Non è in fondo esagerato dire che una parte certamente non irrilevante della filosofia europea dalla seconda metà dell’Ottocento e poi ancora nel corso di tutto il Novecento è profondamente segnata dalla filosofia di Hegel. Non nel senso banale che tutta la filosofia dopo Hegel sia hegeliana, ma nel senso che la filosofia, dopo Hegel, è una filosofia che non può non prendere posizione nei confronti del suo pensiero e che perciò si caratterizza o come reazione contro di esso, o come riscoperta o riabilitazione di alcune sue strutture di fondo.
Tradizionalmente questo movimento quasi elastico di allontanamento e avvicinamento nei confronti dell’autore della Fenomenologia dello spirito era rimasto però perlopiù confinato dentro le aree culturali di lingua tedesca, italiana e francese. Certo, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo ci furono anche un neohegelismo inglese (si pensi a Bradley e McTaggart) e un neohegelismo americano (si pensi a Royce), ma soprattutto oltreoceano non si può certo dire che il neohegelismo abbia prodotto una influenza decisiva all’interno della tradizione filosofica.
La filosofia americana, caratterizzata soprattutto dall’intreccio di pragmatismo e filosofia analitica, incarna infatti un’attitudine speculativa che pare, per molti aspetti, del tutto estranea alle questioni e ai problemi che innervano invece la filosofia di Hegel.
Da alcuni anni, però, è in corso, proprio all’interno di quella tradizione, quello che viene chiamato un ritorno a Hegel, e cioè una vera e propria rinascita di interesse nei confronti della filosofia hegeliana.
E ciò è tanto più degno di attenzione quanto più si è consapevoli di ciò che Hegel ha rappresentato e spesso ancora rappresenta all’interno dell’accademia americana, ovvero la fumosità e pretenziosità di una cultura spiritualistica e antirealistica (di una “irrealtà spettrale†diceva William James), una filosofia teologistica e tendenzialmente antiscientifica, la sofisticheria linguistica che si fa beffe della logica, la pretesa di incanalare il mondo e la storia dentro un percorso predeterminato e prefissato.
I protagonisti di questa rinascita di interesse che ha fatto piazza pulita dell’immagine banale e stereotipata sopra richiamata sono da una parte alcuni filosofi come Robert Pippin o Terry Pinkard, che si sono impegnati in una nuova interpretazione del pensiero di Hegel cercando appunto di liberarlo dalle consuete letture metafisiche, dall’altra filosofi come John McDowell e Robert Brandom, i quali sono meno interessati a una ricostruzione razionale della filosofia hegeliana e piuttosto utilizzano invece la filosofia hegeliana, alcune sue mosse e alcuni suoi atteggiamenti di fondo, per affrontare questioni teoriche che attraversano il dibattito filosofico contemporaneo e che hanno a che fare, soprattutto, con il rapporto fra pensiero e realtà e fra ragione ed esperienza.
Di questa interessante e significativa impresa intellettuale portata avanti da questi filosofi tutti più o meno legati a una delle personalità più straordinarie e complesse della tradizione filosofica americana, e cioè Wilfrid Sellars, sono ora disponibili alcuni importanti testi anche in lingua italiana.
Einaudi ha mandato infatti in libreria da poche settimane un libro di Terry Pinkard intitolato La filosofia tedesca (1760-1860). L’eredità dell’idealismo (trad. it. di M. Farina), nel quale l’autore, prendendo le mosse dalla filosofia di Kant e mostrando come questi detronizzando la metafisica avesse messo al centro un concetto decisivo per la comprensione della modernità come quello di auto-determinazione, ripercorre il dibattito che attraversa la Germania di quegli anni e che trova certamente in Fichte, in Schelling e in Hegel, ma anche indubbiamente in autori come Jacobi, Solger, von Humboldt, Schlegel una straordinaria e feconda articolazione.
L’idea di Pinkard è che i problemi e le domande che hanno caratterizzato quella stagione della cultura filosofica tedesca siano i problemi e le domande che caratterizzano, di fatto, la filosofia contemporanea, la quale, dunque, nel rapportarsi al cosiddetto idealismo tedesco non fa semplicemente un esercizio storico-ricostruttivo, quanto piuttosto, viene da dire, una sorta di esercizio anamnestico, che può avere anche una funzione terapeutica o chiarificatrice rispetto alle questioni e alle domande intorno a cui essa ancora oggi si trova a lavorare.
In particolare, secondo Pinkard, la cultura filosofica tedesca di quegli anni si caratterizza come una forma di auto comprensione critica della modernità e costituisce dunque un laboratorio filosofico nel quale vengono forgiati i concetti che strutturano l’esperienza della modernità dentro una dinamica che è dunque sempre, insieme, logico-razionale e storico-istituzionale.
Se questo testo di Pinkard ricostruisce alcune delle linee portanti di quella discussione all’interno di un’ottica orientata comunque fin dall’inizio da questioni e linguaggi che hanno la loro radice nella filosofia americana contemporanea, il suo testo più famoso, anch’esso recentemente tradotto in italiano (La Fenomenologia di Hegel. La socialità della ragione, trad. it. di A Sartori, Mimesis) può essere inteso per certi versi quasi come un manifesto programmatico dello Hegel americano.
Il testo non è, come potrebbe sembrare dal titolo, un commentario, bensì, come dice lo stesso Pinkard, “un’analisi hegeliana del testo di Hegelâ€. Analisi che trova il suo fuoco nella nozione decisiva di socialità della ragione, ovvero nell’idea secondo cui le strutture della ragione non sono né un portato meramente soggettivo, né qualcosa di dato una volta per sempre, bensì, come scrive Italo Testa nella Prefazione all’edizione italiana, “sono il prodotto delle pratiche di riconoscimento reciproco tra punti di vista sul mondo che si mostrano in conflitto tra loro all’interno di certe comunità e il cui dissidio non è conciliabile sino a che non sia stato costruito socialmente un punto di vista condivisoâ€.
Di questa stagione della filosofia americana, di questo movimento che da punti di vista a volte convergenti ma più spesso anche molto divergenti si è focalizzato attorno a una rinnovata attenzione rispetto alla filosofia di Hegel, rende conto ora un ottimo lavoro di Luca Corti edito da Carocci: Ritratti hegeliani. Un capitolo della filosofia americana contemporanea.
Corti compie qui un’analisi di dettaglio dell’hegelismo di Sellars (che per quanto praticamente non citi Hegel è indispensabile, soprattutto per la lettura che egli fornisce di Kant, per capire questo filone interpretativo), di McDowell, di Brandom, di Pippin e appunto di Pinkard.
Secondo Corti “pur con i limiti e le forzature che le caratterizzano†tali letture “rappresentano un solido tentativo filosofico di mettere in contatto il pensiero hegeliano con problematiche attuali, portando la filosofia di Hegel a esprimere alcuni suoi lati originali e inaspettatiâ€. Il tratto unificante di queste letture a volte anche molto divergenti tra loro, ma tutte straordinariamente stimolanti anche per la differenza di approccio che esse testimoniano rispetto alla tradizione iperstorigrafica europea, è la convinzione che la ragione sia una pratica sociale, una pratica dunque non riducibile alla spiegazione naturalistica propria delle scienze e che trova una straordinaria concretizzazione nella nozione hegeliana di spirito.
Nel chiedersi però il perché di questa attenzione nei confronti di una filosofia come quella di Hegel, viene da pensare che si guardi ad essa al di là dei suoi contenuti determinati anche perché rappresenta un certo modello di pensiero e un certo stile filosofico. In un’epoca come questa, che appare non di rado caratterizzata da una sorta di rigida divisione del lavoro filosofico per cui a un impegno teorico-concettuale spesso pensato fuori da qualsiasi dimensione di approfondimento storico o storico-concettuale (si sta pensando, evidentemente, a ciò che non senza un alto tasso di generalizzazione si tende a chiamare la filosofia analitica), si affianca un lavoro storico-filosofico che non di rado pretende una qualche forma di neutralità non volendo trovarsi immischiato in questioni teoriche o di natura puramente concettuale, una figura come quella di Hegel può apparire, a un tempo, come una provocazione e come un farmaco.
Il riferimento a una filosofia come quella di Hegel può infatti per molti versi decostruire il discorso filosofico contemporaneo, costringendolo a ripensare i propri spesso rigidi e artificiali disciplinamenti, portandolo fuori da una certa aria di scolastica che in questi anni più che in altri sembra farla per molti versi da padrona.
Far proprio un modello di filosofia come quello proposto da Hegel significa infatti muoversi criticamente tanto nei confronti di una filosofia che si pretende per così dire immune dalle strutture concrete e tortuose del tempo storico, quanto da una filosofia storiograficistica che si pensa come esercizio storico retto da un ideale ricostruttivo avulso da impegni teorici. La filosofia, per Hegel, è invece questa lotta perenne della ragione di liberarsi dai condizionamenti del tempo dentro però la consapevolezza che il tempo (e dunque la storia, le comunità , i luoghi, le istituzioni) è l’unico terreno nel quale il pensiero trova la sua concretezza e il suo sviluppo.
Una dinamica, questa, che è mostrata in modo magistrale nel libro di Remo Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, recentemente edito per i tipi del Mulino. Il libro, che costituisce nel suo articolarsi una interpretazione della definizione hegeliana secondo cui la filosofia sarebbe sempre il proprio tempo appreso sotto forma di pensiero, è in realtà , almeno in parte, una riedizione. Nel 1975 infatti uscì, sempre per il Mulino, Sistema ed epoca in Hegel; un lavoro che fu, per molti versi, un evento epocale per la cultura filosofica di quegli anni. Con quel libro, infatti, Bodei mostrava l’assoluta inconsistenza di una immagine stantia, schematica, non di rado caricaturale e macchiettistica che era dominante all’interno del dibattito culturale del tempo e che non di rado fa ancora la sua comparsa anche dentro ambienti solitamente scientificamente raffinati: l’immagine, cioè, che vedeva nel sistema hegeliano il tentativo tra il folle e il patetico di mettere le braghe al mondo, di costringere la realtà dentro schemi intellettuali astratti, di voler far dire alla storia ciò che la filosofia di Hegel voleva che la storia dicesse.
Era lo Hegel (di cui ci sono ancora non poche tracce in molta manualistica scolastica) ridotto al giochino di tesi, antitesi e sintesi, all’ossessione triadica, in cui il sistema veniva letto come il tentativo del tutto artificiale di tenere insieme ciò che non può stare insieme: la logica e la politica, le scienze naturali e la tragedia greca, la religione cristiana e la divisione in classi, l’arte romantica e i sillogismi razionali.
Bodei mostra in questo libro, che oggi viene fortunatamente riedito in una forma decisamente ampliata e rivista, in che senso, invece, quella filosofia fosse il tentativo forse più radicale che la modernità avesse compiuto di pensare se stessa, di portare allo scoperto le strutture concettuali profonde attraverso cui essa si era andata costruendo, ovvero anche i limiti radicali che la costituiscono e gli elementi irrinunciabili che essa ha conquistato, primo fra tutti l’idea che il pensiero non può dipendere da nessuna autorità costituita che non sia il pensiero stesso, l’idea che la ragione è se stessa solo in quanto è critica radicale di qualsiasi principio che pretenda di valere al di fuori della sua giustificazione razionale.
E questo Bodei lo mostra non contrapponendo uno Hegel giovanile rivoluzionario, dinamico, riluttante rispetto a tutte le forme di intellettualismo, come spesso si usava sulla scorta di Lukács, di Dilthey o delle interpretazioni ‘esistenzialistiche’ francesi, a uno Hegel maturo, invece, reazionario, conservatore, sistematico e dunque attento più a collocare concetti, fatti e cose dentro l’architettura rigida del sistema che a dare voce alla realtà , ai suoi movimenti, alle sue increspature e alle sue tensioni. Bodei mostra come proprio il sistema costituisca il tentativo titanico e strepitoso di andare alle radici concettuali del tempo, della storia, di quel lavoro imprescindibile per il pensiero che è compiuto dalle diverse scienze e come dunque il sistema, letto come sistema aperto, sia uno spazio di articolazione concettuale che è anche sempre la critica radicale nei confronti di qualsiasi principio o sapere determinato che pretende di valere come un assoluto.
L’idea che la filosofia sia il proprio tempo appreso come pensiero, non è, secondo Bodei, né l’attestazione secondo cui la filosofia dovrebbe a registrare l’esistente o al massimo a incasellarlo dentro gelide classificazioni, né un’adesione a una forma di relativismo culturale, dalla cui sabbie mobili si potrebbe uscire solo attraverso il riconoscimento di un assoluto sovrastorico. Dire che la filosofia è il proprio tempo appreso in pensieri è più che una definizione della filosofia, l’esplicitazione del suo compito, la descrizione stessa del lavoro filosofico, della necessità di cui la filosofia, secondo Hegel, è espressione, e cioè del bisogno di pensare radicalmente e spietatamente il proprio tempo, mostrando, nel pensiero e con il pensiero, in che senso nel tempo stesso emerga qualcosa che è sempre al di là di se stesso e in che senso il pensiero, portandolo alla luce, rinvii a qualcosa che il tempo stesso non vede e non coglie.
Ovvero, detto diversamente ancora, far propria l’idea hegeliana secondo cui la filosofia è il proprio tempo appreso in pensieri significa far propria un’idea secondo cui compito della filosofia è innanzitutto lo svelamento di quelle dinamiche e quelle strutture che pretendendosi eterne dominano il tempo. Significa cioè far propria una postura filosofica nella quale il pensiero, rivelando la condizionatezza e la parzialità di ciò che si pretende incondizionato e assoluto, si fa esercizio concreto e inesauribile di libertà .
(22 dicembre 2014)Una versione più breve di questo articolo è stata pubblicata su «Alias», inserto culturale de [i]il manifesto[/i], domenica 7 dicembre 2014.
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