Riproponiamo qui un testo scritto nel 2008 da Miguel Martinez di fronte al dilagare di una pratica che poi si sarebbe diffusa presso i media mainstream e i partiti di sinistra: il tentativo di assimilare al fascismo una serie di fenomeni politici che fascismo non sono. Lo schema di Martinez è molto utile, rispetto ad altri metri che fanno rientrare di tutto nell’arco della definizione, perché cerca invece di delimitare il campo con maggiore precisione.
di Miguel Martinez.
La legge italiana vieta l’abigeato. Per poterlo vietare, innanzitutto lo definisce (in 29 parole). E in base a quella definizione, i giudici assolvono o condannano.
Allo stesso modo, chi dichiara di opporsi al fascismo ha il dovere prima di tutto di definirlo, anche sapendo che la storia è complessa. Ma solo una definizione permette di capire se siamo di fronte a qualche forma di fascismo oppure no.
Io ci provo, dando, come vedremo, una definizione in undici parole. Chi non è d’accordo, presenti la sua, ma che non sia così generica da indicare tutto e niente.
Bisogna partire dal fascismo reale, quello storico, quello che tutti sono d’accordo fosse fascista insomma. Se quello che chiamiamo “fascismo” non somiglia per niente al fascismo reale, sarà pure una cosa terribile, ma non sarà fascismo.
Il fascismo reale lo guardiamo troppo spesso al contrario, scambiandone la fine per il principio.
Mussolini entrò nella seconda guerra mondiale facendo lo stesso ragionamento con cui Berlusconi avrebbe partecipato all‘invasione dell’Afghanistan (e Prodi ci sarebbe rimasto e Berlusconi ci sarebbe tornato): saltare sul carro dei vincitori. Possiamo immaginare che se Mussolini avesse avuto idea di come sarebbe andata a finire, si sarebbe schierato dall’altra parte, e da qui possiamo costruire anche divertenti ipotesi di fantapolitica.
Comunque la parte meno significativa del fascismo fu una guerra in cui Mussolini entrò per sbaglio lasciandoci le penne. Se qualcuno è contrario a ciò che voleva il fascismo, deve partire da ciò che voleva Mussolini, che non era certo finire a Piazzale Loreto.
Il fascismo reale è stato il governo dell’Italia durante un periodo di grandi trasformazioni. L’antifascismo non è ovviamente l’opposizione a tutto ciò che è stato fatto in quegli anni, che comprendeva anche – ad esempio – la bonifica delle paludi pontine. Insomma, per definire il fascismo, si corre il rischio di perdersi in tutti i dettagli e i cambiamenti divent’anni di storia di un paese di diverse decine di milioni di persone.
Per quanto possibile, occorre andare all‘essenziale.
Il fascismo reale riflette un’epoca europea con tre caratteristiche fondamentali: una tremenda trasformazione economica, una violenta guerra di classe e imperialismi concorrenziali armati. Comunque la giriamo, è questione di capitalismo. Quindi, o si parla di capitalismo, di scontro di classe e di imperialismo, o è meglio lasciar perdere ogni discorso sul fascismo.[1]
Oggi va di moda rimuovere ogni riflessione su queste cose, e questo costituisce il peggiore revisionismo: perché non mette in discussione fatti di sessant’anni fa, ma ci nasconde la stessa realtà in cui viviamo.[2]
Diciamo che il 90% della storia dell’Italia tra il 1919 e il 1945 fu il frutto di quel clima, mentre il 10% – a essere generosi – è dipeso dalla volontà di Benito Mussolini o dei dirigenti del suo partito.
Il fascismo è la maniera in cui Benito Mussolini ha cercato di far cavalcare quel momento storico mondiale a un paese operettistico e artificiale, nato dai delitti, gli intrighi e i massacri (rimossi e nascosti) del Risorgimento. Un paese ferocemente diviso per classi, per regioni e dallo scontro tra laici e clericali.
Mussolini si è attorniato di un gruppo di parvenu della politica, sistemati nelle leve dello stato, in difficile coabitazione con gli eterni gestori del pantano italico.
Questi parvenu riflettevano e diffondevano un modello antropologico che li giustificava e riproduceva il loro potere.
Infatti, non è esistita solo un’economia o una politica fascista. E’ esistito anche un “uomo” fascista, che però il fascismo non ha affatto inventato. C’era infatti già il modello: l’uomo-massa forgiato, sincronizzato e anonimizzato dalle fabbriche ottocentesche e poi fordiste, dalla leva di massa e della trincee della prima guerra mondiale e dall’istruzione obbligatoria giacobina del libro Cuore.
Uno strumento costruito socialmente per la disciplina, l’obbedienza e il sacrificio, legato a un comando unico, militare, partitico o imprenditoriale; e che conviveva, spesso nello stesso corpo, con l’opposta e riottosa umanità di Pulcinella, la nuda, indisciplinata sopravvivenza.[3]
Cosa voleva Mussolini?
Direi questo: mettere a tacere gli scontri sociali attraverso una forzata unificazione nazionale attorno a uno stato mobilitatore che riproduceva il modello fabbrica-trincea, ma in compenso garantiva la sicurezza ai ricchi e una certa ridistribuzione sociale a operai e contadini.[4]
Come far quadrare il cerchio, cioè far stare bene i poveri senza espropriare i ricchi?
La soluzione riprendeva un filone già presente nel tardo Risorgimento. L’idea di realizzare, in una generazione, ciò che l’Inghilterra aveva fatto in quattro secoli: costruire un impero.[5] Anziché litigare per le risorse tra italiani ricchi e italiani poveri, bisognava rubarle al resto del mondo, come avevano fatto appunto gli inglesi, ma anche i francesi, i belgi, gli olandesi, gli spagnoli, i portoghesi e gli statunitensi. Che se non avessero fatto i loro imperi, oggi sarebbero tutti conciati come i tunisini o i colombiani.
L’Italia è un paese così provinciale da non accorgersi del suo stesso imperialismo: ma credo che questo sia il dato fondamentale per capire il fascismo, che è stato un regime relativamente moderato al proprio interno (se facciamo un confronto, ad esempio, con le stragi commesse dal non imperialista Francisco Franco), ma costantemente predatore verso l’esterno. La seconda guerra mondiale è stata semplicemente la prima andata male al fascismo, dopo gli scippi riusciti a sudtirolesi, sloveni, libici, albanesi ed etiopi.
Tutto questo non nasce nel 1922: se vogliamo fissare una data, dobbiamo scegliere il 1911, quando l’Italia liberale invase la Libia, proprio con gli obiettivi che qui abbiamo attribuito a Benito Mussolini. Al massimo, scegliamo come data di inizio il Grande Delitto del 1914-15.[6]
Date le circostanze dell’Italia allora, il progetto fascista comportò una serie di compromessi e aspetti a volte comici, a volte tragici, che sono ciò cui si pensa di più quando si parla del fascismo; ma in realtà il passo dell’oca, le mascelle quadrate, i preti a braccetto con i gerarchi, erano solo manifestazioni esteriori di qualcosa di piuttosto semplice: uno stato protagonista, unitario e imperialista, dentro un sistema economico capitalista.
E con questo, abbiamo dato la nostra definizione in undici parole di fascismo: uno stato protagonista, unitario e imperialista, dentro un sistema economico capitalista. Ciò che somiglia a questo è fascismo; ciò che non vi somiglia non lo è.
Note:
[1] Un brillante testo su questo tema lo scrisse Daniel Guérin, Fascismo e gran capitale, Massari editore, 1994.
[2] Non vogliamo dire che la storia del fascismo si esaurisce guardando i fattori economici; e nemmeno dire che Mussolini era un semplice “agente del grande capitale”. Ma un approccio che parte dalla realtà economica, imprenditoriale e militare di quegli anni è infinitamente superiore agli approcci moralistici che vanno di moda oggi.
[3] Imporre l’unità dentro la nazione significa livellare le diversità etniche interne, quindi la persecuzione di sloveni e sudtirolesi e la durezza verso i dialetti mirava a “farne degli italiani“, non a creare capri espiatori.
La relativa assenza, fino al 1938, di un razzismo diverso da quello di qualunque paese occidentale – un fatto cui si appellano spesso gli apologeti del fascismo – va visto in questo contesto. Nel contempo, però, libici ed etiopi venivano trattati in maniera sprezzante, non in quanto “nemici interni”, ma in quanto oggetti coloniali.
[4] Che lo stato fascista fosse anche uno stato sociale è un luogo comune dell‘apologetica neofascista (e di una certa apologetica liberista che sostiene appunto che gli stati sociali sono di per sé “fascisti”). Il punto è capire il contesto di quelle politiche sociali.
[5] L’italiano antifascista diceva, “come vorrei essere inglese!” Il fascista, in fondo, diceva, “possiamo essere inglesi, basta volerlo!” Entrambi rivelano lo stesso volto dell’italiano odiatore di sé. Ma con un Risorgimento fatto contro gli italiani, non poteva andare diversamente.
[6] Tra i commenti a questo blog, Dalovi ha scritto una riflessione che condivido pienamente:
“L’antifascismo fu l’approdo di parte dell’antinazionalismo e del neutralismo della prima guerra mondiale, nonché dei moti contro la guerra ed il carovita (…o per il pane, la pace e la terra).
Poi, dopo, quando vi fu il regime si caratterizzò nella forma contraria al regime, appunto. Ma era già prima.
Questa continuità (e per alcuni aspetti un certo parallelismo rispetto al percorso che portò altri al fascismo – si potrebbe pensare agli Arditi del Popolo) con l’opposizione al nazionalismo ed all’interventismo aiuta, credo, a comprendere l’antifascismo.”
Tratto da: http://kelebeklerblog.com/2008/11/24/fascismo-antifascismo-neofascismo-e-altri-miti-3/
Sullo stesso argomento:1) Roberto Quaglia: Fascismo Trascendentale
2) Counterpunch: ‘Antifa, il braccio armato del neoliberismo’
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