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Riflessioni post-black-bloc

Passività, ribellione o... Risveglio? Perché il popolo non si ribella al capitalismo predatorio e parassitario nella sua versione neoliberista? [Paolo Bartolini]

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11 Maggio 2015 - 04.57


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di
Paolo Bartolini


Ho
letto un interessante articolo sulle devastazioni di Milano ad opera delle tute nere.
Il blogger Fenrir si interroga sul perché molti cittadini si indignino contro i
black bloc (che l’autore non difende, sia chiaro) invece di dirigere il loro
malcontento verso i reali responsabili del disagio epidemico che ci affligge:
gruppi finanziari, potere politico, multinazionali, e così via.

Siamo
diventati tutti “ultimi uomini” (per citare Nietzsche), piccoli borghesi
individualisti che al massimo sono pronti a battersi per difendere
esclusivamente i loro vantaggi privati?

Questo
non stupisce ed è plausibile, tuttavia chiedersi perché il popolo non si
ribelli al capitalismo predatorio e parassitario nella sua versione
neoliberista non può ottenere una sola risposta. Lo sa bene un intellettuale
rigoroso come Marino Badiale, che mesi orsono si è confrontato con lo stesso spinoso problema.

Comprendere
le origini della passività collettiva rispetto agli abusi del potere che ci
sovrasta, richiede a nostro avviso l’interazione
reciproca di almeno tre fattori:
quello sociologico, quello mitico-spirituale-simbolico e quello critico-politico.

Al
primo livello è indubitabile che l’atomizzazione di massa a cui assistiamo da
decenni, rafforzata dal sistema spettacolare veicolato dai mass media e dalla
pubblicità, abbia isolato i cittadini, inculcando ancor più in ciascuno di essi
l’idea – fondante per l’Occidente – di essere individui separati dagli altri e
“naturalmente” chiamati a competere per sopravvivere. Gli studi sull’uomo flessibile (Sennett), sulla modernità
liquida
(Bauman), sulla società del
rischio
(Beck), confermano la chiusura progressiva dei singoli nel loro
ambito privato, come risposta difensiva per fronteggiare le minacce provenienti
dal precariato lavorativo, dalla diffusione della concorrenza in ogni contesto
di vita, dall’incontro con soggetti appartenenti ad altri universi culturali,
dalla perdita di punti fermi esistenziali travolti dal vortice delle
innovazioni economiche, tecnoscientifiche e di costume.

Sul
versante simbolico e spirituale possiamo affermare – come ha fatto
meravigliosamente Roberto Mancini nel suo “Trasformare l’economia” (Franco
Angeli, 2014) –  che il mito soggiacente
all’odierna (dis)organizzazione sociale poggia sulla convinzione implicita, e
profondamente radicata, che la vita intera sia solo una guerra combattuta per rimandare di qualche tempo l’inevitabile caduta
nel burrone della morte
. Anche il consumo
compulsivo
di merci e la ricerca del godimento come obiettivo primario per
molte persone, testimoniano di un’angoscia sottile e del vano tentativo di placarla
mediante il meccanismo della ripetizione (i comportamenti appropriativi, che
manifestano un’oralità insaziabile e impossibile da soddisfare,  tendono a ripetere il loro rito apotropaico
quotidiano in nome di un “piacere di vivere” che, a ben vedere, rappresenta un
esorcismo patetico e inefficace). La mancanza di un Senso, non necessariamente trascendente ma comunque irriducibile
alle logiche profane degli scambi economici e dei rapporti umani strumentali,
crea un vuoto interiore e infinitizza a tal punto la paura da ridurre al minimo
le energie vitali indispensabili per trasformare radicalmente l’esistenza.

Infine
giungiamo al piano della politica. Molto si è scritto e si è detto sulla crisi
delle ideologie, sugli insuccessi del riformismo e del rivoluzionarismo.
Nonostante questo crediamo che ancora non si riesca a dare il giusto peso ai fallimenti delle battaglie antisistema
novecentesche
. In particolare la violenza
rivoluzionaria
ha dimostrato che nessuna trasformazione autentica può
essere imposta velocemente e con le armi, perché se è giusto dire che
rovesciare i rapporti di forza non è come andare a un pranzo di gala, è
altrettanto vero che i portatori di questi “sogni” di sovvertimento hanno
aggiunto al lungo elenco di tragedie
della Storia troppe pagine, quasi sempre orribili e squalificanti.

Sappiamo
bene, per tornare ai fatti di Milano, che le tute nere non nutrono affatto
ambizioni rivoluzionare, piuttosto esprimono in modo spettacolarizzato l’altra faccia del Potere che
contestano (producendo anch’essi distruzione, generando paura e indebolendo le
ragioni di chi manifesta pacificamente contro l’ipocrisia di un sistema
fallimentare).

Allora
portiamo fino in fondo il ragionamento, senza cadere nell’errore di chi,
facendo parte della cosiddetta galassia antisistema, ha giudicato con livore e
sufficienza i cittadini accorsi a ripulire (a favore di telecamera,
inevitabilmente) le vie di Milano dopo lo scempio nero del primo maggio.

In
quei gesti di cura per la propria
città, che sicuramente includono anche esempi di buona volontà “renziana”  di cui faremmo volentieri a meno, c’è una
possibile risposta a tutte le forme
di violenza che si esercitano sui cittadini. Si tratta, per una politica
radicale che voglia dare frutti, di lavorare pazientemente per far riconoscere
alle persone entrambe le facce della medaglia chiamata “Violenza” (quindi tanto
la barbarie della logica capitalistica, quanto la natura spesso dannosa delle
reazioni inconsulte che essa genera), ma ancor più di creare una cultura
effettiva di solidarietà, responsabilità
e partecipazione
che intacchi le origini di ogni fuga
nel privato: la paura e l’angoscia.

Questa
svolta, che riguarda l’esperienza di una fede/fiducia nella vita e nella
dignità umana contro la parola ultima della morte, si alimenta di gesti di
pace, di amore e di cooperazione. Quei gesti che – si badi bene – non rifiutano
il conflitto e la critica, ma mettono entrambi al riparo dalla furia nichilista
che pervade, in segreta complicità, il Potere e i suo Nemici, liberando l’unica
forza che potrà condurci oltre il capitalismo: la certezza, vissuta nel cuore e
nell’anima, che esistono già altri modi
possibili di vivere, dotati di senso e capaci di conquistare con l’esempio
altri compagni di lotta
. Perché in fondo vale ancora e sempre l’invito
gandhiano ad “essere il cambiamento che
vorremmo vedere nel mondo”
.

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