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La guerra dei venticinque anni

'Nelle prime ore del 17 gennaio 1991, iniziava nel Golfo Persico l’operazione ''Tempesta del deserto'', guerra all’Iraq che aprì la fase storica che stiamo vivendo. [M.Dinucci]'

La guerra dei venticinque anni
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16 Gennaio 2016 - 22.06


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Oggi abbiamo gli strumenti per comprendere in pieno come nella prima Guerra del Golfo fosse in gioco non il Kuwait ma la leadership del mondo post-bipolare.

di Manlio Dinucci.

Venticinque anni fa, nelle prime ore del 17
gennaio 1991, inizia nel Golfo Persico l’operazione «Tempesta del deserto», la
guerra contro l’Iraq che apre la fase storica che stiamo vivendo. Questa guerra
viene lanciata nel momento in cui, dopo il crollo del Muro di Berlino, stanno
per dissolversi il Patto di Varsavia e la stessa Unione Sovietica. Ciò crea,
nella regione europea e centro-asiatica, una situazione geopolitica interamente
nuova. E, su scala mondiale, scompare la superpotenza in grado di fronteggiare
quella statunitense.

«Il presidente Bush coglie questo
cambiamento storico», racconta Colin Powell. Washington traccia subito «una
nuova strategia della sicurezza nazionale e una strategia militare per
sostenerla». L’attacco iracheno al Kuwait, ordinato da Saddam Hussein nell’agosto
1990, «fa sì che gli Stati uniti possano mettere in pratica la nuova strategia
esattamente nel momento in cui cominciano a pubblicizzarla».

Il Saddam Hussein, che diventa «nemico
numero uno», è lo stesso che gli Stati uniti hanno sostenuto negli anni Ottanta
nella guerra contro l’Iran di Khomeini, allora «nemico numero uno» per gli
interessi Usa in Medioriente. Ma quando nel 1988 termina la guerra con l’Iran,
gli Usa temono che l’Iraq, grazie anche all’assistenza sovietica, acquisti un
ruolo dominante nella regione. Ricorrono quindi alla tradizionale politica del «divide et impera». Sotto regia di
Washington, cambia anche l’atteggiamento del Kuwait: esso esige l’immediato
rimborso del debito contratto dall’Iraq e, sfruttando il giacimento di Rumaila
che si estende sotto ambedue i territori, porta la propria produzione
petrolifera oltre la quota stabilita dall’Opec. Danneggia così l’Iraq, uscito
dalla guerra con un debito estero di oltre 70 miliardi di dollari, 40 dei quali
dovuti a Kuwait e Arabia Saudita. A questo punto Saddam Hussein pensa di uscire
dall’impasse «riannettendosi» il territorio kuwaitiano che, in base ai confini
tracciati nel 1922 dal proconsole britannico Sir Percy Cox, sbarra l’accesso
dell’Iraq al Golfo.

Washington lascia credere a Baghdad di
voler restare fuori dal contenzioso. Il 25 luglio 1990, mentre i satelliti del
Pentagono mostrano che l’invasione è ormai imminente, l’ambasciatrice Usa a
Baghdad, April Glaspie, assicura Saddam Hussein che gli Stati uniti desiderano
avere le migliori relazioni con l’Iraq e non intendono interferire nei
conflitti inter-arabi. Saddam Hussein cade nella trappola: una settimana dopo,
il 1° agosto 1990, le forze irachene invadono il Kuwait.

A questo punto Washington, formata una
coalizione internazionale, invia nel Golfo una forza di 750 mila uomini, di cui
il 70 per cento statunitensi, agli ordini del generale Schwarzkopf. Per 43
giorni, l’aviazione Usa e alleata effettua, con 2800 aerei, oltre 110 mila
sortite, sganciando 250 mila bombe, tra cui quelle a grappolo che rilasciano
oltre 10 milioni di submunizioni. Partecipano ai bombardamenti, insieme a
quelle statunitensi, forze aeree e navali britanniche, francesi, italiane,
greche, spagnole, portoghesi, belghe, olandesi, danesi, norvegesi e canadesi.

Il 23 febbraio le truppe della coalizione,
comprendenti oltre mezzo milione di soldati, lanciano l’offensiva terrestre.
Essa termina il 28 febbraio con un «cessate-il-fuoco temporaneo» proclamato dal
presidente Bush. Alla guerra segue l’embargo, che provoca nella popolazione
irachena più vittime della guerra: oltre un milione, tra cui circa la metà
bambini.

Subito dopo la guerra del Golfo, Washington
lancia ad avversari e alleati un inequivocabile messaggio: «Gli Stati uniti
rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza in ogni
dimensione – politica, economica e militare – realmente globali. Non esiste
alcun sostituto alla leadership americana» (Strategia della sicurezza nazionale
degli Stati Uniti, agosto 1991).

La guerra del Golfo è la prima guerra a cui
partecipa sotto comando Usa la Repubblica italiana, violando l’articolo 11
della Costituzione. La Nato, pur non partecipando ufficialmente in quanto tale
alla guerra, mette a disposizione sue forze e strutture per le operazioni
militari. Pochi mesi dopo, nel novembre 1991, il Consiglio Atlantico vara,
sulla scia della nuova strategia Usa, il «nuovo concetto strategico dell’Alleanza».
Nello stesso anno in Italia viene varato il «nuovo modello di difesa» che, stravolgendo
la Costituzione, indica quale missione delle forze armate «la tutela degli
interessi nazionali ovunque sia necessario».

Nasce così con la guerra del Golfo la
strategia che guida le successive guerre sotto comando Usa, presentate come
«operazioni umanitarie di peacekeeping»: Jugoslavia 1999, Afghanistan 2001,
Iraq 2003, Libia 2011, Siria dal 2013, accompagnate nello stesso quadro
strategico dalle guerre di Israele contro il Libano e Gaza, della Turchia
contro i curdi del Pkk, dell’Arabia Saudita contro lo Yemen, dalla formazione
dell’Isis e altri gruppi terroristi funzionali alla strategia Usa/Nato,
dall’uso di forze neonaziste per il colpo di stato in Ucraina funzionale alla
nuova guerra fredda contro la Russia.

Profetiche,
ma in senso tragico, le parole del presidente Bush nell’agosto 1991: «La crisi
del Golfo passerà alla storia come il crogiolo del nuovo ordine mondiale».

Fonti:

il
manifesto
, 16 gennaio 2016.

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