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di Maurizio Blondet.
L’espansione della NATO ad Est, nei territori dell’Ex Patto di Varsavia, è giustificata dal rinnovato pericolo russo? Il vero motivo è scritto nero su bianco in un articolo del New York Times. Traduco:
“I fabbricanti occidentali di armamenti hanno fatto pressioni durissime per l’espansione della NATO ai paesi ex-satelliti dopo il collasso del comunismo. E da allora hanno premuto e influenzato sia i vecchi stati-membri NATO sia i nuovi perché non si sviassero fuori dall’Alleanza per acquisti di armi che avrebbero intaccato il loro giro d’affari”.
Naturalmente il New York Times essendo il megafono dell’Establishment, non sta deplorando la cosa. Anzi, la frase è all’interno di un articolo che si scaglia contro la Turchia di Erdogan per l’acquisto dei S-400 dalla Russia. Un acquisto che “è uno schiaffo alla cooperazione entro l’alleanza NATO” e, per la prima volta dal dopoguerra, intacca il business del complesso militare-industriale statunitense.
La NATO alla “conquista di nuovi mercati”.
Viene così confermata la conclusione del generale pakistano Asad Durrani, uno dei capi dei servizi del suo paese, che noi abbiamo riferito giorni fa: che le guerre americane dell’ultimo trentennio sono dettate non da valutazioni politico-strategiche di Stato, bensì dagli interessi che diremmo commerciali della gigantesca industria dell’armamento americana, dalla sua necessità di “espandere il business”, facendole durare all’infinito, e conquistare “nuove quote di mercato”.
Invito a considerare l’apertura di “nuovi mercati” al business delle armi la NATO come uno dei motori occulti e concreti della espansione atlantica ad Est, in spregio delle promesse che la Casa Bianca fece a Gorbaciov quando sciolse il Patto di Varsavia. Si possono solo immaginare i grassi lucri spuntati dalle industrie anglo-americane a spese di quegli Stati, obbligati dagli esperti militari NATO a standardizzare, omogeneizzare, rendere “inter-operabili”, i sistemi d’arma, munizionamenti, e di fatto di gettare via quelli del vecchio Patto di Varsavia e comprare quelli americani e inglesi (da soli valgono due terzi dell’industria). E si tratta, per usare il gergo americano degli affari, di mercati “captive”, ossia letteralmente “prigionieri”, dipendenti dal fornitore in esclusiva.
Attenzione: non si tratta qui di denunciare (vecchio discorso pacifista) l’indebita influenza del complesso militare industriale sul governo. Si tratta ormai di molto di più: di fusione e integrazione totale di tali industrie e delle loro logiche col e nel governo, di identificazione della loro essenza nella nazione stessa.
Il complesso militare-industriale è l’ultima rete di industrie americane al 100 per cento, che producono cioè all’interno (mentre le imprese produttrici di beni di consumo delocalizzano) impiegando centinaia di migliaia di dipendenti qualificati con stipendi sicuri (mentre negli altri settori è di regola la precarietà e il calo salariale): la sola Lockheed-Martin occupa 126mila lavoratori, la Boeing 160mila, Raytheon 66mila, Nortrop Grumman 65mila, General Dynamics 100mila… se poi si conta l’indotto, le immani aziende di appaltatori militari a contratto del Pentagono, nonché i “contractors”, i mercenari ex militari, si constaterà che l’apparato bellicista è la più solida istituzione anche sociale di un paese economicamente tutt’altro che prospero, per milioni di lavoratori ed elettori – per i quali il patriottismo si identifica col lavoro in una delle prestigiose imprese.
Sono imprese private, sì, ma che hanno un grande unico Cliente e consumatore: lo Stato, più precisamente il Pentagono, più il corteggio degli Stati europei NATO, mercati captive, che possono essere considerati una pura estensione – filiali – del Pentagono. E’ il Pentagono che sceglie modelli di nuove armi, che ne finanzia la ricerca e lo sviluppo, e li impone ai satelliti che piaccia loro o no (pensate solo allo F-35).
Dunque abbiamo il caso di industrie private che non sono veramente “sul mercato”, ma poppano alla mammella del denaro pubblico dalla spesa incontrollata. Un conflitto d’interessi possibile. Che viene scongiurato felicemente: i più alti dirigenti, generali e ammiragli, appena vanno in pensione, vengono assunti con stipendi enormemente maggiorati da Lockheed, Northrop, Boeing – e si mettono subito a telefonare ai colleghi ancora in servizio, di cui sono stati superiori, per proporre nuovi progetti, contratti, servizi: per esempio, appalti per la formazione di truppe straniere, come quelle dell’Afghanistan e Iraq, di cui il generale Durrani ha spiegato: “Queste compagnie private forniscono spesso alle reclute una cattiva formazione allo scopo di prolungare i loro contratti”.
In pratica, agli attori di questo sistema è impossibile distinguere l’interesse aziendale da quello pubblico e politico, “il mercato” dalla ”patria” e dalla sua difesa.
Queste porte girevoli pubblico-privato sono uno scandalo occidentale molto diffuso e ampiamente tollerato, anzi lodato ed esaltato: si veda il caso di banchieri centrali che sono stati dirigenti di Goldman Sachs, portano la mentalità, i criteri e gli interessi del “privato” nella gestione pubblica, ed ha fatto sì che “gli stati hanno perso il controllo dello strumento monetario e quindi della politica economica, avendo il solo potere di ratificare quel che è stato deciso dai mercati”, ciò che un economista mainstream come Riccardo Petrella non esita a definire “un sistema finanziario criminale che risponde solo all’ottimizzazione degli interessi finanziari per gli investitori”.
Parallelamente a questa privatizzazione falsa e malsana (perché non è “mercato”, ma parassitismo pubblico) nel settore bancario, nel settore militare le grandi imprese industriali (“private”) hanno di fatto preso possesso del Pentagono – il loro cliente principale, se non unico – e lo guidano secondo i loro criteri e la loro idea di “produzione” e “consumo”. Di più, pagando i politici che poi mettono a controllare la spesa pubblica (vedi McCain, capo della Commissione Difesa da decenni), si sono assicurati di trasformare il Pentagono in una immane bolla o vescica, strapiena di centinaia di miliardi di denaro pubblico che distribuisce alle aziende, con sprechi e malversazioni e “sparizioni” contabili di trilioni di dollari, totalmente impunite.
Il Pentagono come mille ATAC
Se posso osare un paragone prosaico, direi che il Pentagono è una ATAC romana – ovviamente moltiplicata per mille. Se l’ATAC fornisce un pessimo servizio di trasporto, la “produzione” del Pentagono consiste nel produrre cattive guerre non vincibili; ossia sempre “nuovi mercati” per le industrie dell’armamento, private ma “patriottiche”, onde non solo non falliscano ma aumentino il giro d’affari.
La subordinazione degli strateghi alle esigenze aziendali ebbe già un precedente plateale durante la Guerra del Vietnam. La Bell Aircraft Corporation stava fallendo prima del conflitto, ma venne salvata dalle massicce commesse governative e da un cambio di tattica militare. I generali, su pressione delle corporations militari, introdussero il trasporto delle truppe di attacco tramite elicotteri, con successivo sbarco a ridosso delle linee nemiche. Fu una decisione catastrofica, perché ai soldati nordvietnamiti bastava attendere nascosti il momento dell’atterraggio per colpire i soldati americani mentre scendevano”, mi ha ricordato un lettore competente, “Learco”.
Ma oggi si è superato anche questo, con l’occupazione del Cliente da parte dei fornitori. Questa ultima, maligna, “privatizzazione” della guerra fu teorizzata da Donald Rumsfeld – lui stesso uomo del business militare, dirigente della General Instruments Corporations, gran venditore di armi all’allora amico Saddam Hussein nella sua guerra contro l’Iran – che la applicò appena salito al potere a fianco di Dick Cheney (ex Halliburton, altro fornitore) sotto Bush jr.
Il mega attentato dell’11 Settembre deve essere letto come il colpo di Stato decisivo con la presa di potere degli interessi bellici privati sulla superpotenza. Rumsfeld annunciò “la lunga guerra globale” al “terrorismo mondiale, detta subito ‘long war’”; dichiarò che sarebbe stata facile e poco costosa, perché avrebbe usato non i mezzi dello Stato ma i privati; per esempio, meno soldati e più contractors (mercenari): “Costano di più, ma li usi solo finché ne hai bisogno”, e il subappalto di tutti i servizi ausiliari ai privati, “snelli ed economici” perché “competitivi”. Chiamò la sua privatizzazione “Revolution in Military Affairs”.
Il risultato è quello che vediamo: non la riduzione, ma l’aumento delle spese militari sbalorditivo e titanico; il Pentagono è diventato un mostruoso tumore che succhia la sostanza vivente di una società in deperimento grave, con un’economia civile invasa di merci estere, dove i lavoratori sono impoveriti e precari, le paghe calano e i debiti aumentano, dove il 60 per cento dei civili è sotto oppiacei e i militari si suicidano in percentuali aberranti. Guerre motivate da pretesti e false flag, in cui l’America si impantana, che non riesce a vincere contro avversari che non sono nemmeno Stati, come “il terrorismo islamico”, come l’ISIS, che lo stesso Pentagono arma e addestra.
Tutto ciò fa bene al business, anche se male all’americano medio e al mondo. La produzione e il consumo del Pentagono sotto gestione “privata” vanno a gonfie vele. Producono centinaia di migliaia di morti in Siria, Iraq e Yemen, milioni di sfollati, profughi e rifugiati; città in macerie, miserie infinite: ma siccome devastano popoli lontani e “poco civili” di cui l’americano medio non sa nemmeno dove siano, li si può considerare “sfridi” accettabili.
Naturalmente, la privatizzazione della guerra ha fatto subito a meno di ogni resto di etica militare, s’è liberato dal minimo onore militare, insieme ad ogni capacità di valutazione strategica vera e propria: non occorre Clausewitz quando il successo che avete è giudicato dai mercati azionari, e il Nemico di turno è un innocuo nano militare, che subisce soltanto l’aggressione americana, del tutto incapace di portare la guerra sul suolo statunitense.
Attenzione però: come tutte le imprese private che traggono i loro lucri dalla poppa pubblica, anche il complesso militare-industriale non è veramente fiorente; qualunque allentamento della tensione mondiale la pone davanti allo spettro del fallimenti, del downsizing (ristrutturazioni, riduzioni del personale) o anche solo del crollo in borsa delle azioni. Un pericolo così estremo e terminale che ha indotto queste industrie all’ultimo, fatale passo, che è sotto gli occhi di tutti: appena l’elettorato americano stanco di guerre ha eletto un candidato che prometteva di allentare le tensioni internazionali ed occuparsi del lavoro e dell’economia civile, il Deep State l’ha messo sotto tutela. E non a caso, sotto tutela di tre generali: McMaster, Mattis, Kelly. Ed hanno creato di sana pianta un Nemico nella Russia di Putin.
E’ un segno evidente che il sistema disperato, non può permettersi “ristrutturazioni” per iniziativa politica. Come racconta il generale Durrani, quando “Obama nel 2011 decise di ritirare le truppe dall’Iraq” il complesso militare-industriale cadde nel panico. E “ha ritrovato la sua euforia solo quando la comparsa di Daesh ha obbligato a ridispiegare le truppe. Che sollievo! Avevano scongiurato il ritiro della NATO dall’Afghanistan!”.
Ora, i nostri lettori dovrebbero aver appreso che “qualcuno” ha creato, addestrato ed armato Daesh; che la sua improvvisa comparsa non ha nulla di spontaneo. Anche questo è un elemento per creare un nuovo mercato.
Pentagono continua a dare armi ai ribelli siriani.
Recentemente abbiamo appreso, da un rapporto dello Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP), che “dall’inizio della guerra in Siria, il Pentagono direttamente, e la CIA attraverso l’Arabia Saudita, hanno inondato di armi i “ribelli” anti-Assad, tagliagole e jihadisti, per tener vivo il conflitto. Il Pentagono da solo, e solo dal 2015, ha speso 2,2 miliardi di dollari in armi munizioni “di stile sovietico” – si noti – che ha comprato dalle manifatture dell’Est, Ucraina, Polonia, Romania, Bulgaria, Serbia, Croazia. 2200 milioni in kalashnikov, rpg, mortai, munizioni.
Come mai questo? Non solo perché sarebbe stato imbarazzante vedere i terroristi islamici che gli Usa dicono di combattere, con in mano la carabina d’ordinanza delle forze armate USA, il M4 fabbricato dalla Colt. Il motivo più vero è un altro: creare un “mercato” per quelle industrie dell’ex Patto di Varsavia che saranno penalizzate dall’espansione della NATO nei loro paesi; cointeressarle al cambiamento; aiutarle a svuotare i loro magazzini di invenduto, a eliminare le giacenze.
E’ chiaro che per vendere le nuove armi di standard NATO a quei governi, si è dovuto prima aiutarli a sbarazzarsi delle vecchie.
Una mano lava l’altra, in questo genere di affari. Sappiamo che la compagnia aerea di stato dell’Azerbaigian, Silk Way Airlines, ha spedito tonnellate di queste armi est europee in Siria, Iraq, Afghanistan, sui propri aerei civili, e sotto illegale copertura diplomatica per evitare controlli doganali. Lo sappiamo grazie alla intrepida giornalista bulgara Dilyana Gaytandzhieva, che ha pubblicato i relativi documenti. La quale per questa indagine è stata licenziata. Il che spiega perché la Goracci e la Botteri non fanno mai inchieste simili.
Scherziamo? Con l’espansione della NATO ad Est, si stanno facendo fortune: espressione, fare fortuna, che in americano suona “Make a Killing”. Che significa anche, letteralmente, “fare una strage”. Mai espressione è stata meglio adatta al business.
(Per il rapporto dello Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP), qui: https://www.occrp.org/en/makingakilling/making-a-killing/)