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Il mio caso assurdo di giornalista destinato al carcere

Stavolta racconto la mia storia: 34 processi ricaduti sulle mie spalle dopo il fallimento di Epolis. Senza più una lira e con un ordine di carcerazione. [Antonio Cipriani]

Il mio caso assurdo di giornalista destinato al carcere
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7 Maggio 2015 - 14.50


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di Antonio Cipriani

Fa un certo effetto aprire una mail e scoprire che contiene un ordine di
esecuzione per la carcerazione. Cinque mesi e qualche giorno per aver omesso,
come direttore responsabile del quotidiano E Polis, il controllo su un articolo
scritto da un giornalista professionista. Questo dice la sentenza del tribunale
di Oristano. Cinque mesi da fare in carcere e in subordine – se verranno
accolte come spero le richieste della mia difesa – in affidamento in prova al
servizio sociale o ai domiciliari.

È solo l”ultimo tassello, per ora, di una storia assurda e travagliata che
va avanti da quattro anni. E mi vede ostaggio di una serie di incongruenze
nelle leggi che regolano la professione giornalistica, e mi costringe oggi – io
in genere schivo e riservato – a prendere carta e penna e a raccontarla. In mio
nome e in mia difesa. E in difesa e nel nome di tutti quelli che si trovano
nella mia stessa situazione e non hanno alle spalle le corazzate dei media e
che questi problemi li vedono sicuramente da un”altra prospettiva. 

In sintesi. Ho diretto E Polis (prima Il Giornale di Sardegna e
poi Il Sardegna) dall”ottobre 2004 al dicembre 2007. Poi mi sono dimesso a
seguito di un cambio di proprietà. Nel 2011 E Polis è fallito tra debiti,
inchieste, accuse di bancarotta. E questo fallimento ha scaricato sulle spalle
dei giornalisti le cause in corso. Trentaquattro processi sulle mie spalle di
direttore responsabile. Un”enormità. Trentaquattro processi sparsi in
tutt”Italia, perché E Polis usciva e veniva stampato in tutta Italia.
Trentaquattro processi senza alcuna difesa e senza alcun aiuto.

Dal 2011 il mio impegno professionale è stato: difendermi alla meno peggio,
farmi aiutare da avvocati amici, evitare il più possibile condanne, cercare di
non pagare tutte le spese giudiziarie. Rateizzare Equitalia. Inseguire gli
indulti.

Perché ogni processo consta di notifiche per ogni passaggio, quindi di
mattinate passate in questura o dai carabinieri, di carte da leggere, di
avvocati da nominare, di udienze. Di condanne, più o meno giuste, sulle quali
neanche entro nel merito perché si aprirebbe un altro capitolo. 

Giustizia del pagare. Senza nessun editore alle spalle,
senza fondi. Senza niente altro che i risparmi di una vita da mettere sul
piatto giudiziario. Per pagare. Pagare sempre. Perché alla fine tutti si riduce
a questo. Se hai i soldi paghi, chiudi con un accordo, ed eviti problemi. Se
non hai soldi e combatti, alla fine non puoi che perdere. Perché anche se
riesci in tre gradi di giudizio a prevalere, le spese sono talmente alte che
quasi conviene accordarsi preventivamente e pagare il riscatto dall”omesso
controllo.

Basta moltiplicare trentaquattro processi per la cifra media del costo di
un processo (se qualcuno ha avuto la sventura) per capire che è una partita
persa in partenza. E che forse qualcosa si potrebbe anche fare per evitare che
la libertà di stampa diventi una questione di reddito e di protezioni. Chi le
ha la esercita, chi non le ha meglio se imbraccia il violino.

Anche l”ultima condanna, quella assurda al carcere per un omesso controllo
(neanche a scomodare il reato d”opinione, cosa di cui per altro si tratta) è
arrivata per la mancanza di soldi. Perché non avevo denaro per pagarmi un
avvocato. Così è. 

Perché la legge è assurda? Perché è assurdo che gli effetti di
un fallimento, di azioni in alcuni casi non proprio limpide degli editori,
ricadano sulle fragili spalle di chi invece pensava di poter esercitare la
libertà di stampa e di garantirla ai suoi colleghi. Perché è assurdo e
anacronistico che un direttore possa controllare riga per riga un intero
giornale – nel mio caso 15 per circa 800 pagine uniche sfornate al giorno –
brevine e lettere comprese. Ed è anche inaccettabile poi che un direttore debba
pagare per errori di professionisti che magari in tribunale hanno capito fischi
per fiaschi o in una conferenza stampa hanno sbagliato un reato. Che dovrebbe
fare quel direttore? Ogni sera verificare una per una le notizie? Chiamare
tutti i tribunali per sapere se è vero che Tizio è stato condannato per
corruzione e Caio per rapina?

L”impossibilità di esercitare un controllo del genere su professionisti,
che fanno tanto di esame per iscriversi all”Ordine, non rende il reato troppo
generico? Omesso controllo di che cosa se il controllo è impossibile? Diverso è
il ruolo della direzione nella titolazione, nelle campagne di stampa. Quella è
responsabilità diretta, anche penale se incorre in un reato. Peccato che per
questo genere di reato sono stato condannato solo una volta, e alla fine la
Cassazione ha addirittura stabilito che avevo ragione, che difendevo solamente
la libertà di stampa. Peccato che in altri 33 casi mi sono dovuto difendere
dall”indifendibile, senza responsabilità dirette sugli eventuali errori. Certo,
potevo censurare qualche cronista. Sarebbe stato accettabile? Quando ho
bloccato pezzi che contenevano evidenti caratteristiche di diffamazione, sono
fioccate le accuse di censura. Figuriamoci. 

Chiudo col carcere. Perché mi sembra davvero sproporzionato l”omesso
controllo con la condanna al carcere. E in genere assurdo che possa esserci la
possibilità del carcere per un reato d”opinione, figuriamoci in un caso in cui
le responsabilità personali sono davvero minime. E mi auguro che questa
situazione, per certi versi simile a quella di altri colleghi, possa spingere
davvero sulla strada di una regolamentazione di questi casi assurdi. E,
comunque, si discuta politicamente dei paradossi, delle ingiustizie e del fatto
che il carcere per reati giornalistici non è mai un segno di libertà e
democrazia.

 

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