'L''umanità e la dittatura del PIL' | Megachip
Top

'L''umanità e la dittatura del PIL'

Coltivare l’umanità per liberarsi dalla dittatura del Prodotto Interno Lordo. La proposta di Martha Nussbaum.
[Moreno Montanari]

'L''umanità e la dittatura del PIL'
Preroll

Redazione Modifica articolo

18 Dicembre 2013 - 23.57


ATF

di Moreno Montanari.

Da anni Martha Nussbaum si occupa di
giustizia sociale con proposte filosofiche di grande interesse che,
pur caratterizzate da una personale rielaborazione e da un originale
contributo proprio, tesaurizzano il pensiero socratico, quello
aristotelico e quello stoico, in vista di una proposta politica e
culturale – aspetti, come vedremo, per lei inscindibili – che si
riveli capace di determinare un cambio di paradigma epistemologico in
grado d’incidere profondamente sulla nostra maniera di vivere
favorendo l’armonizzazione di quella che i gli antichi greci
chiamavano l’individuale piena fioritura dell’umanità
(eudaimonia) con la vita collettiva e democratica dei diversi
paesi del mondo.

Perché questa proposta possa
davvero incidere sul tessuto sociale dei diversi Stati del mondo
occorre innanzitutto decostruire quella che non esitiamo a definire
l’ideologia dominante dei nostri tempi: la concezione
economicistica dell’esistenza.

Naturalmente l’economia,
chiariamolo subito, costituisce un aspetto fondamentale della nostra
vita senza il quale la complessità del nostro tempo non potrebbe
essere in alcun modo compresa; ma essa non può costituire l’unico
paradigma di pensiero vigente, non può cioè essere estesa ed
applicata alla totalità delle attività umane senza snaturarle,
costringendole in formule e chiavi di lettura assolutamente
restrittive e inadeguate a renderne la ricchezza.

L’esempio che Nussbaum predilige e
sul quale torna in molti suoi libri è il PIL quale indicatore della
qualità della vita di uno Stato e dei suoi cittadini. Anche in
questo caso, è del tutto evidente che il tasso di ricchezza di uno
Stato e degli individui che vi vivono costituisca un aspetto
importante della loro qualità della vita – perché, come diceva
Aristotele, “la ricchezza non fa la felicità ma l’indigenza può
contribuire all’infelicità” – tuttavia esso non può essere
considerato l’unico indicatore del loro benessere, come invece,
tutt’oggi, propongono la maggioranza degli Stati.

Eppure, già nel 1968, proprio nel
cuore del paese che l’aveva coniato ed esportato in tutto il mondo,
il senatore e candidato alla presidenza degli Stati Uniti Robert
Kennedy, sosteneva che il PIL misurava “tutto eccetto ciò che
rende le nostra vita degna di essere vissuta”.

E questo per diverse ragioni: il PIL
non considera infatti la reale distribuzione della ricchezza per cui,
ad esempio, ci dà un’idea corretta della potenza economica della
Cina ma non racconta della sperequazione che c’è tra la qualità
della vita dei nuovi ricchi e quella degli operai affamati da salari
e da condizioni di lavoro che in altri tempi, senza remore, avremmo
definito schiaviste
(http://www.repubblica.it/2005/e/sezioni/economia/nostrolusso/nostrolusso/nostrolusso.html).

Più in generale questo sistema di
rilevamento del benessere economico di un paese risulta del tutto
inadeguato oggi che, un po’ ovunque, un’esigua minoranza della
popolazione detiene la stragrande maggioranza della ricchezza (in
Cina il 10% più ricco della popolazione possiede il 40% della
ricchezza nazionale, negli Stati Uniti la stessa percentuale detiene
ben il 70% della ricchezza; in Italia il 45% della ricchezza è in
mano al 10% delle famiglie mentre il 50% di altre famiglie deve
accontentarsi del solo 10% e l’11% della popolazione si trova in
condizioni di povertà).

Inoltre il PIL tiene conto solo
delle transazioni in denaro e trascura quelle gratuite, come quelle
familiari, quelle proprie del volontariato e, più in generale,
l’intera economia no-profit.

Non solo: il PIL tratta tutte le
transazioni come positive, anche quelle della malavita o le spese
dello Stato per porre rimedio alle catastrofi naturali; non distingue
dunque, come faceva notare già Kennedy, tra le attività che
contribuiscono al benessere di un paese e quelle che lo diminuiscono.

Un simile indicatore, non solo non
fotografa correttamente le reali condizioni di vita della popolazione
di uno Stato ma contribuisce piuttosto ad alimentare un’immagine
distorta. Legato alla sola produttività, sostiene un’idea di
progresso che non tiene mai conto dei costi ambientali ed ecologici
dei consumi (una società in cui ciascuno si reca da solo in auto al
lavoro è, per gli indicatori del PIL, una buona società dove i
consumi sono alti e la ricchezza evidentemente distribuita ma dal
punto di vista ecologico un simile comportamento intacca il benessere
dei cittadini).

Il PIL, in altre parole, risulta
incapace di indicare il reale benessere di un paese soprattutto
perché non s’interessa in alcun modo dei suoi aspetti politici e
sociali.

Per fare un esempio, in qualche modo
di attualità: negli anni Ottanta dello scorso secolo, quando la
maggior parte delle nazioni che oggi celebrano Nelson Mandela faceva
affari con i suoi persecutori in pieno regime di Apartheid, il PIL
del Sud’Africa era alto ma le risorse economiche erano in mano alla
sola minoranza etnica dei bianchi i quali, tra l’altro, erano gli
unici a godere dei diritti politici e violavano per legge i diritti
umani della popolazione di colore. Di tutto questo nei rilevamenti
del PIL non c’era traccia.

Un ragionamento simile potrebbe
essere fatto, naturalmente rispetto altri diritti umani negati, oggi
per la Cina che pure sta ai primi posti della classifica mondiale del
PIL o per l’Iran che si trova in una posizione migliore della
Svezia e della Norvegia (l’Iran si piazza infatti al ventunesimo
posto della classifica mondiale, immediatamente prima dei due paesi
scandinavi). Il PIL, insomma, non tiene conto di beni altrettanto
importanti rispetto alla ricchezza quali, ad esempio, il rispetto
sociale, l’inclusione politica e la non umiliazione di alcune
categorie di soggetti che possono anche non essere discriminati dal
punto di vista economico. In ogni tempo, infatti, sono esistiti
gruppi sociali che, pur ricoprendo una posizione economica più che
dignitosa, o quanto meno normale, erano socialmente esclusi: gli
ebrei nell’Europa moderna sino al secolo scorso, gli atei e i
cattolici nell’Inghilterra del XVIII secolo, i gay e le lesbiche
nell’america del XX secolo e ancora oggi in molti stati
mediorientali di stampo integralista e, in generale, seppure in forme
diversamente gravi, le donne, di tutto il mondo dato che, secondo il
rapporto dello sviluppo umano del programma delle Nazioni Unite
del 1999, non c’è nessun paese che tratti le donne bene quanto gli
uomini, che le metta cioè nella condizione di vivere opportunità di
vita analoghe a quelle degli uomini.

È di questo che dobbiamo occuparci
se vogliamo davvero provare a valutare il benessere di un paese: se
ci limitiamo a considerare la sola ricchezza dovuta alla produttività
trascuriamo altri aspetti non meno importanti per il benessere di uno
Stato e dei suoi cittadini: la speranza media di vita, la mortalità
infantile, la possibilità d’istruzione e d’impiego, le cure per
la salute, i diritti sul patrimonio, quelli politici e quelli umani,
la libertà di poter esercitare senza restrizioni il proprio credo o
di professare apertamente di non averne alcuno, la possibilità di
godere di politiche sociali capaci di creare condizioni di vita che
rendano liberi dalla costrizione e dal ricatto del bisogno, e così
via.

L’insufficienza e l’inadeguatezza
del PIL rispetto all’intento di certificare il benessere di uno
Stato e dei suoi abitanti è dunque talmente palese che c’è
davvero da chiedersi come sia stato possibile che questo criterio sia
stato così acriticamente accolto dall’opinione pubblica mondiale
come il migliore indicatore possibile della prosperità di un paese.
Ed proprio qui che i lavori della Nussbaum si fanno particolarmente
interessanti e preziosi: dal suo punto di vista se questa grossolana
stortura ha potuto imporsi senza difficoltà praticamente in tutto il
mondo, è perché il mondo ha progressivamente rinunciato a coltivare
la cultura umanistica sposando quella economicistica. Questo ha
comportato un impoverimento culturale, cognitivo, affettivo e
spirituale che possiamo paragonare ad un analfabetismo di ritorno
caratterizzato da mancanza di senso critico, assoluta incapacità di
mettersi empaticamente nei panni degli altri, cronica inabilità a
ragionare in forme diverse dal paradigma dominante e persino ad
immaginare possibili scenari di senso alternativi allo stato delle
cose. Ciò testimonia che la vera forza del capitalismo non è
l’economia, che fa acqua da tutte le parti, ma l’ideologia che lo
regge che è riuscita nell’impresa di farlo considerare non solo il
migliore ma, più radicalmente, l’unico sistema economico possibile
– e chi non si piega a questa “evidenza” è naturalmente
considerato un nostalgico comunista, nonostante né Martha Nussbaum
né Robert Kennedy, tanto per rifarci ai riferimenti di questo
articolo, fossero in alcun modo simpatizzanti del socialismo.

C’è in questa visione del mondo
una subdola seduzione: l’idea che il capitalismo sia un sistema
tecnico, quasi meccanicistico, nel quale le cose accadono per
inerzia, con effetti collaterali inevitabili, senza particolari
responsabilità né reali margini d’intervento per nessuno,
infatti, non deresponsabilizza soltanto coloro che creano e cavalcano
l’ingiustizia sociale ai soli fini del profitto ma assolve tutti
noi dalla decisiva accusa di complicità con un sistema che
impoverisce la maggior parte della terra e dei suoi abitanti per
poter arricchire una piccola élite e soddisfare un’ampia fascia di
acritici consumatori.

Il principale punto di forza di
questa ipocrita malafede, dalla quale ci siamo lasciati conquistare
un po’ tutti, è la più grande menzogna di tutti i tempi: l’idea
che tanto, anche se ci comportiamo egoisticamente, alla fine la
grande “mano invisibile” del libero mercato riequilibrerà tutto
nell’interesse generale.

Ma come ho scritto altrove, non
esiste alcuna mano invisibile che armonizzi da sé le disuguaglianze
che questo sistema produce; invisibili sono piuttosto più di 3
miliardi di persone (circa il 48% della popolazione mondiale) che
vivono in una condizione di così grave povertà, che ogni anno, tra
queste, più di 18 milioni muoiono prematuramente; la metà di essi,
in media 29.000 al giorno, sono bambini sotto i 5 anni.

Nel frattempo un miliardo di persone
prospera, usufruendo dell’80% dei consumi globali e le 225 persone
più ricche del mondo contano da sole una ricchezza pari a quella dei
2 miliardi e mezzo di persone più povere.

Possiamo, alla luce di questi dati,
considerare ancora il nostro attuale capitalismo come il migliore dei
sistemi attuabili? Com’è possibile che questi dati non ci
sconvolgano? che non li sentiamo come un’inaccettabile ingiustizia,
come un crimine contro l’umanità? Come qualcosa che ci riguarda
tutti e della quale farsi personalmente carico? Che cosa c’impedisce
di vedere la realtà di questi terribili fatti? Marx direbbe la
devota osservanza di quella che chiamò “la religione del
quotidiano”: un vero e proprio atto di fede dogmatica in una
visione del mondo, percepita come naturale stato delle cose, che
governa non solo l’economia ma, più radicalmente, le nostre vite a
partire dal nostro modo di pensare, di sentire, di aprirci al mondo.

Mentre Marx, com’è noto, riteneva
che l’unico vero cambiamento avrebbe potuto verificarsi solo con
una rivoluzione che mutasse radicalmente lo scenario economico che
informava quelle che definiva le sovrastrutture di una società –
quel sistema di credenze e valori che, ripetuti quotidianamente come
un mantra, stabilizzano e naturalizzano lo status quo – la
Nussbaum ritiene che un cambiamento in termini di maggiore giustizia
sociale e di diversa qualità della vita richieda piuttosto una
rivoluzione culturale che ruoti attorno ad un pensiero che si riveli
capace di “coltivare l’umanità”. Con questa formula la
filosofa statunitense intende, da una parte, rilanciare la centralità
della cultura umanistica e, dall’altra, promuovere un sistema di
giustizia sociale in cui gli stati si facciano carico di
salvaguardare e incrementare la capacità dei singoli individui di
sviluppare armonicamente le proprie capacità umane.

Le ragioni che la inducono a
considerare imprescindibile il rilancio della cultura umanistica sono
presto dette: essa, a suo parere, permette meglio di ogni altro
sapere di sviluppare la capacità di pensare altrimenti, di osservare
le cose da nuovi angoli prospettici, di ripensare criticamente i
propri principi e ed il proprio stile di vita, di esercitare a
chiedere e rendere ragione della fondatezza e della coerenza, logica
ed etica al tempo stesso, dei propri convincimenti, dei propri valori
e del proprio modo di ragionare.

Ma lungi dal limitarsi a fornire un
pur considerevole armamentario logico-cognitivo, la cultura
umanistica insegna anche a sviluppare qualità umane quali
l’attitudine a mettersi simpateticamente nei panni degli altri
immaginandone le attività di pensiero e di emozione, a riconoscere
che le relazioni umane non possono essere appiattite sul piano
dell’interesse egoistico e della reciproca strumentalizzazione
perché sono animate da valori, sentimenti, desideri, passioni che
fanno unire gli individui al mondo in una maniera ricca, complessa,
che rende la vita qualcosa di molto più bello e articolato che un
mero scambio d’interessi per il conseguimento dei propri progetti,
ma come qualcosa in gran parte retto anche dalla cura gratuita che le
persone si prendono di se stessi e delle persone che amano, e che non
di rado, grazie alla solidarietà e alla capacità di vedere gli
altri essere umani come simili e non come funzioni di un sistema o
strumenti della propria volontà di potenza. Da questo punto di
vista, come insegnarono soprattutto gli stoici, la cultura umanistica
promuove anche un senso di appartenenza alla comunità umana che può
favorire il superamento dei localismi e degli interessi di parte per
riconoscersi legati, oggi con la globalizzazione più che mai, ad un
destino comune.

Ne consegue che la cultura
umanistica deve tornare ad essere il perno di ogni politica
dell’educazione che voglia promuovere questi valori considerati,
tra l’altro, fondamentali tanto per una democrazia davvero
consapevole e matura, quanto per un’economia che voglia evolversi,
anche dal punto di vista produttivo.

Ma, come anticipavamo, coltivare
l’umanità per Martha Nussbaum, significa anche sostenere una
giustizia sociale incentrata sulla salvaguardia e la promozione della
capacità dei singoli individui di far fiorire la loro umanità in
accordo ai propri valori ed in armonia con la società in cui vivono.
Ciò che rende particolarmente interessante questa tesi è il fatto
che la filosofa statunitense non assegna questa finalità
all’iniziativa personale dei singoli ma ne fa il cuore di una
politica di giustizia sociale nella quale spetta allo Stato
intervenire attivamente sia per rimuovere gli ostacoli sociali,
culturali e politici che impediscono alle persone di esercitare
appieno le proprie capacità d’essere, sia creando le condizioni
che ne permettano l’armonico sviluppo.

Se da una parte il pensiero
umanistico ricorda infatti all’uomo che la sua dignità sta nella
capacità di darsi forma da sé, di sviluppare dunque la sua potenza
d’essere senza accettare di adagiarsi su quelle ereditate dalla
tradizione o imposte dal senso comune, dall’altra gli ricorda, con
Aristotele, che l’uomo è “un animale politico”, il che
significa che per realizzare i propri bisogni, le proprie aspirazioni
e, in definitiva, se stesso, ha bisogno di una società che se ne
faccia garante perché, scrive Aristotele nella Politica,
“solo un dio o una bestia possono vivere da soli” – e secondo
me neanche loro. Questa prospettiva richiede di riconoscere che alla
base di ogni diritto, di ogni libertà e di ogni possibile sviluppo
del nostro modo di essere, c’è un intreccio di relazioni che deve
partire dal riconoscimento della condizione di bisogno e di
insufficienza di ogni essere umano, con i vincoli, le dipendenze, i
legami, i diritti ed i doveri collettivi dei quali ciascuna comunità
organizzata politicamente deve farsi carico. È da questa idea che
Nussbaum ricava la tesi di una politica che sappia “coltivare
l’umanità”, che sia, cioè , capace di promuovere e
salvaguardare la possibilità di ciascun cittadino di esercitare un
certo numero di abilità al di sotto delle quali l’esistenza non
potrebbe considerarsi dignitosa.

Nella prospettiva delle capacità,
per valutare la qualità della vita, non si chiede più quale sia il
livello di ricchezza e neppure come sia distribuita, ma cosa sono in
grado di fare le persone in una determinata società, se siano libere
di esprimere le loro capacità, se siano messe dallo Stato nella
condizione di accedere a determinati servizi che ne rendono possibile
lo sviluppo o l’attuazione, se siano insomma messe in condizione di
vivere al di sopra di una soglia minima di opportunità di
espressione della propria libertà di scelta, specie rispetto al
proprio stile di vita godendo di quello che potremmo chiamare il loro
diritto a sviluppare una biografia personale e non indifferenziata.

La teoria delle capacità ci
ricorda, insomma, che non vi è benessere non solo quando non c’è
da mangiare o non c’è la possibilità o la libertà di lavorare –
condizioni che comunque uno Stato sano deve evitare – ma anche quando
non è possibile associarsi per difendere i propri interessi, o
quando la propria incolumità fisica è seriamente messa a
repentaglio dall’autorità di figure che esercitano una certa
potestà su altre; quando è negata l’istruzione e la capacità di
esercitare la propria ragione ed il pensiero è gravemente
compromessa; quando non si concedono uno spazio ed un tempo di gioco
per i bambini e per lo svolgimento di attività ricreative delle
persone; quando le libertà sessuali non sono estese a tutti i gruppi
sociali; quando l’accesso all’informazione è negato o fortemente
limitato; quando paure, ansie e tensioni sono tali da bloccare lo
sviluppo della propria personalità e intaccano lo sviluppo della
propria personalità; quando viene meno la possibilità di
programmare la propria esistenza. In tutti questi casi, scrive
Nussbaum, si resta al di sotto di una soglia minima di capacità
delle quali lo Stato deve farsi carico.

Naturalmente ciascun paese potrà
lavorare allo sviluppo di simili abilità individuali non solo sulla
base delle proprie risorse ma anche in accordo con i propri valori
culturali, tuttavia nessuno Stato potrà vantarsi di garantire una
soglia minima di qualità della vita se lascia sistematicamente che
alcuni individui o gruppi di persone siano estromessi dal godimento
dei diritti umani o dalla possibilità di sviluppare alcune
irrinunciabili capacità d’essere.

Potremmo chiederci che cos’abbia
di nuovo questo approccio rispetto ad una politica sociale incentrata
sulla salvaguardia dei diritti umani e politici.

Nussbaum ricorda l’amara
osservazione di Martin Luter King che, pur battendosi per i diritti
umani, ricordava che essi, dichiarati in pompa magna dalla
costituzione del 1946 ed immediatamente salutati con favore dalla
maggioranza degli stati che si dichiarano democratici, risultano
avere lo stesso valore di un assegno con una grossa cifra ma con una
copertura insufficiente, che, alla resa dei conti, le banche si
rifiutano di cambiare.

Le cose non sembrano essere molto
diverse oggi, vale a dire che il valore reale di questi diritti è
spesso ben al di sotto di quanto le dichiarazioni delle diverse
costituzioni faccia credere e la capacità d’intervenire sugli
stati che li violano è estremamente ridotta. Una politica sociale
che si fondi sul rispetto dei diritti umani, corre insomma il rischio
di essere tanto nobile quanto inconcludente ed astratta. Impostare la
questione secondo la prospettiva delle capacità significa invece
valutare concretamente che cosa le singole persone sono
effettivamente messe in grado di fare e di essere in un determinato
Stato, rispetto ad una soglia minima – e non utopistica – sotto la
quale la loro esistenza non può considerarsi dignitosa e l’esercizio
di uno Stato giusto.

L’approccio della Nussbaum alla
valutazione della qualità della vita non si chiede se le persone
sono soddisfatte, perché simili risposte possono essere indotte o
quanto meno condizionate, né si appiattisce sul reddito e sulla
possibilità di controllare specifiche risorse, ma si chiede “che
cosa è realmente in grado di fare e di essere una persona in questa
specifica società?”, “di quali opportunità e libertà può
effettivamente godere?”, “è messa nella condizione di vivere in
maniera pienamente umana?”. Naturalmente non basta che simili
capacità si diano in potenza, limitandosi, nel gergo di Nussbaum, ad
essere cioè “libertà interne” (alla persona).

La teoria
delle capacità sa che le condizioni sociali, politiche, economiche e
familiari degli individui possono impedir loro di vivere in accordo
con le proprie capacità interne, in una maniera, per intenderci,
simile alla carcerazione. In queste circostanze la dignità formale e
le capacità interne delle persone rimangono, tuttavia, nella realtà
quotidiana, sono inibite o sospese. In questo caso, ciò che viene a
mancare è l’insieme di quelle che Nussbaum chiama le “abilità
combinate”, la cui concreta realizzazione richiede il concorso
dell’azione politica, sociale e culturale di uno Stato
.
Senza queste capacità combinate le capacità interne posso esistere
formalmente ma non vedersi mai realizzate in atto, come una società
nella quale s’istruissero i giovani creando anche le condizioni per
imparare a formulare criticamente opinioni politiche, ma si negasse
loro la possibilità di votare liberamente, laddove ad esempio ci
fosse un partito unico o un voto plebiscitario, o le votazioni
fossero truccate o tutt’altro che segrete.

Forse state pensando che lo Stato non può farsi
carico di favorire, o quanto meno, di non ostacolare lo sviluppo o
l’esercizio delle capacità umane delle quali abbiamo parlato, ma
di fatto in parte già lo fa con quelle che da un po’ di tempo a
questa parte si è soliti chiamare politiche del welfare. Ne sono un
esempio la salute e la scuola pubblica, le leggi che impediscono la
discriminazione sessuale ed etnica, le leggi per le pari opportunità,
per i diversamente abili, le borse di studio per chi non ha un
reddito che gli permetterebbe di studiare, gli ammortizzatori
sociali, ecc ecc, tutte disposizioni che rendono possibile tradurre
in atto capacità altrimenti solo potenziali o, come preferisce dire
Nussbaum interne, e realizzare una giustizia sociale.

Estendere il compito dello Stato anche ad altre
capacità fondamentali, quelle che in pratica abbiamo elencato, e che
ora risintetizzeremo, non sarebbe dunque un’iniziativa inedita ma
porterebbe a compimento gli intenti delle politiche sociali di uno
Stato. I singoli cittadini potrebbero dimostrare in che modo e a
causa di chi o di cosa le loro capacità d’essere sono di fatto
impedite e rivalersi a partire da un’idea di soglia minima di
capacità che lo Stato deve garantire.

Tale soglia prevede: la
capacità di avere un’aspettativa di vita conforme alla media per
durata, dunque mediamente una buona salute, e a possibilità di cure
che la mantengano tale; la capacità di vivere senza essere
minacciati nella propria incolumità fisica; la capacità di poter
esercitare i sensi, l’immaginazione, il pensiero, il ragionamento e
i sentimenti, in forma veramente umana, cioè in modo in maniera
consapevole, informata e supportata da un’istruzione e da
un’informazione adeguata, e quella di potersi formare autonomamente
un’idea di bene e male ed impegnarsi in una progettazione della
propria vita che ne tenga conto; la capacità di potersi impegnare,
se lo si vuole, in forme di socializzazione e di partecipazione
politica, con le relative tutele e gli specifici diritti; la capacità
di godere di un tempo “libero” in cui potersi dedicare ad
attività ludiche o ricreative; la capacità di poter esprimere, con
le necessarie tutele e in senso ampiamente declinato la propria
libertà di pensiero opinione, di proprietà, di realizzazione della
propria vita sociale. Tutte capacità che lo Stato deve tutelare e
favorire con politiche che mettano i cittadini che lo vogliano nella
condizione di poter coltivare l’umanità.

Breve bibliografia di riferimento:

M. Anspach, A buon rendere. La
reciprocità nella vendetta, nel dono e nel mercato
, Bollati
Boringhieri, Torino, 2007.

Aristotele, Etica nicomachea,
Laterza, Roma-Bari, 1996;

Aristotele, Politica,
Laterza, Roma-Bari, 1992;

M. Nussbaum, Coltivare l”umanità.
I classici, il multiculturalismo, l”educazione contemporanea
,
Carrocci, Roma 2006.

M. Nussbaum, Giustizia sociale e
dignità umana. Da individui a persone
, Bologna, Il Mulino, 2002.

M. Nussbaum, Non per profitto.
Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica
,
Bologna, Il Mulino, 2011.

M. Nussbaum, Creare capacità.
Liberarsi dalla dittatura del Pil
, Bologna, Il Mulino, 2012.

R. Màdera, L”alchimia ribelle,
Palomar, Bari, 1997.

R. Màdera, La carta del senso,
Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012.

K.
Marx,
Per la critica dell”economia politica, Roma,
Editori Riuniti, 1993.

M.
Montanari,
Vivere la filosofia,
Mursia, Milano, 2013.

Moreno
Montanari è analista biografico ad orientamento filosofico,
consulente filosofico, formatore e saggista. Tra le sue pubblicazioni
“Il Tao di Nietzsche”, Mimesis, 2004; “La filosofia come cura”,
Mursia, 2012; “Vivere la filosofia”, Mursia, 2013.

[GotoHome_Torna alla Home Page]

Native

Articoli correlati