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Come le colonie israeliane soffocano l'economia palestinese

L’impatto devastante delle colonie sull’economia palestinese: tolgono ai palestinesi terra, acqua e altre risorse, creando una massiccia disoccupazione. Perché boicottare.

Come le colonie israeliane soffocano l'economia palestinese
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28 Dicembre 2015 - 06.00


ATF

Al Shabaka e Ma’an News.



Sintesi


Israele vede le linee giuda recentemente  emanate dall’Unione Europea
per l’etichettatura di alcuni prodotti delle sue colonie come la punta
dell’iceberg. Teme che ciò aprirà la porta a misure più dure contro la
sua colonizzazione illegale e sta mettendo in campo le forze
filo-israeliane in Europa e negli Stati Uniti. Uno degli argomenti
continuamente ripetuti è che l’etichettatura danneggia i lavoratori
palestinesi.


In questo documento la responsabile politica di Al-Shabaka Nur Arafeh e le consulenti politiche  Samia al-Botmeh e Leila Farsakh
sfatano gli argomenti addotti da Israele contro la decisione
dell’Unione Europea di etichettare i prodotti delle colonie, dimostrando
l’impatto devastante che il sistema delle colonie israeliane ha avuto
sull’economia palestinese togliendo ai palestinesi la terra, l’acqua e
altre risorse e creando una massiccia disoccupazione. Affrontano anche
la condizione di quei lavoratori palestinesi – una minoranza della forza
lavoro – che sono stati obbligati a guadagnarsi da vivere proprio nelle
colonie che hanno danneggiato in modo così grave l’economia dei
palestinesi e più in generale i loro diritti. Proseguono esaminando il
passo dell’Unione Europea (UE) e suggeriscono le iniziative successive
che l’UE dovrebbe prendere per rispettare pienamente le leggi
internazionali ed europee 1.



Il contesto


Ci sono voluti anni all’Unione Europea per sviluppare la sua
posizione sull’etichettatura dei  prodotti delle colonie che Israele ha
costruito sui territori palestinesi e siriani [le Alture del Golan.
Ndtr.] fin da quando li ha occupati nel 1967. La Commissione Europea ha
emanato una decisione nel 1998 in cui si sospettava che Israele stesse
violando l’accordo di associazione con l’UE, firmato nel 1995 e entrato
in vigore nel 2000, che esentava i prodotti israeliani dal pagamento di
dazi doganali. Nel 2010 la Corte Europea di Giustizia ha confermato che i
prodotti provenienti dalla Cisgiordania non beneficiavano del
trattamento doganale preferenziale in base all’accordo di associazione
dell’UE con Israele e che le affermazioni delle autorità israeliane non
erano vincolanti per le autorità doganali dell’UE.


Tuttavia è stato solo nel 2015 che l’UE ha preso la decisione a lungo
attesa di adeguare le proprie azioni alle sue stesse regole, in parte
come risposta alla crescente pressione da parte della società civile
perché riconoscesse l’illegalità delle colonie. Il 10 settembre il
Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che chiede
l’etichettatura dei beni delle colonie israeliane in quanto prodotti
negli “insediamenti israeliani” piuttosto che in “Israele” e che
garantisce che non beneficino del trattamento  preferenziale sugli
scambi in base al Trattato di Associazione tra l’Ue ed Israele. Due mesi
dopo, l’11 novembre, l’UE ha emanato le linee guida attese da molto
tempo riguardo all’etichettatura, che ha definito in un linguaggio molto
discreto come  una “Comunicazione Interpretativa”. Tuttavia i prodotti
delle colonie saranno ancora commerciati con l’Unione Europea (EU),
lasciando ai consumatori la “decisione informata” se comprare o meno
questi prodotti.


Israele sostiene che l’iniziativa dell’UE è “discriminatoria” e che è
dannosa per l’economia palestinese in generale e per i lavoratori
palestinesi in particolare. E’ chiaramente un tentativo da parte di
Israele di distogliere l’attenzione internazionale dalla realtà
dell’illegale colonizzazione israeliana, dei suoi effetti profondamente
negativi per l’economia palestinese e degli obblighi morali e giuridici
dell’UE. In effetti, l’intera colonizzazione da parte di Israele è
illegale in base al diritto internazionale, come riconfermato dalla
Corte Internazionale di Giustizia nel suo “Parere consultivo” del 2004
sul Muro di Separazione costruito da Israele. Il trasferimento da parte
di Israele della sua popolazione nei territori occupati è una violazione
della Convenzione dell’Aja del 1907 e della Quarta Convenzione di
Ginevra del 1949.



Lo sfruttamento economico dei Territori Palestinesi Occupati da parte delle colonie


Il presente rapporto riguarda i territori occupati da Israele nel
1967 – la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la Striscia di Gaza e
le Alture del Golan, e più specificamente le colonie israeliane e gli
avamposti costruiti nei Territori Palestinesi Occupati (TPO)2. Non affronta tutte le violazioni delle leggi internazionali e dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.


Il fatto che la costruzione delle colonie israeliane si sia basata
sullo sfruttamento economico dei TPO è stato ampiamente documentato. Ciò
ha incluso la confisca di ampie zone di terra palestinese  e la
distruzione di proprietà palestinesi per utilizzarle a scopi edilizi ed
agricoli; la confisca di risorse idriche, al punto che 599.901 coloni
utilizzano sei volte più acqua che tutta la popolazione palestinese
della Cisgiordania, composta da 2.86 milioni di abitanti;
l’appropriazione di luoghi turistici e archeologici; lo sfruttamento di
cave, miniere, risorse del Mar Morto e di altre risorse naturali non
rinnovabili dei palestinesi, come sarà argomentato in seguito.


Le colonie sono anche state agevolate da un sistema infrastrutturale
di strade, di checkpoint e dal Muro di Separazione, portando alla
creazione di bantustan isolati in Cisgiordania e all’appropriazione di
altra terra palestinese.


In conseguenza di ciò attualmente le colonie israeliane controllano
circa il 42% della terra della Cisgiordania. Questo dato comprende aree
edificate così come i confini municipali delle colonie israeliane.
Questi confini attualmente comprendono un’area 9,4 volte più ampia di
quelle edificate nelle colonie della Cisgiordania e sono proibiti ai
palestinesi che non hanno un permesso per accedervi.


La maggioranza delle colonie della Cisgiordania sono costruite
nell’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania e che è molto
ricca di risorse naturali3.
Secondo uno studio della Banca Mondiale, il 68% dell’Area C è stato
destinato alle colonie israeliane, mentre meno dell’1% è stato concesso
all’utilizzo da parte dei palestinesi.


All’interno dell’Area C lo sfruttamento da parte delle colonie
israeliane è concentrato nella Valle del Giordano e nella parte
settentrionale del Mar Morto. Le colonie israeliane controllano l’85,2%
di queste zone, che sono le terre più fertili della Cisgiordania.
L’abbondante disponibilità di acqua e il clima favorevole forniscono le
migliori condizioni per l’agricoltura. Di conseguenza producono il 40%
delle esportazioni di datteri da Israele. Nel contempo i palestinesi
hanno il divieto di vivere lì, costruire o persino pascolare il loro
bestiame con il pretesto che si tratta di “terre statali”, di ” zona
militare” oppure di “riserve naturali”.


Israele ricorre anche ad altri metodi per espellere i palestinesi
dalle loro terre, distruggendo le case, proibendo la costruzione di
scuole e ospedali e negando ai residenti l’accesso a servizi essenziali
come l’elettricità, l’acqua e l’escavazione di pozzi. Al contrario,
molte colonie sono definite “aree di priorità nazionale”, permettendo
loro di ricevere incentivi finanziari dal governo israeliano nei settori
dell’educazione, della salute, dell’edilizia, dello sviluppo
industriale ed agricolo4.


I proventi israeliani derivanti dallo sfruttamento della terra
palestinese e delle risorse della Valle del Giordano e dell’area
settentrionale del Mar Morto sono stimati attorno ai 500 milioni di
shekel all’anno (circa 118 milioni di euro). Per avere un’idea
dell’impatto sull’economia palestinese, vale la pena di notare che i
costi indiretti delle restrizioni imposte da Israele all’accesso
palestinese all’acqua nella Valle del Giordano – e di conseguenza
l’impossibilità di coltivare la loro terra – erano pari a  663 milioni
di dollari [circa 616 milioni di euro. Ndtr.], l’equivalente dell’8,2%
del prodotto interno lordo palestinese nel 2010.


Nel frattempo Israele continua a costruire nuove colonie. Netanyahu,
durante il suo discorso all’US Center for American Progress
[organizzazione liberal vicina ai Clinton e ad Obama. Ndtr.] in
novembre, ha sostenuto che nessuna nuova colonia è stata edificata
negli ultimi vent’anni. Di fatto 20 colonie israeliane sono state
approvate durante i suoi mandati, tre delle quali erano avamposti
illegali che sono state successivamente regolarizzate dal governo.


La manifestazione più recente della politica di colonizzazione
israeliana è la ripresa della costruzione del Muro di Separazione nei
pressi di Beit Jala in Cisgiordania, che di fatto separa gli abitanti
del villaggio dalle terre coltivate di loro proprietà nella valle di
Cremisan. Il percorso di questo tratto di Muro è stato disegnato per
permettere l’annessione della colonia di Har Gilo, a sud di Gerusalemme,
mettendola in collegamento con la colonia di Gilo, che si trova
all’interno dei confini del Comune di Gerusalemme creati da Israele dopo
l’inizio dell’occupazione, nel 1967.



Un’economia palestinese strangolata dalle colonie


La colonizzazione illegale da parte di Israele ha avuto decisamente
un effetto profondamente negativo sull’economia palestinese. Il
controllo israeliano su acqua e terra ha contribuito a ridurre la
produttività del lavoro del settore agricolo ed il suo contributo al
PIL: l’apporto di agricoltura,  settore forestale e della pesca è sceso
dal 13,3% del 1994 al 4,7% nel 2012, ai prezzi attuali. Lo sversamento
di rifiuti solidi e liquidi dalle zone industriali delle colonie nei TPO
ha ulteriormente inquinato l’ambiente, la terra e l’acqua dei
palestinesi.


L’accesso limitato alle cospicue risorse del Mar Morto ha impedito ai
palestinesi di sviluppare il settore dei cosmetici e altre industrie,
basate sull’estrazione di minerali. Uno studio della Banca Mondiale
stima che se non ci fossero state restrizioni alla disponibilità di
queste risorse, la produzione e la vendita di magnesio, potassio e bromo
avrebbe comportato un valore annuo di 918 milioni di dollari [circa 844
milioni di euro. Ndtr.] per l’economia palestinese, l’equivalente del
9% del PIL nel 2011.


Le drastiche limitazioni nell’accesso alle miniere e alle cave
nell’Area C ha anche ostacolato la possibilità per i palestinesi di
estrarre ghiaia e pietre. Il valore lordo annuo stimato come perdita per
l’economia palestinese per l’estrazione da cave e miniere è di 575
milioni di dollari [circa 529 milioni di euro. Ndtr.]. In totale, si
stima che le limitazioni all’accesso ed alla produzione nell’Area C sono
costate all’economia palestinese 3.4 miliardi di dollari [più di 3.1
miliardi di euro Ndtr.]. Come esaminato in un precedente documento di
Al-Shabaka, Israele controlla persino l’accesso dei palestinesi al loro
stesso campo elettromagnetico – una politica a cui contribuiscono le
colonie –  creando perdite tra gli 80 ed i 100 milioni di dollari annui
[dai 73 ai 92 milioni di euro. Ndtr.] per gli operatori palestinesi
delle telecomunicazioni.


Inoltre l’assenza di contiguità territoriale all’interno della
Cisgiordania, unita ad altre restrizioni israeliane al movimento ed
all’accesso, ha frammentato la sua economia  in piccoli mercati non
connessi tra loro. Ciò ha incrementato i tempi ed i costi di trasporto
delle merci da una zona della Cisgiordania ad un’altra e dalla
Cisgiordania al resto del mondo. In seguito a ciò, la competitività dei
prodotti palestinesi sui mercati locali e internazionali è stata
indebolita.


Oltretutto, poiché l’economia in Cisgiordania è stata viziata
dall’imprevedibilità e dall’incertezza – il che non è sorprendente, in
quanto l’area è sottoposta a un’occupazione militare –  il costo ed i
rischi di fare impresa sono aumentati. Ciò ha peggiorato il clima per
gli investimenti, limitato lo sviluppo economico e aumentato la
disoccupazione e la povertà. Nel complesso si stima che il costo diretto
ed indiretto dell’occupazione sia stato di circa 7 miliardi di dollari
[6,4 miliardi di euro. Ndtr] nel 2010 – circa l’85% del PIL palestinese
stimato5.



Spossessati: i lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane


L’economia palestinese è stata quindi colpita da fragilità
strutturali e settoriali che sono principalmente dovute all’occupazione
israeliana e alla colonizzazione. L’espropriazione di terra, acqua e
risorse naturali da parte delle colonie e il controllo restrittivo di
Israele sui movimenti, l’accessibilità e altre libertà ha indebolito la
base produttiva dell’economia, che non è più in grado di generare
occupazione e investimenti sufficienti ed è sempre più dipendente
dall’economia israeliana e dagli aiuti dall’estero.


Questa dura realtà economica è il fattore principale che porta alcuni
palestinesi a lavorare nelle colonie israeliane – si stima che siano
state solo il 3,2% del totale degli occupati della Cisgiordania nel
terzo quadrimestre del 20156.
Invece di essere auto-sufficienti proprietari dei mezzi di produzione, i
palestinesi sono stati spossessati delle loro risorse economiche e dei
loro diritti dall’occupazione militare e dalle colonie israeliane e sono
stati trasformati in manodopera a basso costo.


Infatti la maggior parte dei lavoratori palestinesi nelle colonie è
impiegata in lavoro di bassa qualifica e retribuzione: almeno la metà di
loro è utilizzata nel settore edile. Ciò significa che meno del 2% del
totale della popolazione palestinese occupata sarebbe colpita nel caso
di chiusura delle industrie israeliane nelle colonie.


I lavoratori palestinesi nelle colonie sono sottoposti a condizioni
di lavoro difficili e a volte pericolose, e si stima che il 93% di loro
non abbia un sindacato che li rappresenti. Di conseguenza sono soggetti a
licenziamenti arbitrari ed alla revoca del permesso di lavoro se
rivendicano i propri diritti o cercano di sindacalizzarsi. Una ricerca
del 2011 ha scoperto che la maggioranza dei lavoratori palestinesi
avrebbe lasciato il proprio lavoro nelle colonie se avesse trovato
un’alternativa nel mercato del lavoro palestinese.


Mentre si  sostiene che i lavoratori palestinesi nelle colonie
ricevono un salario superiore a quello del mercato del lavoro
palestinese, è il caso di notare che sono pagati in media meno della
metà del salario minimo israeliano. Ad esempio a Beqa’ot, una colonia
israeliana nella Valle del Giordano, i palestinesi sono pagati il 35%
del salario minimo legale. E’ da notare che gli impianti di
impacchettamento della Mehadrin, il più grande esportatore israeliano di
frutta e verdura nell’UE, si trovano in questa colonia.


In breve, è proprio il colonialismo di insediamento israeliano che
nuoce ai palestinesi, molto più che l’etichettatura da parte dell’UE dei
prodotti delle colonie. Quello di cui i palestinesi hanno bisogno non è
più lavoro nelle colonie o più dipendenza dall’economia israeliana.
Piuttosto quello di cui i palestinesi hanno bisogno è lo smantellamento
delle colonie israeliane, la fine dell’occupazione e la piena
realizzazione dei loro diritti in base alle leggi internazionali. Solo
allora potranno realmente migliorare la base produttiva dell’economia
palestinese, generare opportunità di lavoro, garantirsi autonomia e
auto-sufficienza e smettere di essere dipendenti dagli aiuti
internazionali.



La distanza tra la retorica dell’UE e le sue azioni


E’ contro questo contesto che il ruolo dell’UE nei riguardi delle
colonie israeliane deve essere messo in discussione. L’UE riconosce che
le colonie israeliane costruite nei TPO sono illegali. La sua
“Comunicazione Interpretativa” stabilisce chiaramente che l’UE, “in
linea con le leggi internazionali, non riconosce la sovranità di Israele
sui territori occupati da Israele dal giugno 1967.” Tuttavia l’UE
continua ad importare beni dalle colonie israeliane (soprattutto frutta e
verdura fresche coltivate nella Valle del Giordano) per un valore annuo
stimato in 300 milioni di dollari [276 milioni di euro. Ndtr.]. E’ più
di 17 volte il valore medio annuale dei prodotti esportati dai TPO
nell’UE tra il 2004 e il 2014.


Nonostante la “Comunicazione Interpretativa”, rimane una grande
discrepanza tra i discorsi dell’UE e le sue azioni, e la “Comunicazione”
è insufficiente per adempiere agli obblighi legali dell’UE per varie
ragioni. In primo luogo, non tutti i prodotti provenienti dalle colonie
israeliane devono essere etichettati. Solo la frutta fresca e le
verdure, il pollame, l’olio d’oliva, il miele, l’olio, le uova, il vino,
i cosmetici e i prodotti organici sono soggetti all’indicazione
obbligatoria dell’origine. Cibi pre-confezionati e prodotti industriali
che non siano cosmetici sono soggetti solo all’indicazione volontaria
dell’origine.


In più le imprese israeliane che operano nelle colonie possono
facilmente aggirare l’etichettatura dei loro prodotti. Ad esempio,
possono mettere insieme beni prodotti nelle colonie con altri prodotti
in Israele per evitare che siano etichettati come “prodotti nelle
colonie”. Possono utilizzare l’indirizzo di un ufficio all’interno dei
confini di Israele internazionalmente riconosciuti come l’indirizzo
ufficiale dell’impresa piuttosto che l’effettivo luogo di produzione.
L’UE dovrebbe anche rilevare il fatto che le imprese che etichettano i
propri prodotti come provenienti dalle colonie possono ricevere delle
compensazioni dal governo israeliano per le eventuali perdite. Si stima
che il bilancio dello Stato abbia destinato circa 2 milioni di dollari
[1,8 milioni di euro. Ndtr.] ogni anno negli ultimi 10 anni per
compensare le imprese israeliane delle colonie per le perdite cui devono
far fronte a causa della fine del trattamento doganale di favore e di
altre agevolazioni.


Nel contempo le stesse linee guida per l’etichettatura sono un’arma
spuntata, in quanto “l’applicazione delle attuali disposizioni ricade
sotto la responsabilità principale degli Stati membri”, come stabilisce
la “Comunicazione Interpretativa” dell’UE. Cosa ancora più importante,
limitandosi ad etichettare i prodotti provenienti dalle colonie e
mantenendo al contempo relazioni commerciali e investimenti con queste
ultime, l’UE sta in realtà continuando a finanziare l’espansione degli
insediamenti ed a perpetuare l’occupazione israeliana, lo sfruttamento
delle risorse naturali e l’appropriazione delle terre palestinesi –  una
situazione illegale che l’UE sostiene di non “riconoscere”.


Inoltre, in chiara opposizione con quanto sostiene, l’UE intraprende
progetti con imprese israeliane che sono profondamente coinvolte nelle
colonie e nell’occupazione. Per esempio, l’UE ha approvato 205 progetti
con la partecipazione israeliana a “Horizon 2020″, il più vasto
programma di ricerca e innovazione dell’UE. Le imprese israeliane che vi
partecipano comprendono Elbit, che è direttamente coinvolta nella
costruzione degli insediamenti e del Muro; le Israel Aerospace
Industries [industrie aerospaziali israeliane], che forniscono i
macchinari necessari per la costruzione del Muro; l’università Technion,
che lavora con il complesso militare israeliano. Banche europee sono
anche legate a banche israeliane che forniscono mutui ipotecari ai
coloni, finanziano le autorità israeliane nelle colonie e nella
costruzione di insediamenti che godono del sostegno da parte dello Stato
e altre attività economiche che promuovono la colonizzazione.


Pertanto la “Comunicazione Interpretativa” dell’UE sembra essere
principalmente un atto simbolico, attraverso il quale [l’UE] risponde
solo formalmente alla crescente richiesta della società civile europea,
sempre più favorevole al movimento per il Boicottaggio, il
Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) guidato dai palestinesi,  che vuole
che essa rispetti i propri regolamenti e che Israele sia chiamato a
rendere conto delle proprie azioni. In base alle leggi internazionali
gli Stati terzi sono obbligati a non riconoscere come lecita una
situazione illegale, a non fornire alcun tipo di assistenza per
mantenere una situazione illegale e a collaborare per garantire che
Israele rispetti le leggi umanitarie internazionali. In altre parole,
l’UE e i suoi Stati membri dovrebbero fare quanto possibile per porre
fine alla colonizzazione da parte di Israele.



Come l’UE potrebbe rispettare meglio la legge


L’UE dovrebbe iniziare a trasformare le sue parole in misure concrete
per rendere Israele responsabile, istituendo un blocco totale su ogni
attività economica, finanziaria, commerciale e di investimenti diretta o
indiretta con le colonie israeliane, seguendo le orme di Copenhagen,
Reykjavik e recentemente Amsterdam. Come raccomandato poco tempo fa in
un rapporto del Consiglio Europeo delle Relazioni Estere [centro studi
paneuropeo, i cui membri sono ex-ministri degli esteri, imprenditori,
intellettuali ed attivisti, il cui scopo è promuovere il dibattito e
favorire una politica estera efficace fondata sui valori europei.
Ndtr.], dovrebbe anche sospendere le relazioni finanziarie con le banche
israeliane, soprattutto quelle che finanziano l’occupazione e la
costruzione delle colonie. In più, da parte loro gli Stati membri
dell’UE dovrebbero cessare ogni relazione con le colonie israeliane.


Va qui osservato che l’UE è il principale partner commerciale di
Israele, con scambi totali attorno ai 30 miliardi di euro nel 2014, che
rappresentano circa il 33% del totale delle esportazioni israeliane di
beni e servizi nel 20147.
Il commercio dell’UE con le colonie israeliane rappresenta meno dell’1%
del commercio dell’UE con Israele. Una iniziativa seria da parte
dell’UE avrebbe un impatto consistente sulla colonizzazione israeliana e
sulla prolungata occupazione militare.


Oltre a passare dall’etichettatura dei prodotti delle colonie a porre
fine ad ogni relazione con gli insediamenti israeliani, i Paesi europei
dovrebbero prendere in considerazione un embargo di tutti i prodotti
israeliani. Fin da quando l’UE ha riconosciuto che il controllo di
Israele sui TPO è una situazione di occupazione – un’occupazione
militare che dura da circa 50 anni – avrebbe dovuto affrontare le cause
profonde dell’occupazione, cioè la politica del governo israeliano,
piuttosto che solo il suo effetto, ossia le colonie.


Per esempio, nel caso dell’apartheid in Sud Africa, un boicottaggio
concentrato solo sugli affari che riguardavano le township non avrebbe
avuto un grande effetto sul sistema di apartheid. Allo stesso modo,
boicottare solo i prodotti degli insediamenti israeliani avrebbe un
impatto molto minore che boicottare il sistema concreto che sta
organizzando la colonizzazione dei territori per fare pressione su
Israele perché ponga fine all’occupazione. Per questo è importante
vietare ogni prodotto israeliano e non solo quelli delle colonie. Un
simile passo prenderebbe di mira, tra le altre cose, l’inganno
israeliano riguardo all’origine dei prodotti e delle materie prime che
provengono dagli insediamenti. E’ difficile controllare, a meno che
siano realmente boicottate le imprese e non solo i loro beni e servizi.
In effetti molte delle imprese che lavorano nelle colonie provengono da
Israele piuttosto che dai territori del 1967.


Gli appelli per un boicottaggio totale stanno aumentando e trovando
adesioni in luoghi imprevisti. Per esempio, due docenti universitari
statunitensi hanno recentemente sostenuto in un editoriale sul ”
Washington Post” che boicottare solo i prodotti delle colonie “non
avrebbe un impatto sufficiente”. Hanno invece proposto “un ritiro
dell’aiuto e del supporto diplomatico USA e il boicottaggio e il
disinvestimento dall’economia israeliana” per modificare i piani
strategici di Israele.


Per la Palestina, un simile divieto aiuterebbe a proteggere i
prodotti palestinesi, aumenterebbe la loro competitività e aiuterebbe in
futuro a rafforzare la capacità dell’economia palestinese di integrarsi
con quella internazionale, una volta che la libertà sia garantita. Il
boicottaggio di tutti i prodotti ed i servizi israeliani sarebbe un modo
efficace per dare la possibilità ai palestinesi di sconfiggere il
colonialismo israeliano. Ciò sarebbe molto più efficace che fornire
assistenza per lo sviluppo a settori specifici e risponderebbe
direttamente alla richiesta del popolo palestinese di libertà e diritti
umani.

Note:

  1. Le autrici ringraziano l’ufficio Palestina/Giordania
    della fondazione Heinrich-Böll per la cooperazione e la collaborazione
    con Al-Shabaka in Palestina. Le opinioni espresse in questo articolo
    sono responsabilità delle autrici e non riflettono necessariamente
    l’opinione della fondazione Heinrich-Böll.
  2. Gli avamposti delle colonie sono costruiti senza l’autorizzazione
    ufficiale del governo israeliano. Tuttavia ricevono supporto finanziario
    da ministeri, agenzie governative, fondazioni locali ed internazionali e
    da privati (soprattutto dagli USA). Spesso Israele dopo un certo lasso
    di tempo li “legalizza”.
  3. In base agli accordi di Oslo, la Cisgiordania è stata divisa
    provvisoriamente in Area A, che dovrebbe essere sotto il controllo
    dell’Autorità Nazionale Palestinese ma è sottoposta a frequenti
    incursioni militari israeliane, Area B, sotto controllo condiviso di
    israeliani e palestinesi, ed Area C, sotto controllo esclusivo di
    Israele. Questo periodo provvisorio è scaduto nel maggio 1999.
  4. Per maggiori informazioni vedi “Trading Away Peace:
    How Europe helps sustain illegal Israeli settlements.” [“Vendere la
    pace: come l’Europa aiuta a sostenere le illegali colonie israeliane “]
  5. I costi diretti sono i costi supplementari sostenuti dai palestinesi
    in conseguenza delle restrizioni imposte dagli israeliani all’accesso
    ed al movimento, compresi i maggiori costi dell’acqua e
    dell’elettricità. I costi indiretti sono le perdite di entrate
    provenienti dalla produzione che i palestinesi avrebbero potuto fare se
    non ci fossero state queste limitazioni da parte israeliana. Un esempio
    di costi indiretti è rappresentato dal valore aggiunto dell’estrazione
    delle risorse del Mar Morto.
  6. In base all’inchiesta sulla forza lavoro realizzata nel novembre
    2015 dal PCBS [Palestinian Central Bureau of Statistics, istituzione
    ufficiale del governo palestinese. Ndtr.], nel periodo luglio-settembre
    2015 il numero di lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane in
    Cisgiordania era di 22.100, su un totale di 674.900 lavoratori in
    Cisgiordania.
  7. Da confrontare con il commercio dell’UE con i TPO, che nel 2014 è stato di circa 154 milioni di euro.

Tratto da: http://www.infopal.it/come-le-colonie-israeliane-soffocano-leconomia-palestinese/.

(Traduzione di Amedeo Rossi)

© Agenzia stampa Infopal

E” permessa la riproduzione previa citazione della fonte “Agenzia stampa Infopal – www.infopal.it” 

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