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La gerarchia è nemica della pace

'Senza accettare il principio di violenza non esiste gerarchia: essa si fonda sull''esistenza di una superiorità e di un''inferiorità organizzate [Michela Murgia]'

La gerarchia è nemica della pace
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25 Febbraio 2015 - 22.22


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di Michela Murgia.

Discorso pronunciato all”Università Cattolica di Milano il 24 ottobre 2014 in occasione del centenario della rivista ”Vita e Pensiero”.

La pace e il silenzio sono due parole che associate – nell”intuizione di chi le ha scelte tra gli altri termini chiave di questa riflessione collettiva – hanno il potenziale per declinare in modo significativo la domanda di Dio del nostro tempo.

Ho accettato onoratissima questa interlocuzione perché sono d”accordo con questa intuizione, ma prima di affrontare la portata di questi due termini, che hanno la natura feconda e moltiplicativa di due veri e propri uteri semantici, occorrerà, io credo, che si ragioni insieme sugli equivoci tossici di cui l”uso e il frequente abuso li hanno resi gravidi.

Mi soffermerei anzitutto sul termine “pace”, che nella Chiesa è oggetto di una riflessione centenaria ininterrotta che nella contemporaneità ha condotto a conclusioni molto articolate e ricche, anche se non sempre foriere di un”omogenea prassi pastorale, tanto che sulla questione continuano a convivere contraddizioni difficili da spiegare; accanto alle esperienze derivate dalla riflessione di Milani, Lubich e Bello, rimane infatti numericamente invariata la schiera dei cappellani inquadrati nelle gerarchie militari e a ogni festa annuale delle forze armate il color ciclamino episcopale squilla ancora inossidato accanto alle mostrine dei generali, come se quella ecclesiale non fosse in fondo che una gerarchia tra le altre.

Nella mia riflessione insisterei con particolare attenzione proprio sul rapporto di senso tra quello che comunemente definiamo pace e quello che abitualmente riconosciamo come gerarchia, perché la ricerca della pace non può essere disgiunta dalla presa di coscienza delle strutture che la minano. La premessa necessaria al mio discorso è l”evidenza che tutte le strutture gerarchiche â€“ cioè tutte le strutture che per reggersi hanno necessità di un rapporto di potere non discutibile tra superiori e inferiori – sono per loro stessa natura sistemi “armati”, dentro ai quali le logiche della violenza e della sopraffazione non appaiono come il casuale risultato di individualità prive di disciplina di cui la struttura risulta suo malgrado vittima, ma sono invece un elemento ontologicamente connaturato alla sopravvivenza stessa dell”impianto gerarchico.



Senza l”accettazione del principio di violenza non esiste gerarchia, perché la gerarchia si fonda sull”esistenza di una superiorità e di un”inferiorità organizzate e rispettate come tali. Chiunque discutesse la legittimità di questo rapporto tra forze diseguali lo minerebbe alla base, e infatti nessuna gerarchia nella storia, sia essa militare, civile, politica o religiosa, ha mai ritenuto di poter fare a meno di dotarsi di meccanismi punitivi e inibenti verso le forme di ribellione e sovversione della graduatoria del proprio potere. Pensare dunque di affrontare la questione della pace senza affrontare al contempo l”esistenza strutturalmente violenta dei sistemi gerarchici, anche e soprattutto nella Chiesa, significa rinunciare ad andare al cuore, direi alla radice più viva della questione. Ma se non possiamo chiamare pace la quiete implacabile che il sistema gerarchico lasciato a sé stesso riesce a generarsi intorno, allora la pace cosa è?

Nella declinazione di cui io sento di non poter fare a meno (il mondo non so, non ho la pretesa di discernerlo, ma invero mi pare ne faccia a meno benissimo), la pace è il millesimato equilibrio che regge insieme tre cose precise: rispetto, giustizia e volontà.

Rispetto Ã¨ la connotazione della pace che considero per prima e ci tengo a chiarire che non è un termine che ho posto in questa sequenza per ansia personale di politicamente corretto. Il rispetto per me è necessario alla pace proprio nel suo significato etimologico di “guardare indietro”. Guardare indietro è un”espressione curiosamene carica di significati negativi nel linguaggio comune italiano.

L”atto del guardare avanti è considerato cosa buona e lungimirante, che dichiara il possesso di un orizzonte ulteriore e si declina nell”incedere deciso di chi sa dove sta andando. Guardare indietro appare invece come esitazione e indugio, scarsità di determinazione, incertezza della meta, addirittura recriminazione sul latte versato.

Nella Bibbia la moglie di Lot è l”incarnazione simbolica dei rischi che derivano dal guardarsi indietro: l”atto di guerra tra il Signore e la città di Sodoma ci viene presentato come qualcosa che esige spalle voltate e occhi rivolti oltre, pena la morte per troppo vedere. Chi volta le spalle e guarda avanti è già in guerra, chi guarda indietro è ancora dentro allo spazio negoziale dove la pace non è del tutto annichilita. Eppure la fine della moglie di Lot è ambita da nessuno; tutti ci adoperiamo per guardare avanti e passare oltre, come se il cammino cominciasse nel punto esatto in cui il piede deve ancora posarsi, invece che continuare su una linea spesso discontinua, talvolta in salita, ma comunque cominciata ben prima dell”attimo presente.

L”esigenza del rispetto richiede invece di tenere conto, come atto di riguardo verso ciò che c”è davanti, proprio di quel che c”è alle spalle.

Guardarsi indietro è un atto di memoria, significa tenere a conto i percorsi fatti e fare tesoro delle geografie acquisite. Poiché la pace è una condizione collettiva e non individuale, guardarsi indietro Ã¨ un atto di cura: significa anche non smettere mai di stare attenti a che nessuno rallenti al punto da perdersi e non poterci più raggiungere.

Guardarsi indietro significa anche sapere da dove partiamo, che è importante tanto quanto sapere dove stiamo andando, non fosse altro perché è l”unico capo del percorso che possiamo definire con certezza.

Le mete si cambiano, le partenze non più.

Il rispetto è la consapevolezza di star viaggiando con un bagaglio che non può essere ignorato se non a rischio di perdere la strada o non arrivare mai a destinazione, se destinazione c”è. È interessante che sia il tedesco ad avere una parola – Rückblick – che definisce il guardare indietro senza dare al gesto alcuna connotazione negativa. La continua edificazione di memoria collettiva di un popolo che certo non prova alcun piacere a guardare indietro alla sua terribile storia recente ci dice molte cose sul perché la Germania oggi è il paese europeo a più alto tasso di integrazione a fronte di fortissimi flussi migratori in entrata.

L”Italia, che ha mancato molte volte l”appuntamento con le sue memorie storiche, ha enormi difficoltà a costruire una pace sociale duratura e condivisa e una cultura dell”accoglienza e della tolleranza che non sia mera facciata.

La questione della giustizia sociale Ã¨ altrettanto fondante nel discorso sulla pace. Direi anzi che senza una profonda presa in carico della questione della giustizia sociale non abbiamo neanche il diritto di parlare di pace.

Nessuno si può permettere di pretendere che l”oppresso, il povero, il discriminato e l”emarginato “lascino in pace” l”oppressore, l”arricchito, il privilegiato e il dominante. È curiosa l”espressione “lasciare in pace”, una pace che sa di abbandono e di quiete, di separazione, di inerzia. Invece la pace a volte grida. A volte tira sassi. A volte piange e ci sveglia quando siamo già comodi sul divano a guardare la tv, in santa pace. I migranti turbano l”equilibrio della nostra idea di patria? I diseredati appiccano il fuoco ai cassonetti delle nostre periferie? I poveri, i dimenticati e i deprivati urlano in piazza la loro rabbia, spaccano le vetrine e occupano case e scuole?

Fanno rumore, disordine e spesso distruggono, è certo, ma la pace continuano a essere loro, non noi.

La nostra pace è la pax romana: una quiete armata frutto di supremazia e sottomissione. Fino a quando accetteremo che pace e quiete siano considerati sinonimi staremo postulando l”esistenza stessa del conflitto e dunque l”unico volto della pace che vedremo sarà quello sfigurato della paresi sociale determinata dalla forza di chi possiede un esercito da mandare contro i poveri e gli emarginati. Giustizia non significa uguaglianza, né le due cose vanno confuse: la disuguaglianza di partenza è un dato individuale naturale. Le intelligenze, le attitudini, le inclinazioni caratteriali, i dati biologici: al di là delle similitudini statistiche sui grandi numeri, tutto è diseguale nella nostra natura. La diseguaglianza naturale è la ragione per cui ci serve la giustizia sociale, a meno che non vogliamo che la disuguaglianza resti una condizione ineludibile.

Qual è dunque il rapporto tra diseguaglianza, giustizia e pace? Fintanto che la disuguaglianza viene assunta come un destino, la pace non può coesisterci. Si può cominciare a parlare davvero di pace solo quando si pone in dubbio che il dato di partenza della disuguaglianza sia sufficiente a decretare l”esito dell”esistenza di chi nasce dalla parte debole della leva sociale. Che alcuni nascano individualmente poveri, svantaggiati, deboli o meno dotati è un fatto oggettivo. Che essi debbano restare in questa condizione per sempre è una scelta sociale che ci interroga tutti e certamente non permette di cavarsela superficialmente con l”escamotage dell”equità: Milani sintetizzò perfettamente come la più grande ingiustizia fosse proprio la pretes di fare parti uguali tra disuguali. Si riferiva al sistema di valutazione della scuola dell”obbligo, ma è una frase mirabilmente sintetica di molti altri tentativi di scambiare la giustizia con l”uguaglianza. Fare parti uguali tra soggetti disuguali non è equità, ma un”ingiustizia più subdola, un”iniquità che ha studiato ipocrisia.

La fatica di fare la pace e quella di fare la giustizia sono la stessa fatica.

Chi afferma di fare la prima senza spendere energie anche per la seconda sta facendo un”affermazione politicamente realistica, ma evangelicamente infondata. La teologia della liberazione assunse questo dato come fondativo e la conferenza di Medellin lo fece dottrinalmente proprio quando teorizzò la necessità dell”opzione preferenziale per i poveri. Come è finita allora – anche teologicamente – lo sappiamo, ma è un”esigenza primaria chiederci qui come deve proseguire oggi il discorso sulla pace, perché siamo ancora davanti alla pressione drammatica delle differenze economiche mondiali che segnano in maniera insostenibile le esistenze di uomini e donne di ogni latitudine.

Una risposta può venire dalle nuove forme di economia, quelle post capitaliste, che vanno sotto il nome di “economie di condivisione” o “economie collaborative”. Mi permetto una citazione testuale:

“Le entrate nelle tasche degli americani attraverso l”economia collaborativa quest”anno supereranno i 3,5 miliardi dollari, con una crescita superiore del 25% rispetto all”anno precedenteL”economia di condivisione si sta spostando di segno: dall”essere un supporto al reddito in un mercato stagnante a diventare una forza economica dirompente.” 

Lo dice Forbes di questo mese, non il settimanale del volontariato parrocchiale, e credo che valga la pena dedicare a queste novità vite intere di studio a questo nuovo modo di produrre e scambiare ricchezza economica riconoscendo come un valore quella umana. Lo dobbiamo alle persone che sempre più ci inonderanno le coste con la loro speranza di un futuro migliore. La nostra pace non può avere il volto della loro disperazione.

La volontà è un elemento costitutivo della pace, perché la pace è qualcosa che in natura con ogni evidenza non esiste: tutta la creazione geme e soffre, dice Paolo, in guerra costante con sé stessa, dominata dalla legge del più forte dove il debole soccombe e nessuno ne ha pietà. Quello che chiamiamo pace non è dunque un equilibrio innato di cui noi, genere umano senziente, siamo il turbamento, ma un”azione culturale dinamica e responsabile che come umanità abbiamo invece direttamente in carico e che si esplicita attraverso il continuo aggiustamento della linea della disuguaglianza naturale.

La pace di cui parlo è cosa propriamente umana, non naturale, ed è il risultato di uno sforzo culturale complesso e consapevole, oltre che di una resistenza a molte forze opposte, la prima delle quali è quella che pretende che la disuguaglianza naturale rappresenti per ciascuno una sentenza non modificabile. La pace bisogna decidere di volerla e di essere disposti a sostenerne i costi in termini personali e collettivi. Non basta non volere la guerra: occorre volere fortissimamente la pace, che non è quello che rimane quando tutte le armi hanno smesso di sparare, ma quello che comincia quando tutti gli occhi hanno smesso di piangere.

Ho volutamente omesso di trattare il termine silenzio in questa riflessione sulla pace perché avverto le insidie di questo abbinamento e non desidero farmene complice in virtù della sin troppa abusata spiritualità del bel tacere.

Non credo sia casuale se nei sistemi gerarchici il silenzio sia tenuto in gran conto, perché dove la volontà è sottoposta al vincolo dell”obbedienza, si può imporre silenzio al dissenso e invertire il segno dell”azione del singolo in ordine agli scopi dei superiori in struttura. In questo senso il silenzio non è un valore. Usi a obbedir tacendo Ã¨ un motto assai adatto alle forze dell”ordine, ma non ai figli di un Dio che ha creato il mondo con la parola, strappandolo al silenzio della non esistenza.

Fonte: http://www.michelamurgia.com/cultura/856-la-gerarchia-%C3%A8-nemica-della-pace.

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