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'Brancaccio: ''Serve un piano B, la sinistra impari dall'errore di Tsipras'''

'Bisogna mettere da parte la retorica europeista e globalista e predisporre una visione alternativa, un ''nuovo internazionalismo del lavoro''.'

'Brancaccio: ''Serve un piano B, la sinistra impari dall'errore di Tsipras'''
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17 Luglio 2015 - 10.00


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Per
l’economista la debacle greca insegna che bisogna mettere da parte
la retorica europeista e globalista e predisporre una visione
alternativa, un “nuovo internazionalismo del lavoro”. E sulla
Grexit replica al premier ellenico che ha denunciato il mancato aiuto
di Stati Uniti, Russia e Cina: “Se vero, significa che i grandi
attori del mondo hanno scelto di non interferire più di tanto negli
affari europei, lasceranno che l’Unione monetaria imploda per le
sue contraddizioni interne”.

intervista
Emiliano
Brancaccio
 di 
Giacomo
Russo Spena.

«È
inutile negarlo, il governo e il parlamento greco hanno capitolato,
gli apologeti dell’austerity hanno vinto anche stavolta. È
l’ennesima prova che nella zona euro, purtroppo, le cose vanno come
avevamo previsto». I renziani metterebbero anche lui nel girone dei
‘gufi’ ma l’economista Emiliano Brancaccio preferisce
un’espressione più raffinata: «In questi anni, nostro malgrado,
in tanti abbiamo indossato i panni delle Cassandre che allertano sui
guai che verranno ma restano inascoltati». I media in questi giorni
hanno ricordato le lettere pubblicate sul 
Sole
24 Ore
 nel
2010 e sul 
Financial
Times
 nel
2013 con cui Brancaccio e altri colleghi segnalavano come le ricette
di austerità, flessibilità del lavoro e schiacciamento dei salari
avrebbero provocato disastri, aggravando la posizione dei Paesi
debitori e rendendo sempre meno sostenibile l’assetto
dell’eurozona. 

Professore,
alla vigilia delle ultime elezioni europee Lei rifiutò una
candidatura a capolista dell’Altra Europa con Tsipras. Adesso che
il leader ellenico ha accettato l’ultimatum dei creditori, in molti
– scendendo repentinamente dal carro del vincitore – sono tornati
sulla sua scelta di allora, ritenendola lungimirante. È veramente
così?

È
un modo malizioso di interpretare quella mia decisione. All’epoca
rifiutai la candidatura per ragioni professionali, non politiche. È
vero tuttavia che fin dall’inizio dell’ascesa di Tsipras ho
criticato l’idea che una vittoria della sinistra in Grecia potesse
imprimere una reale svolta agli indirizzi di politica economica
dell’Unione. Tsipras ha contribuito ad alimentare questa speranza,
e oggi ne paga le conseguenze. Ma dovremmo anche riconoscere che lo
stesso sogno velleitario permea da anni larghissima parte della
sinistra europea: prendersela solo con il premier greco sarebbe poco
onesto. Il suo tracollo dovrebbe piuttosto avviare una riflessione
collettiva sull’assenza, in tutta la sinistra, di una visione
sufficientemente realistica degli attuali rapporti di forza tra i
Paesi membri dell’Unione e dei conflitti intercapitalistici che
esprimono. 

C’è
qualcosa che Lei imputa specificamente alla condotta di Tsipras degli
ultimi giorni?

Credo
sia stato sorpreso dalla dimensione della vittoria del “no” al
referendum. Nonostante le banche chiuse e il bombardamento mediatico
a favore del “sì”, con estrema lucidità la netta maggioranza
dei cittadini greci ha respinto l’accordo capestro proposto dai
creditori, lasciando al governo il compito di gestire tutte le
possibili conseguenze. Ripeto: tutte. Quando Tsipras ha affermato che
nemmeno l’esito referendario lo autorizzava a contemplare l’ipotesi
di uscita della Grecia dall’euro, francamente mi è parso un
giudizio fuori luogo. La verità è che il popolo greco era ormai
pronto a tutto. Il governo no.

L’ex
ministro delle Finanze Varoufakis, ora l’anti Tsipras all’interno
di Syriza, ha dichiarato che a suo avviso bisognava “minacciare la
Grexit” nella trattativa con le Istituzioni. Contemporaneamente
però ha affermato che un vero “piano B” di uscita non era stato
approntato e che sarebbe stato complicato anche organizzare la stampa
e la diffusione delle nuove banconote. Che ne pensa?

Stimo
Varoufakis come studioso, ma questa idea che un’uscita dall’euro
possa esser bloccata da problemi pratici, come la stampa delle
banconote, è priva di aderenza ai fatti. Decenni di pratica della
politica monetaria indicano che questi aspetti strettamente operativi
sono del tutto secondari. Posto che ci si organizzi per assumere un
sufficiente controllo della macchina amministrativa e soprattutto
della banca centrale, si possono affrontare in un tempo relativamente
breve.

Però
Lei stesso ha più volte affermato che per la Grecia l’abbandono
della moneta unica avrebbe presentato importanti difficoltà.

Certo,
ma mi riferivo ai nodi chiave del problema, che sono di ordine
macroeconomico. Con altri colleghi abbiamo cercato di spiegare che
nella situazione gravissima in cui versa l’economia greca un’uscita
dall’euro e una svalutazione, accompagnate presumibilmente da un
minimo di politica espansiva, avrebbero comportato, per un periodo
non breve, un aumento del valore delle importazioni e quindi
dell’indebitamento verso l’estero. La Grecia, dunque, avrebbe
avuto bisogno di un sostegno finanziario esterno di due o tre anni
per gestire la transizione dalla vecchia alla nuova moneta. L’altro
giorno, in un’intervista rilasciata alla tv pubblica greca, Tsipras
ha dichiarato di aver incontrato i rappresentanti di Stati Uniti,
Russia e Cina, e che nessuno di essi ha garantito un aiuto se la
Grecia fosse tornata alla dracma. Se il premier greco ha detto il
vero, questo sarebbe uno dei punti cruciali dell’intera vicenda.
Significherebbe che i grandi attori del mondo hanno scelto di non
interferire più di tanto negli affari europei: lasceranno che
l’Unione monetaria imploda per le sue contraddizioni interne.

Ma
perché l’Unione dovrebbe implodere? Dopotutto i greci sono stati
rimessi in riga. Non è una riprova delle capacità di tenuta
politica dell’eurozona?

La
tenuta politica del progetto europeo è minata dall’insostenibilità
economica dei debiti. Anche il FMI ormai riconosce che il debito di
Atene è insostenibile. Ma il problema non si limita alla Grecia.
Basti notare che in tutti i paesi debitori i tassi d’interesse
eccedono sistematicamente i tassi di crescita del Pil: per il 2015 la
differenza attesa è di oltre un punto in Spagna, di due punti in
Portogallo, di quasi tre punti in Italia e di oltre tre punti in
Grecia. Questo significa che il rapporto tra debito e Pil è
destinato a crescere in tutto il Sud Europa. E’ il risultato di una
politica della Bce che non riduce abbastanza i tassi d’interesse, e
di una politica di bilancio che resta ancorata alla dottrina
dell’austerity e continua pertanto a deprimere la crescita della
produzione. Di questo passo le contraddizioni tra creditori e
debitori sono destinate a crescere ulteriormente, fino a
esplodere.

Proprio
il FMI insiste con la necessità di tagliare il debito della Grecia e
l’Italia e la Francia gli si accodano. La Germania e gli altri
creditori però si oppongono. È realistica la prospettiva di una
rinegoziazione del debito greco?

Finché
i Paesi del Sud Europa restano nell’euro, ai creditori non conviene
avviare una rinegoziazione. Le cose cambiano però se un paese decide
di uscire. Prendiamo ad esempio la bozza dell’Eurogruppo che
riportava la proposta di Schauble di favorire un’uscita della
Grecia dall’euro. Il ministro tedesco ha voluto inserire nel
documento un passo in apparenza sorprendente, in cui si affermava che
se i greci fossero tornati alla dracma sarebbe stato possibile
avviare una rinegoziazione del debito. Cioè proprio la
rinegoziazione che la Germania vuole negare ai paesi che restano
nell’euro.

Come
si spiega questa apertura?

Schauble
e i creditori temono che, una volta abbandonata l’eurozona, un
Paese possa decidere di denominare nella nuova moneta svalutata anche
i debiti, incurante della legislazione sotto cui siano stati emessi.
La lunga storia dei default sovrani ci dice che questa eventualità è
più probabile di quanto alcuni analisti che oggi vanno per la
maggiore siano capaci di riconoscere. Agitando la carota della
rinegoziazione Schauble vorrebbe convincere i paesi che
abbandonassero l’Unione a mantenere i debiti in euro. Ma non è
detto che ci riesca. Con quella postilla Schauble ha rivelato uno dei
punti deboli dei creditori: il rischio di trovarsi con debiti
fortemente svalutati se l’eurozona salta per aria.

Lei
ha più volte evocato il pericolo che un eventuale tracollo del
progetto europeo trovi le sinistre impreparate e dia la stura a una
nuova stagione politica di ultradestra. La parabola di Tsipras
rischia di creare un grande disorientamento nella sinistra europea,
da Podemos in Spagna, allo Sinn Fein in Irlanda fino alla nascente
“coalizione sociale” in Italia. Quale insegnamento politico si
può trarre dalle vicende della sinistra greca?

Che
se davvero si vuol governare in questi tempi durissimi bisogna metter
da parte la retorica europeista e globalista e occorre predisporre
almeno un “piano B”. Servirebbe una nuova visione, io lo chiamo
“nuovo internazionalismo del lavoro”, che favorisca i rapporti
economici tra paesi che rispettino determinati standard sociali e
introduca invece qualche limite agli scambi con quei paesi che pur di
accumulare surplus verso l’estero insistono con una perniciosa
politica deflazionista, fatta di schiacciamento dei salari e
depressione della domanda interna. Si tratta di un lavoro complesso,
non so dire se ci siano le condizioni oggettive per avviarlo. Credo
tuttavia che sarebbe uno dei tasselli necessari per arginare l’onda
montante di una nuova miscela di destra, fatta di liberismo e
xenofobia, che mieterà sempre più consensi con l’inasprirsi delle
contraddizioni interne all’Unione. 



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