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In morte di Pinuccio, che credeva nei semi

Le opere di Pinuccio Sciola: esposte nei più importanti musei del mondo o nelle piazze delle grandi città. Le sue pietre sonore: arte che cambia il mondo [Michela Murgia]

In morte di Pinuccio, che credeva nei semi
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13 Maggio 2016 - 17.05


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di Michela Murgia.


Pinuccio Sciola aveva gli occhi chiari, una testa leonina di capelli bianchi e le stesse mani forti e segnate dei contadini e dei pugili. 

Quando l’ho visto per la prima volta stava al centro di un giardino pubblico a Gavoi ed era accomodato con disinvoltura su un dondolo a molla a forma di cavallino, dal quale si godeva l’ascolto di una presentazione letteraria. 

 

 

Poi siamo diventati amici, abbiamo mangiato insieme decine di volte, scambiato visioni e a volte discusso da posizioni diverse, ma non ho mai scordato quella prima immagine di libertà infantile in cui lo colsi quel giorno a Gavoi: per anni è rimasta una chiave indispensabile per capire chi era quest’uomo di settantaquattro anni capace di trarre suoni d’acqua dal calcare e di intuire dentro enormi blocchi di basalto un’anima ferrosa fatta di geometrie nascoste. 

 

 

Pinuccio è un grande scultore, mi dicevano. Io ho sempre pensato di no. Gli scultori maneggiano materiali inerti, mentre lui agiva come se tutto quello che toccava fosse vivo e gli proponesse dialoghi e relazioni. Nel suo sguardo chiaro era presente la stessa capacità di intuire quel che è celato che è propria degli esorcisti e delle levatrici. Credo dipendesse dal fatto che prima di scolpire la pietra Pinuccio era un contadino. Per lavorare la terra ci vuole visionarietà, perché devi credere nei semi e coltivare insieme al solco la speranza che ogni cosa apparentemente piccola possa stupirti, superando la sua apparenza. 

 

 

Uno sguardo del genere è molto utile anche con le persone e Pinuccio lo sapeva bene, perché quando aveva diciotto anni qualcuno in quel modo ha guardato anche lui. Non erano anni facili, i ‘50. Chi nasceva nel primo dopoguerra da famiglia numerosa e non abbiente si poteva considerare già fortunato se arrivava a prendere la terza elementare. Pinuccio arrivò sino a lì e poi fece quello che avevano già fatto tutti i suoi fratelli: andò in campagna a lavorare. 

A differenza loro, Pinuccio però aveva una passione: ogni volta che il campo gli lasciava un minuto libero si cercava una pietra, la sceglieva con cura, poi la scolpiva. Basalto. Arenaria. Calcare. Tra una vigna e un oliveto quel ragazzo dalle mani grandi scolpiva tutto quello che trovava. A diciotto anni ebbe l’opportunità di recuperare un po’ di studio e si iscrisse alle serali per arrivare alla quinta elementare, ma senza smettere mai di lavorare la pietra, ogni volta che ne aveva il tempo. 

Sarebbe probabilmente vissuto così tutta la vita, Pinuccio, contadino di mestiere e scultore a tempo perso, se la scuola d’arte di Cagliari non avesse indetto un concorso artistico per gli allievi delle scuole elementari. I giudici erano persone colte, presidi e artisti, gente che se ne intendeva. Quando, con i disegni, i gessi e i piccoli pasticci dei bambini delle elementari, si videro arrivare anche un’opera di pietra scolpita con una tale maestria che mai l’avrebbe potuta fare un bimbo, andarono sbalorditi al paese di San Sperate a vedere chi fosse lo scultore di diciotto anni che faceva le elementari alle serali. Trovarono solo sua madre, perché Pinuccio era in campagna a zappare. Si fecero mostrare tutte le sue sculture e capirono che quel ragazzo aveva un talento. «Ma quando scolpisce suo figlio, signora?» – dicono che abbia chiesto il rettore della facoltà di Architettura –. E lei: «Quando ha tempo dalla campagna!». Pare che il rettore abbia profetizzato: «Signora, un giorno suo figlio curerà un orto quando avrà tempo dalla scultura». 

 

 

Quarant’anni dopo è stata una scultura di Pinuccio a essere simbolicamente scelta come prima pietra di costruzione del Parlamento europeo e decine di sue opere sono esposte nei più importanti musei del mondo o nelle piazze delle grandi città. Le collaborazioni con i grandi architetti non si contano più e le pietre sonanti di Pinuccio – pietre vive simili a menhir che, se sfiorate, diffondono suoni di vetro e di ferro, di legno, e persino simili alla voce umana – sono un’attrazione che ha portato la scultura molto oltre il recinto degli appassionati della pietra e delle sue forme. Renzo Piano ne ha messa una enorme nel Parco della musica di Roma e quando ci sono stata per la prima volta l’ho abbracciata e ho sentito che farlo faceva suonare qualcosa dentro di me. 

 

 

Una delle cose più belle di Pinuccio è che un uomo così, nato in un paese dove per definizione “non c’è niente”, avrebbe avuto l’occasione di vivere altrove con facilità. Invece è rimasto lì. 

Il mondo lo ha girato in lungo e in largo, le sue opere sono nei luoghi d’arte più prestigiosi, ma già negli anni ’70 Pinuccio aveva deciso che San Sperate era il suo catalizzatore e che la sua principale azione artistica sarebbe stata quella di non lasciarlo uguale a come lo aveva trovato. 

Ha chiamato artisti che dipingessero i muri del paese con i bambini e le bambine. Ha scolpito sassi con i loro padri e fatto fotografare le loro madri dai più grandi maestri dell’obiettivo che conosceva. Ha costruito installazioni di materiali di ogni tipo con i vecchi e le vecchie. Ha aperto una scuola di scultura dove sono andati a imparare giovani talenti da tutto il mondo. Ha battezzato la nascita di un festival multiarte che coinvol-ge tutto il paese, strada per strada, e riempie di bellezza ogni angolo di San Sperate, chiamando a raccolta artisti di ogni disciplina. 

Qualcuno di loro si è talmente innamorato di questo modo di stare al mondo insieme che ha scelto di trasferirsi a San Sperate e di viverci e morirci, come ha fatto il grande fotografo Pablo Volta. 

 

In quarant’anni di quest’opera Pinuccio ha cambiato il volto della sua comunità fino a farne un laboratorio di artisti che vive in un paese-museo sempre in mutamento, un paese di cui si è accorta anche l’Unesco. 

 

 

Nell’ultima occasione in cui ho guardato Pinuccio suonare le pietre nel suo agrumeto ho pensato che il vero capolavoro lì dentro era lui. Davanti agli occhi di due ragazzi di diciotto anni che lo guardavano incantati suonare le sue pietre mi è apparso evidente che a volte basta un solo uomo con una sola vita a disposizione per fare tutta la differenza che serve. Oggi quella vita si è spenta, ma la differenza rimane ed è la sua eredità per tutti.

 

 

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