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(Non) fare il giornalista in Italia

La cronaca è diventata, da merce in vendita per decenni, una commodity gratuita: i cittadini non sono più abituati né disposti a pagare le notizie. Una crisi profonda.

(Non) fare il giornalista in Italia
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24 Settembre 2015 - 07.54


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di Federico Ferrero.



Una frequentata agenzia di lavoro statunitense bolla il mestiere del giornalista come carriera a rischio di scomparsa entro dieci anni e lo qualifica come peggior mestiere del 2015. In Italia, il primo problema della professione del giornalista pare essere la sovrappopolazione: se, negli Stati Uniti, una persona su 5.300 fa questo mestiere, sul nostro territorio si contano più di 100.000 giornalisti, circa uno ogni 500 cittadini. Fosse vera – formalmente lo è – sarebbe una cifra clamorosamente spropositata: in Francia si fanno bastare un giornalista ogni 1.800 abitanti, in Gran Bretagna (dove la professione è svincolata da leggi e ordini, insomma, è giornalista chi lo fa) se ne contano approssimativamente 40.000, cioè uno ogni 1.600 abitanti.



Un dato tanto bulimico sfugge alla comprensione. A meno di non ricordare che, a inquinare cifre e ragionamenti, nel 1963 Ã¨ intervenuta la creazione di una categoria di mezzo, sconosciuta agli altri ordinamenti: quella dei giornalisti pubblicisti. Nati per volontà di un senatore veneto della DC, Guido Gonella, primo presidente dell’Ordine dei giornalisti, secondo la norma i pubblicisti dovrebbero essere lavoratori che svolgono sì la stessa attività dei professionisti, ma che si mantengono con un altro mestiere: architetti e avvocati che collaborano con riviste di settore, professori e scienziati chiamati a commentare saltuariamente fatti e notizie sui quotidiani, scrittori titolari di rubriche sui settimanali. Dopo 50 anni è palese il caos nato dalla mala applicazione di quel comma: secondo la legge 69/1963, infatti, soltanto i professionisti potrebbero vivere di giornalismo, cioè esercitare Â«in modo esclusivo e continuativo la professione» (avendo peraltro diritto a una serie di tutele divenute, talora, anacronistiche).


Di fatto, però, i pubblicisti che vivono – o tentano di farlo – con il giornalismo sono destinati a diventare maggioranza assoluta rispetto ai professionisti  (1). Gli ultimi dati ufficiali indicano, infatti, in circa 30.000 i professionisti e in 75.000 i pubblicisti, ma sono solo 50.000 i giornalisti titolari di una posizione Inpgi. Ciò significa che il numero reale di lavoranti, coloro che  versano i contributi alla cassa, è inferiore alla metà degli iscritti all’Ordine. Tutti gli altri sono giornalisti inattivi: hanno preso e mantengono il tesserino pur non svolgendo mai attività giornalistica, anche se le norme lo vieterebbero (ma tant’è: i consigli regionali sono storicamente restii a sfoltire le liste, anche perché l’iscritto paga ogni anno un centinaio di euro di rinnovo tessera, e poi la legge prescrive – e non se ne capisce la ragione â€“ che dopo i 15 anni di iscrizione si ottenga il diritto vitalizio a non essere cancellati).



Quella che un tempo era la regola, oggi è la casta: Ã¨ la classe dei giornalisti assunti, che possono contare su un reddito lordo medio intorno ai 60.000 euro annui, retribuzione che corrisponde a una busta paga intorno ai 3.000 euro netti. Ma la categoria conosciuta come quella degli “articolo uno” (del contratto nazionale di lavoro giornalistico) e degli “articolo due” (i collaboratori fissi) ha una popolazione in calo drastico: nel 2009 erano 18.000, nel 2013 appena 15.000. L’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti, ha registrato un calo di 3mila occupati tra il 2009 e il 2014, pari a un taglio del 15%. E l’istituto è tanto gravato dal peso delle pensioni dei vecchi giornalisti dei tempi d’oro, e tanto poco finanziato dai contributi striminziti degli assunti sempre meno numerosi, che rischia il default entro il 2030. Del resto, ai dipendenti vanno riconosciuti non solo lo stipendio, i contributi, le ferie, il Tfr ma anche il pagamento extra per gli orari notturni, i giorni festivi, i premi di produttività, le trasferte. Costi su cui si è abbattuta la falce degli editori in bolletta: ecco perché le (spesso false) partite Iva sono proliferate, anche nel giornalismo. 

Né la situazione accenna a invertire direzione: negli ultimi due anni si sono annunciati e realizzati pesanti piani di riduzione dei costi e dei numeri del personale, anche in grandi realtà come Rcs (Corsera e Gazzetta dello sport, dopo la chiusura di dieci testate nel comparto periodici), così come nel gruppo Espresso, alla Stampa di Torino, a Condé Nast, nelle agenzie di stampa come Ansa e Adnkronos.


Negli stessi cinque anni (2009-2013) i giornalisti autonomi sono lievitati di 10.000 unità e l’esercito dei precari ha doppiato i contrattualizzati, superando agilmente quota 30.000. Costoro contano su retribuzioni medie di poco superiori ai 10.000 euro lordi annui, pagamenti che non di rado vengono erogati a fronte di prestazioni identiche a quelle dei giornalisti assunti. Chi persevera, insomma, spesso o ha un’altra fonte di reddito, o proviene da una famiglia ricca, o rinuncia a una vita autonoma e rimane in famiglia fino alla mezza età. A sconsigliare la, chiamiamola così, carriera del giornalista, ormai, sono i direttori in persona; come Matteo Marani del Guerin Sportivo, che invita esplicitamente i ragazzi che covano il sogno del giornalismo a lasciar perdere. Contrastati da chi, come Beppe Severgnini, definisce questo periodo come «momento economico pessimo ma momento professionale ottimo: Internet è un moltiplicatore di talenti e possibilità» (quando è stato pubblicato il suo commento, tuttavia, non si era ancora diffusa la notizia dell’ulteriore taglio di 470 posti di lavoro al Corriere della sera).

Ecco perché si è scatenata, negli ultimi tempi, una battaglia condivisa dai giornalisti per il riconoscimento dell’equo compenso. Una lotta giusta che ha condotto a una soluzione ingiusta, censurata anche dalla giurisprudenza amministrativa: il Tar del Lazio, infatti, ha già annullato la delibera sull’equo compenso firmata dal sindacato dei giornalisti (la Fnsi) e da quello degli editori (Fieg) semplicemente perché, al di là delle acrobazie logiche dell’allora segretario del sindacato Franco Siddi, la verità è semplice: i compensi minimi fissati dall’accordo sono indecorosi.

Già nel 2008, al principio della crisi, Guido Besana si chiedeva che mestiere facessero i 100.000 iscritti all’ordine e lamentava Â«l’ allargamento della base, che ha avuto come effetto collaterale il “todos caballeros”, la corsa alle tessere e ai contributi, l’espansione in territori di confine, la compiacenza, le clientele, il do ut des, il cammellaggio». Dal 2000 al 2013, i giornalisti precari sono aumentati del 327% e, in tempi non sospetti (la polemica è del 1998), ci si chiedeva che senso avesse sfornare, ogni anno, laureati in giornalismo e titolari di master condannati alla disoccupazione.

Eppure, citando Pietro Saccò di Avvenireil giornalismo non fa più notizia: spariscono testate e posti di lavoro, lo schema economico tradizionale dellatestata finanziata da lettori e inserzionisti non funziona più e Internet non è ancora (quando lo sarà?) una fonte di guadagno. Anzi, finora è stata causa determinante della perdita di valore del lavoro del giornalista. In un dialogo con il Caffè, Alessandro Gilioli sottolineava come la cronaca sia diventata, da merce in vendita per decenni, una commodity gratuita: i cittadini non sono più abituati né disposti a pagare le notizie.  In questo stato di sofferenza, abbiamo meno quantità e meno qualità, minori capacità professionali di chi fa le notizie e minori mezzi per produrle, meno soldi per pagarle, meno cibo per tutti. Come scriveva Michele Masneri in un testo tragicomico sul Foglio, i giornalisti freelance, loro malgrado il partito di maggioranza dei lavoratori dell’informazione, sono diventati â€œla fascia alta dei morti di fame”.

[Prossima puntata: vivere da giornalista in Gran Bretagna]

(1) A prendere atto della realtà, cioè del fatto che i giornalisti pubblicisti hanno ormai raggiunto e superato come popolazione i professionisti e che, non di rado, si tratta di lavoratori la cui unica attività è giornalistica e cui è stato impedito l’accesso al praticantato in ragione di una vasta area di irregolarità e illegalità, a fine 2013 è intervenuta una norma chiamata del “ricongiungimento”. Da allora, i pubblicisti iscritti da almeno 5 anni (che possano dimostrare di vivere di giornalismo da almeno 3) posso direttamente sostenere l’esame di Stato, senza praticantato.


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