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Filo scozzese

«Lo stato-nazione, una creatura europea originata nel XV° secolo e ratificata come standard nel XVII°, mostra strutturali problemi in certi contesti. I problemi che mostra in Europa sono peculiari e vanno trattati come tali e non come meta-categor

Filo scozzese
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13 Settembre 2014 - 15.48


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di Pierluigi Fagan

Il prossimo 18 settembre gli scozzesi andranno alle urne per decidere dei propri rapporti con gli inglesi. La Gran Bretagna nasceva 307 anni fa quando un accordo tra le rispettive élite, decise che era conveniente per loro ed i loro interessi, unirsi stabilmente.

E’ noto che gli inglesi irrorarono copiosamente di sterline i capi dei principali clan ed esercitarono varie forme di persuasione occulta per convincere gli assai poco convinti scozzesi, tra cui quella notissima di Daniel Defoe, spia al soldo della corona. Proprio quel Defoe che scrisse quel Robinson Crusoe che Marx usò come parametro ironico (le “robinsonate”) dell’ideologia dell’individualismo asociale, antropologia narrativa alla base della mentalità socio-economico-politica anglosassone. E’ altresì noto che la popolazione scozzese fosse per tre quarti contraria alla fusione.

Scozzesi ed anglosassoni sono due etnie radicalmente diverse. I primi sono un antichissimo strato indigeno, almeno da quando (si pensa) una popolazione pre-indoeuropea, forse originaria dell’ambito pre-celtico franco-atlantico, migrò nel nord dell’isola e costituì lo strato sul quale si sovrapposero migrazioni celtiche. Successive spinte, inclusa l’invasione dei romani e la costruzione del Vallo di Adriano, li confinarono con precisione nel Nord.

Al tempo della fusione, gli scozzesi avevano dato i natali alla casa regnante degli Stuart i cui rappresentanti (Giacomo I, Carlo I, Carlo II, Giacomo II, dal 1603 al 1689) hanno segnato il secolo precedente alla Gloriosa Rivoluzione da cui origina non solo la Gran Bretagna, ma quello stesso sistema parlamentar-economico che è variamente chiamato democrazia-liberale o capitalismo-parlamentare.

Il primo Giacomo si ricorda per la bandiera (l’Union Jack da lui personalmente disegnata), e la compilazione del canone biblico versione anglosassone tutt’oggi in uso (la Bibbia di re Giacomo). Carlo I invece si ricorda per esser stato il primo re ghigliottinato (1649) e per aver portato alla Guerra Civile. Carlo II non si ricorda.

Giacomo II invece si ricorda perché fu sotto il suo contrastato regno che le élite anglosassoni fecero il colpo di stato tramite richiesta invasione dell’olandese Guglielmo d’Orange, colpo di stato che poi venne retroattivamente nobilitato del titolo di “Gloriosa Rivoluzione”.

Da allora la monarchia britannica è stata sempre incarnata da discendenze di casate sassoni (tedesche) ed è diventata costituzionalizzata cioè poco più che rappresentativa. Da allora, la Gran Bretagna ha sviluppato il sistema di ordinamento economico basato su produzione e commercio; un sistema finanziario centrato su una Banca centrale (privata ma con funzione pubblica) ed un sistema banco-finanziario privato che intorno ad essa ruota; un sistema parlamentare bicamerale fondato su una costituzione leggera, sulla votazione delle élite (sia come votanti che come rappresentanti) che decidono in assemblea cosa è meglio per i tre sistemi: l’economico, il finanziario, il sociale o interesse nazionale/bene comune (commonwealth).

I tre sistemi (economico-finanziario-politico/sociale) integrati e sinergici, formano il sistema moderno di democrazia capitalistica conosciuto anche come sistema liberale o sistema occidentale[1]. Gestendo tassazione e soprattutto destinazione della tassazione, le nuove élite inglesi e poi britanniche, protessero e svilupparono la potenza di quel proprio sistema militar-commerciale-industriale che poi divenne un impero.

Gli inglesi invece sono la somma di uno strato forse pre-celtico, uno celtico, uno romano che significa anche misto di popolazione ex-barbariche ma romanizzate, dai Franchi ai lontani Sarmati, che costituirono il substrato (i Britanni) sul quale piombò l’invasione degli angli (danesi-scandinavi) e dei sassoni (tedeschi del nord più olandesi), cioè barbari puri. Recenti studi genetici hanno mostrato che il primo strato è rimasto il grosso dell’origine di quel popolo, sebbene le élite anglo-sassoni ne abbiano segnato decisivamente il carattere culturale.

L’aristocrazia anglo-sassone deriva del tutto da quei barbari. Tra anglo-sassoni e scoti non corse mai buon sangue, dal Regno di Alba alla battaglia di Sterling Bridge (1297) che fece da soggetto al Braveheart di Mel Gibson, dai trattati scozzesi di alleanza anti-inglese con la Francia e vene di papismo, fino ad un diverso protestantesimo (gli scozzesi sono presbiteriani) ed un diverso sistema giuridico ed educativo.

Quella unione di interessi sancita tre secoli fa, oggi torna in giudizio.

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Già si sta preparando analogo referendum nell’Irlanda del Nord e si teme per uno addirittura gallese. Altri vengono reclamati o sognati dai catalani, nelle Fiandre, nel Veneto mentre già c’è stato quello della Crimea ed altri ce ne potrebbero essere nella risistemazione delle frontiere dell’Europa orientale e non solo. Storici indipendentismi potrebbero rispolverare l’idea ad esempio nella terra dei Baschi, in Corsica, in Bretagna, in Sardegna etc. .Cosa succede e cosa pensare di ciò?

Lo stato-nazione, una creatura europea originata nel XV° secolo e ratificata come standard nel XVII°, mostra strutturali problemi in certi contesti. I problemi che mostra in Europa sono peculiari e vanno trattati come tali e non come meta-categoria assoluta.

In Europa, data la conformazione geo-storica, gli stati non hanno mai superato una certa dimensione, sebbene ci abbiano provato caparbiamente in molti, da Carlo Magno ad Hitler. La massima dimensione raggiunta (usando come metro la popolazione e non l’estensione territoriale) è quella dei tedeschi post-riunificazione che contano oggi 82 milioni di individui che fa del nostro campione continentale il 15° stato nel mondo, 20a la Francia, 22° il Regno Unito e 23a l’Italia. Un secolo fa, quando dominavano il mondo, erano rispettivamente 5a,7a,10°,11a, circa una dozzina di posizioni perse dal quartetto in un solo secolo (tra trenta anni saranno tutte e quattro intorno dalla 30a posizione in poi).

Per rispondere alle sfide di un mondo sempre più grande, interconnesso e competitivo, gli europei hanno dato vita ad un percorso di maggior unificazione che, per il momento, ha visto il formarsi di una debole tela di leggi comunitarie sopra una tela più forte ma legata alla sola condivisione di una moneta unica senza per altro che vi sia stata una unificazione delle economie e delle fiscalità, delle leggi e delle politiche.

La condizione ibrida degli europei è gravata da tre fattori di disturbo del funzionamento statale:

1) l’adesione generalizzata ad un forma di mercato totalmente libera da vincoli locali (stato-nazionali) che ha depotenziato ogni forma di azione politica sul funzionamento economico, azione che tra l’altro è espressamente vietata e disincentivata da un imperativo ideologico;

2) il transito imperfetto, indeciso e contradditorio tra la forma stato-nazionale locale e quella ipoteticamente federata continentale col risultato che non si sa bene chi decide cosa, per chi e da che punto di vista, nonché l’affermarsi di poteri “tecnici” come quello della BCE che poi tecnici non sono poiché la tecnica è sempre al servizio di una intenzione che, nel caso specifico, è poi quella del solo socio di maggioranza ovvero la Germania e del più generale sistema che chiamiamo “mercato”;

3) una situazione, non congiunturale ma strutturale, di contrazione delle opportunità economiche generali in ragione di profonde trasformazioni occorse nel contesto (nel mondo). Cioè le cose vanno da peggio a male, gli stati non possono/vogliono intervenire perché invischiati in reti di interessi continentali non chiariti e perché è ideologia forte non lo debbano fare assolutamente, altrimenti distorcono un meccanismo (il mercato) che in teoria si dovrebbe auto-regolare, quando è proprio il mercato che fa andare le cose dal peggio al male dato che il contesto in cui opera è cambiato drammaticamente.

Lo stato nasce con tre precisi intenti: tassare, ridistribuire, proteggere dall’esterno. La quarta ragione, ovvero amministrare giustizia e punizione è accreditabile a qualsiasi forma di unione degli individui. La terza ragione, ovvero la difesa dai nemici esterni oggi non può essere più garantita da un singolo stato delle condizioni e dimensioni di quelli europei ed infatti essi partecipano tutti ad una associazione sovranazionale (NATO) per altro comandata da uno stato non europeo che da solo, è quasi grande come tutti gli altri 27 messi assieme. Più che una unione, una cooptazione.

La redistribuzione oggi è malvista poiché è malvista la stessa tassazione. La tassazione deprimerebbe la libera iniziativa e la spesa, in favore di forme improduttive (lo stato sociale) ed inefficienti (la burocrazia), è quindi ritenuta dannosa. Al di là delle teorie, è un fatto che le burocrazie siano costose e poco efficienti il che in periodi di vacche magre non è razionale. Ed è altresì un fatto che varie forme elitarie di potere, nonché connivenze tra la stessa economia privata ed il potere politico, drenino spesa pubblica in modi contrari al bene comune.

Il giudizio di improduttività della spesa pubblica in welfare invece, nasconde (male) il fatto che il settore privato ha bisogno di allargarsi sulle prestazioni pubbliche visto che nel mercato di beni e servizi tradizionali prende sempre più schiaffi dagli emergenti. Inoltre, abbassare la provvidenza pubblica rende gli individui/lavoratori più bisognosi, cioè disposti a lavorare a costi bassi, il che ha un benefico effetto su gli stressati operatori di mercato (le aziende).

Sono queste le forme dogmatiche del XXI° secolo e l’aria di Santa Inquisizione che aleggia intorno a queste strampalate idee che nessuno può discutere razionalmemte, dicono di quanto sia disperata la situazione di questa ideologia decadente.

Contro lo stato, scendono in campo i profeti del liberismo, gli interessi economico-finanziari globalizzati, gli indipendentisti e quindi alcuni federalisti continentali. In favore dello stato scendono in campo alcuni tipi di socialisti e comunisti, sindacalisti forse, le burocrazie statali (quelle delle macchine statali, di governo e politiche), i nazionalisti patriottici di destra. Ma i liberisti anti-stato non sono favorevoli alle indipendenze locali, mentre non è detto che fautori dello stato, non possano essere anche spinti federalisti, cioè non-centralisti. A seconda del nemico che si elegge come principale, ci si schiera da una parte o dall’altra, in compagnie per altro poco gradite.

Gli indipendentisti non sono liberisti globalizzati e spesso al contrario sono spesso localisti e comunitari, i social-comunisti o semplici keynesiani non sono nazionalisti mistici così come le élite nazionali legate ad interessi locali non sono certo socialiste mentre sarebbero alleati dei liberisti (ma è probabile non si accorgano della confusione contraddittoria delle loro idee aiutati da laute prebende che notoriamente appesantiscono le palpebre mentali).

Cosa pensare dunque di questo fenomeno?

Per farsi una opinione dobbiamo prima ancorare il giudizio a qualcosa che riteniamo esser fondamentale per noi ma al contempo, possibile.

La possibilità è un fatto spesso trascurato. Hegel disse che nella Storia il reale era razionale e viceversa. Cosa intendeva il tedesco con questa lapidaria affermazione? Si è a lungo discusso in merito, fuorviati dal particolare vocabolario concettuale usato dal filosofo di Stoccarda. L’interpretazione che sposo è che semplicemente Hegel ricordava a tutti che ciò che è, ciò che accade è precisamente ciò che deve e può accadere. Questo richiamo a quello che oggi potremmo chiamare “realismo” non è stato molto seguito dai seguaci del pensiero hegeliano. Altri, hanno pensato che egli “giustificasse” tutto ciò che nella storia si manifesta.

In realtà, è probabile Hegel volesse dire che volere-dovere-potere, in storia, collassano in una ragione che è la somma o mediazione di ciò che può, che deve e che si vuol far accadere. Il voler ed il dover, nulla possono se non è possibile, se non ci sono condizioni di possibilità. Quando scoppia la Rivoluzione francese è solo lì e solo allora che può scoppiare, perché solo lì e solo allora le linee del volere e del dovere essere, si incontrano col poter essere. Che una cosa “debba” accadere, non significa che noi la si saluti come felice per noi, significa solo che le linee di forza delle cause, lì s’incrociano.

Nel nostro caso quindi, poco importa che se c’è chi vuole abbattere lo stato nazione per far trionfare l’ordine (o il disordine) dei capitali e c’è chi vuole sostenerlo perché avversa questa ideologia e promuove invece una economia pubblica o semi-pubblica o semplicemente mediata politicamente. Importa poco perché la realtà non ci domanda cosa vogliamo o cosa crediamo debba essere, ma cosa è possibile che sia. Se noi intendiamo comunque seguire non cosa accade per forze di cause maggiori, ma quello che riteniamo debba accadere e che vogliamo che accada (ciò che riteniamo fondamentale per noi) dobbiamo regolarci prima con ciò che è possibile. Appunto, cosa è possibile?

A nostro avviso, lo stato –nazione europeo è una entità storica desueta che nel mondo nuovo, sconta i suoi cinque secoli di vita in termini di disadattamento. E’ una forma, non più adattativa. La nuova megafauna planetaria (USA, BRICS ed alcuni emergenti) ha o enormi potenzialità produttivo/consumistiche provenienti dalla demografia o enormi ricchezze naturali o enormi vantaggi politico-finanziari o una strapotente forza militare o una potente capacità tecnologica derivante dai grandi interessi e conseguenti investimenti dati dalle dimensioni, spesso più di una di queste cose contemporaneamente. Nessuno stato europeo, da solo, ha alcuno di questi punti di forza.

Ragioniamo in termini di stati perché sebbene liberali e marxisti intravedano un ente meta-geo-storico che i primi chiamano Mercato ed i secondi Capitale, noi rimaniamo convinti che senza un Stato che investe, legifera, protegge ed amministra la legge interna ed il conflitto esterno, non esisterebbero né l’uno, né l’altro.

Che Mercato e Capitale siano oggi, nei fatti, a dominanza “anglo-sassone” dice che queste entità hanno patria nel Regno Unito e negli Stati Uniti d’America come si rende evidente leggendo capitalizzazioni di borsa, Pil, ranking bancario, finanziario, origine dei principali off-shore, ranking delle imprese industriali e dei servizi, nonché la spesa militare e la nazionalità dei conduttori delle principali istituzioni economico-finanziarie occidentali, quindi planetarie, nonché il ranking delle principali istituzioni pubbliche e private nell’educazione, nell’informazione, nella cultura di massa e nella ricerca.

Questa localizzazione anglo-sassone è frutto di leggi, investimenti statali, forze armate, diplomazia con le buone e con la cattive, pressioni, influenze, spionaggio, sistemi politici di coordinamento, pianificazione e controllo.

L’attuale fase di nascente multipolarità planetaria, premierà chi sarà in grado di darsi autonomia e schivare i condizionamenti dettati dai propri deficit, la megafauna lo sarà più di altri. Naturalmente, il primato della megafauna (entità statali massive) non cancella le possibilità dalla microfauna (entità statali piccole) ma questa seconda se sarà ben resistente e viva come genere non lo sarà per tutti le specie e dove lo sarà, lo sarà episodicamente.

Resistere con un piccolo stato-nazione sarà sempre più difficile anche se non impossibile, solo che lo sarà non ovunque e non per sempre proprio per quello specifico stato-nazione. Potrà per un decennio gioire di avere una Nokia o produrre il vino come nel Portogallo di Ricardo, ma poi dovrà venderli a qualche oligopolio e tornerà ad occuparsi di tronchi o sardine. Anche la Norvegia prima o poi finirà il petrolio e le posizioni privilegiate di centri banco-finanziari come la Svizzera e Singapore sono già assegnate.

Sembra quindi che la prima condizione di possibilità sia la dimensione e che quanto a dimensione, gli stati europei sono destinati a scendere in classifica sempre di più, oltretutto con una popolazione sempre più anziana quindi costosa in termini di welfare, meno produttiva ed assai meno dinamica. Diventare nazioni di vecchietti tra la 30a o 40a posizione per dimensioni, significherà diventare tutt’altro che autonomi ovvero pieni di condizionamenti poiché pieni di deficit, di mancanze, di debiti. Significherà diventare sempre più dipendenti militarmente, tecnologicamente, monetariamente, politicamente, economicamente e fatalmente, culturalmente. Fino alla scomparsa per incorporazione in sistemi più grandi, da altri diretti.

Le condizioni di possibilità sembra ci spingano quindi verso forme di unione più grandi, unioni con color che fino a ieri reputavamo altro da noi. Non sorprende, visto che la storia mostra una sistematica progressione da accampamenti a villaggi, poi città, poi regni, poi stati, poi stati-nazioni e già più d’una federazione. Sono federazioni gli USA, il Brasile, l’India, la Russia ed assimilabile è il sistema delle 22 province cinesi. Del resto la formazione degli stati nazionali europei, all’inizio, non fu diversa, anche allora si unirono eterogenei che smisero di dar importanza a ciò che li diversificava, dato che c’era qualcosa di esterno che li minacciava. E’ stata sempre questa problematica relazione con l’esterno a trainare la corsa alla dimensione.

La dipendenza dai contesti e il peso della dimensione sono giudicati fatti volgari nel mondo della teoria poiché poco manipolabili dal pensiero, meglio la mano invisibile, la struttura, l’ideologia, il destino manifesto ed altre intrattenimenti mentali. Col risultato che la teoria va da una parte, la realtà da un’altra. Gli stati nacquero prima delle nazioni, sebbene poi siano stati definitivamente saldati da queste, cioè dall’essere “un” popolo, ma all’inizio non vi fu nessuna identità naturale tra stato e popolo, i popoli erano tanti e diversi, come dimostrano gli attuali indipendentismi che sono proprio l’espressione di queste fratture suturate in fretta per ragioni di “ordine superiore”.

Ma le condizioni di possibilità agiscono anche nel determinare quali unioni sono possibili e quali no. L’unione di trenta paesi europei chi cattolico, chi protestante; chi con tradizioni così, chi con tradizioni cosà; chi prospiciente l’Eurasia, chi il Mediterraneo; chi erede della tradizione greco-romana, chi erede di quella barbarica, chi grande e chi minuscolo, chi esportatore e chi no, non ha condizioni di possibilità immediate. Non ha condizioni di possibilità una tale unione per l’indice di difficoltà, relativamente basso se federassimo due o tre paesi, medio se ne federassimo 10 o 12, massimo se ne federassimo 30 o 40. Più aumenta il numero, più l’eterogeneità porta la struttura ad esplodere per complessità come accade in ogni sistema umano (e non solo).

Chi scrive ha già espresso molti di questi concetti perorando l’Unione dei latini o Unione Euro Mediterranea, una unione tra “più simili” con un medio indice di difficoltà ma anche molte cose in comune tra cui la geo-storia, la cultura alta e bassa ed uno strato linguistico (latino) che sono la condizioni preliminari per la formazione dei popoli, popoli senza i quali non c’è nazione, non c’è stato e non c’è federazione che tenga.

Questa condizione di possibilità sembra dunque spingere verso qualcosa di più grande che non lo stato-nazione europeo. Possiamo allora domandarci cosa vorremmo fosse questo “più grande”, da quale ordinatore possa esser organizzato e gestito, possiamo e dobbiamo interrogarci su ciò che riteniamo fondamentale per noi, la nostra preferenza ideologica per il tipo di forma che la realtà sembra imporci come destinazione. E vedere se questa preferenza ha forma compatibile o meno con la nuova deriva separatista.

La mia preferenza ideologica è quella democratica, non la democrazia delegata dei parlamenti nazionali o in questo caso addirittura sovra-nazionali, ma la democrazia diretta di tipo federale. Assemblee popolari che eleggono rappresentanti che vanno ad assemblee di secondo livello, terzo, quarto e così via e con tutti i meccanismi di controllo, revoca, turnarietà e limitazione che la letteratura democratica ha previsto in tutti i secoli in cui la si è sognata e qualche rarissma volta, provata a praticare.

E’ da sottolineare come questo livello corto della politica, livello contenuto tra delegati e deleganti con pieno controllo di questi secondi su i primi, annulla le condizioni in cui prosperano le élite e poiché queste sono null’altro che il potere dei Pochi su i Molti, ecco chiaro e lampante che la democrazia reale risulta l’antidoto naturale al dominio dei Pochi su i Molti di ogni genere e tipo.

E’ quella democratica anche perché solo un paradigma politico è in grado di far funzionare aggregati così grossi e complessi e perché tempi difficili e contradditori come quelli a cui andiamo incontro, richiedono coltivazione delle coscienze individuali ad ogni livello. Informazione, dibattito, partecipazione senza i quali le élite di qualsivoglia natura siano, impediranno il bene comune per altro sempre più difficile da ottenere date le condizioni sempre più complesse del mondo.

Qualsiasi scenario di lotta tra comunità e poteri sempre più grandi, tentacolari e remoti, presuppone la chiarezza condivisa delle intenzioni in seno alla comunità e questa chiarezza e condivisione si forma solo all’interno di pratiche pienamente democratiche. Non ci salverà né un dio, né l’élite dei saggi, né l’uomo della provvidenza, perché è proprio da loro che “noi” dobbiamo salvarci.

Quando i liberali continentali (francesi) vollero riflettere su i sistemi politici migliori quanto a possibilità, incrociando questo realismo con l’idealità della libertà (B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, 1819) addussero come ragione realistica vincolante, che la dimensione dello stato-nazione non permetteva certo una democrazia di tipo ateniese e quindi si doveva giocoforza adottare un sistema meno diretto, di tipo rappresentativo-parlamentare. In quel momento, qualche mente lucida che mancò all’appuntamento, avrebbe potuto sostenere che questa era una ottima argomentazione per ristrutturare gli stati nazione su base federale locale invece che ritenerli monotipo basati sulla centralizzazione in cui si annidano comodamente quelle élite che poi non si possono più controllare.

Ma le idee sulla democrazia, sono sempre state vaghe e poco difese anche perché gli unici che culturalmente avrebbero potuto farlo – gli intellettuali – sono sempre stati essi stessi delle élite, anche quando furono critici e promotori di improbabili coscienze di classe.

Così il pensiero non venne in mente a nessuno e si festeggiò l’apertura successiva al voto universale (non senza grandi ritardi, limitazioni e previe vere e proprie battaglie) come una grande conquista delle “democrazia”, quando invece si rivelò poi e soprattutto oggi, un beauty-contest in cui il popolo ignaro vota a sensazione il leader carismatico dotato di enorme volontà di potenza mista a narcisismo. Un rappresentante degli interessi dominanti (che sono quelli delle élite come si conviene per sistemi la cui logica è stata fissata più di tre secoli fa, proprio dalle élite inglesi ) poiché egli stesso cooptato nelle élite, anche quando in versione “lo faccio per dover di Patria” o “per il bene del Popolo (di cui non faccio più parte)”.

Constant eccepì anche che, poiché i più dovevano lavorare per sbarcare il lunario e non c’era più la schiavitù come nell’Atene periclea, s’imponeva la delega a professionisti (le élite del tempo avevano tempo da vendere essendo tutte aristocratiche o molto agiate). Ma poiché il problema odierno che viepiù si ingigantirà come abbiamo in altri scritti più volte evidenziato, è che ci sarà sempre meno esigenza di lavorare, ecco che il nostro tempo libero diventerà una seconda ottima ragione per rivedere il modello rappresentativo. Avremo tempo da dedicare alla cosa pubblica e non solo…

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Possiamo allora concludere che ciò che è possibile, l’unione federata in aggregati più grandi di alcune nazioni precedentemente incastonate in contenitori statali, ciò che si può, non è in contrasto con ciò che si vorrebbe e dovrebbe, cioè con forme di democrazia diretta e partecipata basate su cellule territoriali di dimensioni idonee. Anzi.

L’ unione federale, potrebbero essere proprio unioni delle comunità democratiche locali che si compongono in assemblee di livello progressivo, sino all’ultimo livello di coordinamento e governo generale della nuova entità. L’ Unione euro-mediterranea di 200 milioni di individui prima ipotizzata e [url”qui argomentata”]http://pierluigifagan.wordpress.com/2013/07/23/leuro-nostrum/[/url], sarebbe comodamente frazionabile in 400 comunità democratiche (di meno di mezzo milione di persone, legate al loro territorio di residenza) che eleggendo due rappresentanti federali, porterebbe ad un parlamento di 800 membri. Questo, anche se l’architettura eventuale di un tale aggregato di 200 milioni di persone, potrebbe essere più sofisticata, dotata di livelli intermedi e disegnata per aiutare la transizione lenta dallo stato nazione al doppio livello comunità-federazione delle comunità.

Uno dei vantaggi delle comunità ridotte è che cresce il controllo sociale ed il problema della reputazione vincola il delegato. Se il vostro delegato si sognasse di votare il Tttip senza aver chiesto il mandato all’assemblea locale, potreste tutti andare sottocasa e sottoporlo ad un interrogatorio socratico, per dirla in modo nobile. Oppure revocarlo immediatamente.

Naturalmente l’eventuale transizione da un modo di stare al mondo basato sul lavoro e solo saltuariamente dedicato a partecipare della cosa comune, ad un modo invertito, non è tutto in questa ingegneria dello spazio geo-politico. Ma senz’altro, questo ridotto spazio geo-politico è la base di una costruzione il cui fine sia l’auto-governo dei Molti. I sette milioni di scozzesi o di catalani, potrebbero ben esser suddivisi in 14 comunità democratiche e già in Scozia, come accadde nella piccola Islanda, c’è una aperta e vasta partecipazione on-line per la scrittura della futura Costituzione.

Utopie? Mah, quando il popolo sovrano voterà per la giornata di 4 ore di lavoro e più tasse per gli alti redditi, quando l’informazione sarà anche integrata dagli interessi delle comunità locali, quando potrete fermare per strada il concittadino più “politico” per dirgli cosa non va e quando pensa di risolvere la faccenda, forse la vostra vita potrebbe cambiare molto più velocemente di quanto avreste pensato.

Ne consegue che l’eventuale spacchettamento degli stati nazione, le spinte all’autonomia di porzioni contenute di territorio, non è in sé né un bene, né un male. Potrebbe essere l’anticipazione di un neo-feudalesimo da alcuni temuto, potrebbe essere la premessa necessaria e mai considerata per iniziare una nuova stagione storica di democrazia reale, una federazione delle nuove Atene.

Forse ci si dovrebbe dedicare un po’ di più all’immaginazione ed al dibattito su queste forme da costruire, invece che perdere tempo a difendere un costrutto (lo stato di dimensioni europee) che ha terminato il suo ciclo storico, come è sempre più evidente e non solo per colpa della globalizzazione capitalistica. Sorprende in specie che vaste culture che provengono dallo storicismo, repentinamente convertite dal vago internazionalismo di classe alla strenua e risorgimentale difesa dei confini nazionali, non si avvedano del peso dei sei secoli che gravano su questa forma e non si avvedano di quanto questa forma sia l’utero delle élite che governano il sistema che loro chiamano capitalistico.

Il referendum scozzese potrebbe esser il bandolo di una matassa con cui cucire un nuovo ed importante tessuto per le relazioni tra le nostre comunità ed a proposito di filo non dimentichiamo che in greco philo, significa anche amicizia, parteggiare per…. Essendo quindi una maggiore autonomia partecipata dei territori, la pre-condizione (il possibile) per lo sviluppo di una vera democrazia (ciò che si vuole e si deve) ed essendo io un democratico radicale, saluto quindi i fratelli scozzesi, mi dichiaro filo-scozzese ed auguro loro di vincere l’importante referendum del prossimo 18 settembre: “Aye!”[2]

Note:

[1] Questa tratto decisivo di storia moderna è in genere assai poco conosciuto nel continente. Agiscono in sinergia, probabilmente, due effetti. I britannici raccontano questo sistema in modo molto diverso da com’è, lo scompongono occultandone la forma sistemica, lo esaltano a frazioni (solo l’economia frutto della sagacia anglosassone, solo la finanza frutto dell’intraprendenza al rischio calcolato della razionalità anglosassone, solo la politica parlamentare frutto del democraticismo anglosassone libero e mai domo), lo nobilitano come una conquista della libertà, della modernità e del progresso. Lo sciovinismo continentale, a lungo dominato dallo sciovinismo francese, ha invece visto libertà, modernità e progresso, nascere dall’insurrezione popolare della Rivoluzione francese che è in ritardo di un secolo su quella “Gloriosa”. Marx ha dato il suo contributo, essenzializzando il sistema economico basato sul capitale, forse in cerca del segreto della legge newtoniana che facesse scientifica la sua critica, ma tacendo fatalmente dell’aspetto politico o minimizzandolo. Produzione e scambio alimentati dalla finanza (capitale) fanno il capitalismo ma il capitalismo da solo non si spiega se non ricorrendo allo stato, al governo, al parlamento delle élite che legiferarono indefessamente per proteggere ed espandere con eserciti, marina, colonie e centinaia di leggi, da quelle mercantiliste a quelle di mercato, da quelle protezionistiche a quelle espansive, il sistema. Il mercato è stato modellato con trattati, tanto quanto il nuovo recente assetto dell’economia finanziarizzata è stato permesso e fissato da leggi votate dal Congresso USA. Tutto quanto oggi scriviamo e leggiamo sul capitalismo assoluto, sulle derive post-democratiche ed oligarchiche del sistema, sono congenite, genetiche del sistema stesso. Sono un fondamentalismo ovvero un ritorno alla sua forma originaria. Il sistema nacque così e questa è la sua logica da quel fatidico 1689 che pochi considerano.

[2] “Sì” in scozzese. Sono assolutamente contrari all’indipendenza scozzese: i conservatori britannici ed il premier Cameron, la Regina (non ufficialmente), la City, la comunità banco finanziaria internazionale (incluso Fmi) che teme un crollo catastrofico di borsa e sterlina, la NATO, la UE per bocca di Barroso non si sa da chi autorizzato. Pare proprio che le élite guardino alla nascita di comunità compatte e corte come al presupposto della loro fine e fanno bene. Il fronte del sì in Scozia è animato da indipendentisti, socialdemocratici, settori del Labour, sinistra radicale, verdi, antimilitaristi ed ambientalisti.

(13 settembre 2014)

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