
all”informazione, diffondere disillusione, consolidare potere sul controllo o
il non controllo degli eventi e l”oscuramento delle complessità che li hanno
generati, potenziare e restituire credito all”informazione mainstream e ai suoi
“rumori di fondo”, creare terreni di conflitto e scontri di civiltà,
scongiurare creazioni di ponti e abbassare il livello dei saperi collettivi che
lasciano il posto alle semplificazioni massmediatiche, che siano esse prodotto
delle versioni ufficiali, del giornalismo d”inchiesta, dei complottismi o del
semplice opinionismo.

E” quella stessa semplificazione che impedisce di fare distinzioni e recepire
l”analisi delle complessità almeno in minima parte. E” in questo modo che
infine anche l”analisi delle complessità, non trovando né spazi di ricezione né
terreno di sapere acquisito collettivamente, viene confusa con il
“complottismo”, e a sua volta screditata con la diffidenza di chi non
ha gli strumenti per leggerla.

Questa semplificazione in realtà è stato un elemento sempre presente nella
Storia della propaganda e dei media mainstream. Quello che accade nell”era dei
social network è la perdita del controllo e della memoria proprio dei fili di
quella complessità storica che sempre è stata ricercata al di fuori delle
versioni ufficiali. La frammentazione di notizie e dettagli enfatizzati per
dimostrare teoremi e indirizzare correnti di pensiero (strategia da sempre
adottata proprio dai media mainstream), la diffidenza crescente verso le
versioni ufficiali, la confusione generata tra giornalismo investigativo e
“complottismo” impediscono di distinguere questi fili e di
intravedere quella verità “al di là dei fatti” di cui ci parlava
Tiziano Terzani. 

Non abbiamo molti mezzi per difenderci da questo mostro che è diventata
l”Information Guerrilla. Si può boicottare il mondo dei media mainstream, si
possono coltivare dubbi e ragionamenti, si può acquisire esperienza
nell”individuare punti di riferimento indipendenti affidabili, studiando la
complessità degli eventi passati e presenti, ma non tutti hanno gli strumenti,
l”esperienza, il tempo o la volontà per farlo. Finché l”informazione resterà in
mano alle grandi lobby della comunicazione e in quella dello tsunami dei social
network (anch’esso sotto il controllo delle stesse lobby), il diritto a
un”informazione indipendente e affidabile per la maggior parte della
collettività sarà sempre più un miraggio.

In questo contesto è necessario restituire la dignità sottratta
al giornalismo e ai freelance, e  all”idea stessa di Informazione,
restituendo ad essa quel controllo che una volta produceva consenso attraverso
linee editoriali ben congegnate e strutturate *anche* grazie alla competenza,
una competenza quasi sempre servile ma pure attenta e talvolta ribelle, mentre
oggi non sta producendo altro che “junk information”, terreno di
conflitto e perdita di lucidità collettiva.

E” necessaria più che mai una battaglia per consentire
a freelance e giornalisti precari e non di svolgere il loro lavoro, sviluppando
e restituendo professionalità a chi opera nell”informazione, i primi che
dovrebbero assolutamente trovare la forza di ribellarsi.

* Eva Milan, musicista, mediattivista

NOTE:


[1]
“L”Information Guerrilla 1.0″ nel mio personale immaginario è stata
combattuta (e perduta) dalle reti del mediattivismo nei primi anni 2000 versus
i media mainstream.  

[2] cit. Guy
Debord

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