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'Si parla ormai correntemente di deglobalizzazione. Bene! Finalmente ci siete arrivati! mi verrebbe da dire. Un''analisi dello splendido saggio di Fagan [Piero Pagliani]'

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25 Febbraio 2017 - 10.58


ATF

Molti di noi, mediamente, vivono immersi in un
mondo di inconsapevolezze arredato per metà con la caverna di Platone e per
l’altra dal migliore dei mondi possibili di Leibniz-Candide. Veniamo tenuti
apposta in questo mondo estetico ed etico mentre le nostre élite operano
costantemente nelle segrete, dove torturano la realtà coi più affilati
strumenti e le tecniche più sofisticate. Sia torturare la realtà, sia tenercelo
nascosto, viene fatto per il “nostro bene”, non reggeremmo allo shock e tutte
le nostre sicurezze ne risentirebbero.

         (Pierluigi Fagan)


di Piero Pagliani.


1. Il libro di Pierluigi Fagan Verso un mondo multipolare. Il gioco di tutti i giochi nell’era Trump (Fazi, 2017) parla di Stati e di nazioni. Concetti tabù per la
sinistra radicale, da non menzionare nemmeno. Dal canto loro, i cultori di
destra del Blut und Boden invano vi cercheranno un’esaltazione della
Patria e del Re e i seguaci dell’establishment culturale di sinistra avranno il
dispiacere di veder messi a nudo il cosmopolitismo progressista e la narrazione
della “fine degli stati-nazione”, che verranno chiamati col loro nome proprio:
imperialismo.

Sono
secoli che la sinistra (tutta, in vari gradi e sfumature) ci ricasca – o ci
ritenta. E viene sbugiardata.

Ai suoi tempi Marx
criticò l’internazionalismo dei proudhoniani francesi ritenendolo un sostegno
allo
sciovinismo francese: «Lafargue,
senza neppur rendersene conto, per negazione delle nazionalità intende, sembra,
il loro assorbimento da parte della nazione francese modello
».

Mettete “Stati Uniti” al posto di “Francia” e vedrete
quante cose quadrano.

Ci volle il realismo di Lenin per criticare
l’ostilità di due grandi rivoluzionari come Rosa Luxemburg e Karl Radek
all’idea di “autodeterminazione delle nazioni”.

Infine, con l’approfondirsi della crisi sistemica, la
sinistra politica e intellettuale – con pochissime eccezioni, che pur esistono grazie
al cielo – si è nuovamente comportata come l’inesperto di navigazione che
essendo scoppiata la tempesta ha cercato di rimanere vicino alla costa
conosciuta andando così a sbattere contro gli scogli, invece di prendere il
mare aperto anche senza una meta chiarissima.

Si percepisce dietro a queste difficoltà un errore
d’approccio che nasconde varie cose, a volte correlate tra loro a volte no, che
vanno dall’opportunismo al dogmatismo, passando attraverso un pregiudizio (ma a
volte un paravento) metodologico trasversale che chiamerò “concettualismo
accademico”.

Cercherò allora di mettere in evidenza il metodo
usato da Pierluigi Fagan e il suo vantaggio rispetto al concettualismo
accademico, specialmente di stampo marxista.

2. Si parla ormai correntemente
di deglobalizzazione. Bene! Finalmente ci siete arrivati! mi verrebbe da dire[1].
Se prima non ci si credeva, grazie ai postumi dell’ubriacatura globalizzatrice,
oggi la presidenza Trump ha dato la sveglia. Un caffè nero che provoca conati
di vomito e feroci mal di testa. Sempre così dopo una brutta sbornia.

E quindi occorre rifare i conti coi concetti di
“Stato” e di “nazione”. O, alternativamente, continuare a vivere nel mondo di
Papalla.

Giovanni Arrighi nel suo capolavoro “Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro
tempo
” (Il Saggiatore, 1996) asseriva che
occorre «dipanare
il nodo del rapporto fra lo sviluppo dell’Europa, centrato sul commercio
estero, e quella superiorità militare che ha consentito per almeno tre secoli
agli europei di appropriarsi dei crescenti benefici dell’integrazione
dell’economia su scala mondiale
».

Il punto sta proprio qui. Lo sviluppo
capitalistico occidentale nasce imperialista. Si è svolto cioè attraverso un
processo invertito che non è partito dallo sviluppo interno per poi espandersi all’esterno
con l’occupazione di spazi, ma è andato nella direzione inversa. La sua storia
è quindi una storia imperiale ab origine e, come ha osservato Samir
Amin, «non esiste nessuna teoria del capitalismo distinta dalla sua storia»

Invece
i marxisti moderni si baloccano molto coi concetti astratti. I loro libri e le
loro conferenze sono sostanzialmente luoghi e occasioni di divertimento. Poco
male, se poi non si guardasse con sufficienza e sospetto chi cerca di capire
nella realtà dove va il mondo e che cosa possiamo fare.

E
invece da sempre chi non la pensa in modo conformista o ortodosso è oggetto di
accuse gravi. Lo sapeva benissimo Gramsci, si magna licet, che canzonava
chi lo accusava di spiritualismo, bergsonismo e persino di “futurismo
marinettiano”. Ancora oggi, ci sono sconsiderati che pensano che Lenin fosse un
agente dell’imperialismo prussiano e persino che Marx fosse un agente del capitale
finanziario newyorkese[2]. Per quanto riguarda invece gli affari correnti,
fanno insistente capolino accuse di “filo-putinismo” o “filo-trumpismo”. Basta
non essere clintoniani e clintonoidi, basta chiedersi “Cosa sta succedendo?
Perché sta succedendo?”, senza accontentarsi delle spiegazioni mainstream, ed è
tutto un filare pro questo o pro quello. Al cittadino moderno vengono richiesti
sudditanza e continui atti di fede. Dubbi mai. Se recalcitrante, vengono
prospettati Ministeri della Verità e si incomincia a mettere in serio dubbio
che sulle cose “importanti” sia il caso di far votare il “popolo sovrano”. Un
neo servaggio. Propugnato dalla destra? No dalla sinistra. Quella sinistra che
poi sbraita contro il populismo.

Questo
stato di cose rende sempre più evidente che se un intellettuale non è “organico”
nel senso di Gramsci, ovvero disciplinato da un progetto politico che intende –
come si dice – “superare lo stato presente delle cose”, esso viene quasi
inevitabilmente catturato dal senso comune dell’avversario, da chi lo stato
presente delle cose se lo vuol cambiare lo vuole fare alla Gattopardo o
alla Vicerè. E viene sedotto dalla sicurezza e dal senso di appartenenza
che da questa cattura deriva[3].

Gli
intellettuali fedeli solo a se stessi – come voleva e sperava Costanzo Preve –
sono molto rari e destinati alla marginalità.

Le
idee dominanti sono in ogni epoca quelle che hanno i mezzi per essere
veicolate, propagandate ed essere protette culturalmente, politicamente e con
la forza.

3. Il metodo di analisi di Pierluigi Fagan è quello della teoria della
complessità. Questo approccio e quello di derivazione marxiana non sono
antitetici, come spesso si crede, ma si compendiano. Io il punto di convergenza
l’ho trovato nella nozione di “sistema dissipativo”.

Il
processo di accumulazione, in quanto privo di un fine sociale è anche privo di
un fine qualsiasi e quindi è letteralmente senza (un) fine. E’ autoperpetuante.
Questa caratteristica genera crisi in continuazione. Crisi di sovrapproduzione,
di sovraccumulazione, nell’andamento del saggio di profitto e altri fenomeni
analizzati da Marx.

Le
crisi, nel loro complesso e dal punto di vista dei sistemi dissipativi, si possono
descrivere come una produzione di entropia (frutto delle contraddizioni del
processo di accumulazione) che deve essere scaricata all’esterno.

Quindi
il rapporto interno-esterno è centrale nell’analisi delle concrete società
capitalistiche.

In
particolare, la nascita del termocapitalismo occidentale, cioè del capitalismo nato
in Occidente e poggiante massicciamente sull’utilizzo di fonti di energia, è
retroflessa, come già si è detto. In particolare il moderno capitalismo europeo
ha avuto origine dall’estroversione, trainata dal commercio estero, di
un centro (l’Inghilterra) verso lo spazio esterno, combinata con un processo di
retroversione dal commercio estero allo sviluppo industriale e agricolo
nazionale. Ma è l’intero processo che conduce al capitalismo occidentale che
nasce da una necessità di estroversione: di piccole entità. Una necessità
dovuta alla limitatezza delle loro risorse territoriali in relazione alla
capacità di accumulazione. Si pensi al percorso che va dalle città-stato
italiane e arriva, per l’appunto, a una piccola isola galleggiante nei freddi mari
del Nord chiamata “Inghilterra” che col solo 1,7% del PIL mondiale di allora
andò alla conquista o alla soggezione di Paesi che assieme contavano per il 60%
del PIL mondiale.

Io
affermo sempre che il capitalismo occidentale è nato con la battaglia di
Plassey, una città del Bengala, nel 1757. E l’ho sostenuto recentemente anche
in India, di fronte a militanti della sinistra radicale di quell’immenso Paese
(solitamente marxisti-leninisti, ma non solo), che mi guardavano sorpresi ma
interessati. Con la rapina del Bengala gli Inglesi ripianarono i debiti coi
banchieri olandesi e riuscirono a investire nelle invenzioni della prima
rivoluzione industriale. Il gioco iniziò così.

Ora,
la capacità di scaricare all’esterno l’entropia generata dal centro (la proiezione
di potenza e di capitali “esuberanti”, così come le delocalizzazioni per
contrastare la caduta del saggio di profitto, sono esempi di questo movimento)
implica che ci sia un esterno, che esso sia libero e che sia popolato da
persone disposte a ricevere questa “spazzatura termica” (ad esempio producendo
profitto per un centro altro). Già questo implica a sua volta che la dinamica
della crisi è direttamente condizionata dai rapporti tra Stati, ovvero dalla
configurazione dello spazio geopolitico. E questo spazio è uno spazio di
sistemi.

Come
ricorda Fagan, l’1,7% di PIL mondiale inglese era un sistema. Per questo
ebbe la meglio sul 60% combinato di Cina e India, che non facevano sistema o
per lo meno un sistema complesso e soprattutto fortemente dinamico come quello
inglese (come mise bene in rilievo Jawarharl Nehru in The discovery of India,
scritto mentre giaceva proprio nelle galere britanniche). E coi mezzi militari
di ausilio a questo dinamismo.

4. La lettura del libro di Pierluigi Fagan induce una prima
considerazione: non essere accademici permette di svincolarsi da quell’apparato
o camicia di forza concettuale che è il solo ad essere ritenuto legittimo e
riconosciuto dai pari. Fagan ha lavorato con le multinazionali, io ho lavorato
con le multinazionali. Nessuno di noi due è propriamente un intellettuale col
pedigree. Forse è per questo che lui, seguace della teoria della complessità e
io, seguace di Marx, ci intendiamo. Non siamo dei “professionisti del concetto”
e quindi non facciamo interminabili litigate sui concetti. Per dirla in termini
popolari: andiamo al sodo.

I
concetti, usati come strumenti, servono a dare un ordine alla realtà, di modo
che sia intelligibile e agibile progettualmente. Il metodo di Marx della
“risalita dall’astratto al concreto” fa proprio questo[4]. Occorre iniziare
l’analisi da un piccolo nucleo di concetti “cellulari”, “elementari”, ma alla
fine dell’analisi deve esserci la realtà, che è tale in quanto è “ricca di
determinazioni”, come sostiene Marx. E questo è un riconoscimento della
complessità del reale.

Ma
il pensiero accademico molto spesso si ferma al culto devoto del concetto in
sé. Questo è tipico degli intellettuali marxisti, affascinati dalla logica
espositiva di Marx, o meglio del primo libro del Capitale, o meglio ancora dei
primi tre capitoli del primo libro del Capitale. Ma questo culto del concetto è
fustigato dallo stesso Marx, che nelle Glosse a Wagner ha affermato con
un certo sarcasmo:
«Prima di tutto, io non parto da “concetti,
quindi neppure dal “concetto di valore”, e non devo perci
ò in alcun modo “dividere”
questo concetto. Ci
ò da cui
io parto
è la forma
sociale pi
ù semplice
in cui si presenta il prodotto del lavoro nell’attuale societ
à, il
prodotto in quanto “merce”
».

Non
è lecito giocare con concetti astratti:
«Alles das sind “Faseleien”», sono
tutte “stupidaggini”, dice sbrigativamente Marx del filosofare degli economisti
accademici tedeschi.

Questo
difetto, queste “stupidaggini”, hanno avuto come conseguenza quella di
disinnescare la carica rivoluzionaria del pensiero di Marx e di renderlo, per
l’appunto, gradevole e gradito in ambito accademico. Era proprio il difetto di
cui si era dovuto invece sbarazzare un marxista rivoluzionario come Lenin che
contrapponeva gli eleganti schemi teorici di Bucharin (pur sempre ritenuto da
Lenin come il miglior teorico del Partito) alla poco elegante natura della
realtà: “Da questa disparit
à, da questa costruzione
fatta con materiale difforme – per quanto spiacevole e poco armonico possa
parere – non usciremo per un ben lungo periodo
» [5].

La
sfera culturale marxista è invece periodicamente percorsa dalla parola d’ordine
del “ritorno a Marx”, proprio per recuperare i suoi puri “concetti”, mentre un
“ritorno a Lenin” – e si capisce perché – sarebbe visto con orrore. E’ un
fenomeno molto italiano ed europeo.

Nonostante
alcune fiammate soggettivistiche e volontaristiche, il marxismo che da noi ha
dominato a partire dal Sessantotto, una stagione che più o meno coincide con le
prime avvisaglie della crisi sistemica attuale, si è configurato di fatto come
una sorta di marxismo da II Internazionale, alla Kautsky o alla Bernstein,
tutto rivolto a leggere nei fenomeni il concretizzarsi, finalmente, delle “condizioni”
che preludono l’avvento del comunismo.

E
come fece Kautsky con la sua idea di “superimperialismo”, si sono divinati i
segnali di uno “spazio liscio” che prende il posto di uno “spazio striato”,
increspato. Ovvero è stato annunciato un mondo unificato e appiattito dal
capitalismo. Impero di Hardt e Negri è la sintesi più nota di questo
annuncio. Ma al pari dell’ipotesi del “superimperialismo” di Kautsky, anche
questo è stato un annuncio sfigato. Allora la confutazione a Kautsky fu il
primo massacro interimperialistico, la risposta a Hardt e Negri sono stati
l’11/9 e l’inizio delle guerre infinite. Di fatto, le due drammatiche
confutazioni sono state in entrambi i casi contemporanee all’enunciazione della
tesi.

5. L’analisi intellettuale riduce le coordinate e le variabili al
minimo (putativamente coincidenti con le ipotesi minime dell’esposizione
marxiana e dimenticandosi bellamente che la logica dell’esposizione non
coincide mai con quella della scoperta – cosa che ogni scienziato dovrebbe
sapere): scontro capitale-lavoro in un sistema omologante, teso allo
smantellamento inevitabile di ogni differenza di etnia, di etica e di costumi,
di religione, nazione, stato, casta considerati rimasugli pre-moderni e moderni.

E
invece il mondo è un casino e così i bei concetti simmetrici ed elegantemente
dispiegati non riescono a cogliere i fenomeni, per non parlare di ciò che sta
sotto i fenomeni.

Sono
troppo ingiusto, troppo critico, troppo grezzo, non capisco le raffinatezze dei
ragionamenti? Ma non è che siamo invece un po’ troppo nella merda e qualcuno
ancora non vuole capirlo per fedeltà identitaristiche? La reazione a questa
incapacità analitico-politica, non è proprio il rifugiarsi in tutte quelle
identità e fedeltà premoderne e moderne che si pensavano in via di
dissoluzione? Il disastro della reazione non è un segnale di quello
dell’azione?

Una
reazione che, di certo, non incontra il favore né di Pierluigi Fagan né di chi
scrive (e per questo siamo così critici; non per divertimento ma per confessata
preoccupazione).

A
quelle caratteristiche premoderne e moderne, alcuni associano valori (si veda
il ritorno di istanze fasciste, xenofobe, razziste, nazionaliste, il culto per
il Blut und Boden e il Medioevo). Non ci piace affatto, ma è inevitabile
quando la sinistra perde il contatto con la realtà e si dedica a “utopie
letali” come recita il titolo di un libro di Carlo Formenti che ha fatto
arrabbiare molti.

Lo
scontro di classe non avviene sulla Luna, ma in mezzo a dinamiche impregnate di
etnie, religioni, nazioni, Stati, eccetera. Dinamiche con complesse motivazioni
ideologiche, culturali, etiche, politiche e materiali. Dinamiche che hanno alle
spalle una storia precedente e sono la causa di una storia seguente. E questa
storia non si svolge nel vuoto interstellare, ma sulla Terra, su Gea, un
ambiente fisico, geografico e materiale.

6. Il libro di Pierluigi Fagan è inevitabilmente anche un libro di
Storia, nel senso che guarda gli ultimi decenni con distacco storico (che non
vuol dire distacco morale). Lo riesce a fare perché il punto di vista sistemico
gli consente di aumentare o diminuire la granularità dell’analisi e le maglie
che connettono questi grani.

Se
si osserva un quadro impressionista, come ad esempio il “Ponte giapponese” di
Monet, se si va troppo vicino si vedranno piccole macchie di colore e
null’altro. Occorre distanziarsi, e anche un bel po’, per distinguere il ponte.
Allo stesso modo, se si va troppo vicino ai dettagli non correlati della realtà
si dirà: “Chissà che cosa significa. E’ tutto un gran disordine”. La famosa
“risalita dall’astratto al concreto” di Marx serve proprio a calibrare il
livello di granularità dell’analisi della realtà per portarla alla coscienza
del soggetto.

Ma
quando finalmente si capisce che non bisogna avvicinare troppo il naso bensì distanziarsi
un po’ per avere uno sguardo d’assieme che possa cogliere le correlazioni, far
intuire pattern, bisogna stare molto attenti a non inforcare gli occhiali
sbagliati e vedere quello che fa comodo vedere.

Perché
la realtà è in movimento e il movimento spiazza e ciò che spiazza incomoda.

7. Quando la grana è grossa (Stati) i movimenti diventano geopolitici
e geostorici. Nell’uso corretto di questi strumenti non c’è nessuna esaltazione
della nozione di “potenza” né un interesse particolare per la lotta per il Lebensraum
degli stati-nazione. C’è invece una riscoperta della materialità della Storia,
della complessità del reale.

L’intellettualità
accademica ha invece spesso dimenticato pressoché tutto ciò che costituisce il binomio
“materialismo-Storia”. Ha dimenticato il materialismo perché ha espunto la
materia, che appunto, nel nostro mondo si chiama Gea. Ha dimenticato la Storia
perché l’ha ridotta alla formula per l’attesa delle “condizioni canoniche”, formula
prelevata direttamente dalla caverna di Platone.

Una
storia ridotta a formula, come a Marx non piaceva:
«la
“fatalità storica” di questo movimento è … espressamente ristretta ai paesi
dell’Europa occidentale
». Così Marx nella sua risposta a Vera Zasulič del
1881. Concetto che il rivoluzionario tedesco aveva già espresso in una lettera
alla redazione della rivista russa Otečestvennye Zapiski del 1877 dove
diceva:

«Nel capitolo sull’accumulazione originaria, io
pretendo unicamente di indicare la via mediante la quale, nell’Occidente europeo,
l’ordine economico capitalistico usc
ì dal grembo dell’ordine economico feudale […]. Ecco tutto. Ma per il mio
critico,
è troppo poco.
Egli sente l’irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi
del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della
marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione
storica si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la
maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più
integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa:
è farmi
insieme troppo onore e troppo torto
».

8. L’intellettualità marxista blasonata ha inanellato un record di
sconfitte materiali e di incomprensioni della realtà. Le ultime in ordine di
tempo vanno dalle “primavere arabe” all’elezione di Trump
[6]. Pur non essendo il tema
principale del libro, Fagan utilizza il suo approccio per dare un senso alla
“sorpresa” The Donald. E ora io cerco di sintetizzare questo senso dal mio
punto di vista.

Se l’affollamento
geopolitico del mondo e la sua complessità riducono agli USA (e in subordine
all’Occidente) la possibilità di utilizzare l’esterno come spazio per la
produzione materiale di ricchezza e potenza, questa produzione deve
essere ricondotta e protetta là dove il potere della società capitalistica
viene originariamente gestito: lo stato-nazione. Lì è il punto di avvio
dell’espansione e lì è il punto di approdo della contrazione.

La lotta fra Trump e il vecchio
ordine si svolge su questo sfondo del quale tutti i contendenti devono tener
conto, volenti o nolenti. Assisteremo a colpi e contraccolpi, ma la direzione è
segnata.
In questo spazio affollato e quindi ristretto gli USA devono
negoziare da una posizione di forza
[7]. Ma
questa forza, come si capisce usando un po’ di logica e buon senso, non può
dipendere da circostanze esterne che non siano strettamente controllabili,
altrimenti si entrerebbe in un giro vizioso. Il problema degli Stati Uniti – e
la ragione dell’ostilità del “deep state” – è che essi sono invischiati
fino al collo in circostanze esterne sempre meno controllabili, cioè nella
globalizzazione e nella finanziarizzazione (che in realtà è il fattore
principale). Globalizzazione e finanziarizzazione che hanno informato di sé
proprio il “deep state” e il personale politico alleato che mostra
infatti un’enorme fatica ad adattarsi al cambiamento persino quando gli
gioverebbe (vedi le sanzioni alla Russia)
.

Questa è la realtà, il
resto è rappresentazione. A meno che si pensi veramente che un miliardario
americano si possa svegliare una bella mattina con l’idea di diventare
presidente degli Stati Uniti, così solo perché gli garba.

La la land !

NOTE

[1] Si veda P. Pagliani, Al cuore della Terra e ritorno. Parte 2. La
crisi che verrà: definanziarizzazione e deglobalizzazione
. 2013
(scaricabile gratuitamente da
http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=73540).

[2] Sarebbe stato meglio per Marx, così i suoi figli non sarebbero morti
perché non poteva comprare il cibo e le medicine e non avrebbe dovuto a volte
impegnare persino i calzoni per poter sopravvivere – l’agente dell’Alta Finanza
peggio pagato del mondo!

[3] «[Il duca] deciso veramente a ritirarsi dalla vita pubblica,
aveva un’ultima ambizione: quella d’essere nominato senatore; se, quindi, per
finir bene dinanzi all’opinione pubblica, non gli conveniva abbandonar
bruscamente il partito al quale, dopo il Settantasei, s’era legato ancora più
stretto, non gli conveniva neppure muover guerra troppo aperta a quella
sinistra da cui aspettava la seggiola a Palazzo Madama. Quindi aveva dato a
Benedetto Giulente la presidenza della Costituzionale [l’associazione locale
della Destra], contentandosi del posto di semplice gregario. Frattanto, contro
questa società era sorta una Progressista, alla quale s’era fatto ascrivere
Consalvo [nipote del duca e principe di Mirabella]. “Zio e nipote l’un contro
l’altro armati? Il ragazzo che si ribella al vecchio?” dicevano in piazza; ma
le eterne male lingue insinuavano che la cosa era fatta d’amore e d’accordo,
che il duca era ben contento d’avere il nipote nel campo contrario, come il
principino si giovava del credito dello zio tra i conservatori. Del resto,
quantunque consocio dei progressisti, egli dichiarava a questi ultimi che la
sinistra non aveva ancora “un finanziere della forza del Sella”, né “oratori
eleganti come Minghetti”. Ma a quelli che non nascondevano i disinganni
prodotti dal regime costituzionale non aveva nessuna difficoltà a dichiarare: “L’errore
è stato di credere che potesse dare buoni frutti. Il gregge ha sempre avuto
bisogno d’un pastore con relativi bastoni e cani di guardia…”».
F. De
Roberto, I Vicerè, pag. 258. Progetto Manuzio, http://www.classicistranieri.com/liberliber/De%20Roberto,%20Federico/i_vice_p.pdf

[4] Si veda K. Marx, Introduzione a Per la Critica dell’Economia
Politica
. Capitolo 3. Il
metodo dell’economia politica.

[5] V. I. Lenin, Rapporto sul programma del partito, VIII congresso
del PC(b)R, 19 marzo 1919.

[6] «Così qualche settimana dopo sono tornato a fargli visita [al
Pentagono al generale del Joint Staff che aveva visto subito dopo l’11/9, NdA].
Stavamo già bombardando in Afghanistan. Chiesi: “Abbiamo ancora intenzione di
fare la guerra all’Iraq?” E lui disse: “Oh, è molto peggio”. Raggiunse la sua
scrivania. Prese un pezzo di carta e disse: “L’ho appena avuto da sopra –
intendendo l’ufficio del Segretario della Difesa – oggi”. E disse: “Questa è
una memo che descrive che stiamo per far fuori (take out) sette paesi in cinque
anni, a iniziare dall’Iraq, e poi la Siria, il Libano, la Libia,
la Somalia, il Sudan e per concludere, l’Iran.”. Chiesi: “E’ classificata?”
Rispose: “Sì, signore”. Dissi: “Beh, allora non mostrarmela”
». Generale Wesley
Clark. Intervista alla rete TV “Democracy now”, 2007. Ecco la vera origine
delle “primavere arabe”.

[7] Tra le cose su cui Trump sembra voler negoziare, per aver voce in
capitolo, geopolitica e di business, ci sono le nuove “vie della seta” (OBOR: One
Belt One Road
).

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